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“I have a dream” compie cinquant’anni. Perché sognare significa non smettere di lottare

“I have a dream” compie cinquant’anni. Perché sognare significa non smettere di lottare

Il 28 agosto 1963, a termine della lunga marcia a Washington, Martin Luther King tenne il famoso discorso “I have a dream”. Quelle parole compiono oggi cinquant’anni, ma sembrano non invecchiare mai.

All'FBI quel pastore di colore proprio non andava giù. Secondo un memorandum Martin Luther King era il più pericoloso leader nero del paese. Pericoloso perché in odore di comunismo? Chissà. Pericoloso perché fiero oppositore della guerra in Vietnam? Probabile. Ma King era pericoloso soprattutto perché parlava, come quando difese la donna afroamericana Rosa Parks accusata di non aver lasciato il suo posto sull’autobus a un ragazzo bianco, e parlava tanto, come quel giorno al Lincoln Memorial di Washington. Da allora gli uomini di J.E. Hoover non gli si staccarono più di dosso, ma poco poterono fare contro quel nero che parlava come un bianco e che sognava più di un bianco. Il 28 agosto 1963 circa 250.000 persone presero parte alla celebre “marcia per il lavoro e la libertà” e assistettero a quello che forse è diventato il discorso più celebre del XX secolo: “I have a dream”. Per diciasette minuti il leader dei diritti civili degli afroamericani trattenne la folla dei manifestanti, e il resto dell’America che lo guardava alla tv, osando dire l’indicibile: che la giustizia passava per l’uguaglianza, che la libertà non conosceva differenze razziali e che gli uomini, in fondo, erano tutti uguali.

Da quel mercoledì di agosto, “I have a dream” è diventato il discorso forse più citato, abusato e copiato di sempre. Intellettuali, campagne pubblicitarie e artisti d’ogni genere hanno provato a riprodurne l’irripetibile circolarità delle parole, a riprenderne la coinvolgente retorica delle immagini e a ricalcarne lo spirituale ritmo della orazione. Ma l’immortalità di quel discorso si nasconde nella totale unicità del come, del quando e del perché quelle parole vennero pronunciate. E soprattutto da chi.

Gli anni Sessanta, nonostante il Civil Rights Act del 1964 che metteva fuori legge la segregazione razziale nelle scuole, continuarono ad essere bagnati dal sangue delle violenze contro donne e uomini di colore, violenze che culminarono con l’uccisione, nel febbraio 1965, di Malcolm X. L’opera di Martin Luther King, però, continuò: manifestazioni attraversarono diversi stati americani, dalla Florida all’Alabama, e campagne in favore dei diritti sulla casa e delle fasce più deboli accrebbero la forza della protesta. Mentre sempre più persone, negli Stati Uniti e nel mondo si avvicinarono alla lotta del pastore non-violento di Atlanta. E di quella lotta “I have a dream” divenne il simbolo indiscusso: la voce capace di mobilitare, e appunto di far sognare.

Da allora ad oggi molta strada è stata fatta in termini di integrazione, ma tanto sembra ancora il cammino da percorrere. Nei meandri dell’America e dell’Occidente altre forme di discriminazione, viscide e sotterranee, corrono tra i sobborghi del centro, ai margini del lusso metropolitano, lungo le coste del Mediterraneo. Galere e periferie puniscono le coscienze di quelli che, più di tutti, sembrano essere i diseredati della storia e i dannati del pianeta.

Alle 18 del 4 aprile 1968, su un balcone di Memphis, un proiettile tolse la vita a Martin Luther King. Nell’iscrizione funebre che accompagnò la sua bara si leggeva: “Free at last”. L’uomo, il nero, l’attivista, che visse sulla terra contro le ingiustizie, solo nell’altro mondo parve sentirsi finalmente libero. A cinquant’anni da quel giorno a Washington in molti, afroamericani e non, hanno ancora un sogno: vivere e andarsene da questo mondo finalmente liberi.

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