Presidenziali USA, l’analisi dei dati: Donald Trump e la vittoria del meno odiato
- Scritto da Lorenzo Zamponi
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Le elezioni presidenziali degli Stati Uniti sono sulla bocca di tutti, com’è normale che sia, di fronte all’egemonia economica, militare e culturale che Washington continua a esercitare sul resto del mondo. La vittoria di Donald Trump su Hillary Clinton, come già era avvenuto con la Brexit, sta provocando letture isteriche e parziali: da una parte chi si strappa i capelli e grida all’abolizione del suffragio universale perché un orda di nazisti ha eletto un mostro, privando il mondo di una leader progressista e responsabile, dall’altra chi vede nella vittoria di Trump un'esaltante rivolta popolare delle masse sfruttate contro l’élite globale.
Letture parziali che contengono sicuramente elementi di verità, intendiamoci, ma che rischiano di nascondere le tendenze reali osservabili nelle scelte dell’elettorato, e quindi di non fornire indicazioni utili all’azione politica, ma solo rabbia e angoscia acchiapa-click. Come già fatto in occasione della Brexit, si tenterà di leggere alcuni aspetti dai dati elettorali e di provare a evidenziare le linee di tendenze più interessanti che emergono. Per l’analisi verranno utilizzati gli exit poll prodotti da Edison Research e utilizzati dai maggiori organi di stampa americani. Non avendo disponibile l’intero dataset ma solo alcune sue rappresentazioni pubblicate in diversi organi di stampa, i grafici provengono o da quelle fonti (in particolare dal sito della CNN e da quello del NY Times) o sono stati prodotti da chi scrive rielaborando quei dati.
La composizione sociale e generazionale: nessun ribaltamento, ma una visibile erosione
La vittoria di Trump è stata interpretata da molti come una rivincita della working class, che avrebbe abbandonato i democratici per schierarsi con la destra. È andata versamente così? I dati ci dicono che la storia è diversa, ma ugualmente interessante. Secondo gli exit poll, il voto per Trump è stato nettamente minoritario nelle fasce di reddito più basse, che hanno votando in maggioranza per Clinton, mentre dai 50 mila dollari all’anno di reddito in su è stato il candidato repubblicano a prevalere. Di fatto, sia la composizione dell’elettorato di Clinton sia quella dei sostenitori di Trump sono assolutamente interclassiste, e parlare di un candidato presidenziale che rappresenti le classi popolari è impossibile, sebbene, comunque, i cittadini a basso reddito abbiano nettamente preferito Hillary Clinton a Donald Trump.
Ciò non significa che la tesi di uno sfondamento di Trump nella working class sia completamente infondata. Se, infatti, confrontiamo i dati di queste elezioni con quelli delle precedenti, vediamo che la vittoria di Obama nelle fasce di reddito basso era stato molto più netta: tra gli elettori che guadagnano meno di 30 mila dollari all’anno, Obama aveva battuto il candidato repubblicano Mitt Romney 63-35, mentre Clinton ha battuto Trump 53-41: un recupero di ben 16 punti da parte del candidato repubblicano su quello democratico. Analogamente, tra i votanti con un reddito tra i 30 i 50 mila dollari all’anno, Trump ha perso con 6 punti di distacco in meno rispetto a 4 anni fa.
Quindi: non è vero che Trump ha mobilitato i ceti popolari in rivolta contro l’élite, anzi, la maggioranza del suo elettorato è composta da esponenti di classi medio-alte, mentre gli elettori a reddito basso hanno preferito Hillary Clinton. Ma è vero che c’è uno spostamento visibile nelle preferenze dell’elettorato popolare, al cui interno Trump è andato meglio (o meno peggio) di qualsiasi repubblicano da quando esistono questi dati, cioè dal 2004: sia George W. Bush, sia John McCain, sia Mitt Romney erano andati molto peggio di lui nei ceti medio-bassi. O, vedendola dall’altra parte, Hillary Clinton è stata in grado di perdere una parte della credibilità nei confronti degli elettori di reddito medio-basso che invece Kerry e Obama avevano mantenuto.
Dove invece Trump dimostra di non saper fare meglio dei suoi predecessori è sul fronte generazionale: il candidato repubblicano è risultato maggioritario solo tra gli over 45, e in questo è pienamente in linea con la tradizione repubblicana: dal 1992, quando si sono iniziati a raccogliere questi dati, nessun candidato di destra ha mai prevalso tra gli under 30. La composizione dell’elettorato, da questo punto di vista, è nettamente diversa tra i due candidati: gli under 45 rappresentano quasi metà dei sostenitori di Clinton e poco più di un terzo di quelli di Trump.
La composizione etnica: la solita destra, un democratico più debole
Nessun dato di classe né generazionale, in ogni caso, divide i candidati più nettamente dell’appartenenza etnica (“razziale”, direbbero negli Stati Uniti, anche se il termine in Europa suona decisamente sinistro) degli elettori. Gli elettori di pelle bianca hanno votato per il 58% Trump e per il 37% Clinton, mantenendo la prevalenza repubblicana in questo gruppo sociale, che si è sempre verificata dal 1972, anno in cui si è iniziato a misurare questo dato. Fra i neri, la prevalenza di Clinton è nettissima, con l’88%, e se Trump fa meno peggio dei suoi predecessori del 2012 e del 2008 è solo perché loro avevano di fronte Barack Obama, che per ovvi motivi detiene il record assoluto di consensi tra gli afroamericani. Il candidato repubblicano è nettamente minoritario anche tra i cittadini di origine latinoamericana, anche se il risultato è in linea con la tradizione della destra e non è il disastro che molti avevano previsto data l’intensa campagna razzista anti-messicana condotta da Trump.
La prevalenza di Trump tra gli elettori bianchi è l’elemento dominante su qualsiasi altro fattore, dall’età al genere al livello d’istruzione: il candidato repubblicano batte Hillary Clinton tra i bianchi giovani e tra quelli anziani, tra gli uomini bianchi e tra le donne bianche, tra i bianchi laureati e tra quelli non laureati. Senza neri, latinos e asiatici, la differenza tra Trump e Clinton sarebbe stata di ben 21 punti percentuali. Ciò che deve far riflettere è che Barack Obama, sia nel 2008 sia nel 2012 aveva ottenuto risultati significativamente migliori di quelli di Hillary Clinton tra gli elettori bianchi: difficile, insomma, liquidare come semplicemente razzisti elettori che hanno votato per ben due volte un afroamericano per la presidenza degli Stati Uniti.
Ciò che si nota, guardando la serie storica, è che, con l’eccezione di Obama, che è evidentemente riuscito a mobilitare una quota senza precedenti (e, per ora, senza successori) di elettori di colore, gli unici candidati democratici ad aver vinto negli ultimi 40 anni sono stati quelli che sono riusciti a ridurre il gap con i repubblicani all’interno dei bianchi. Cioè, per metterla sul piano dei contenuti, quelli che sono riusciti a non far diventare il dato “razziale” determinante per la scelta di voto. Più la destra è in grado di massimizzare la sua strutturale prevalenza nell’elettorato bianco, più certa sarà di vincere.
La composizione religiosa e politica: una polarizzazione anti-Clinton
Come nei casi precedenti, i risultati di Donald Trump risultano perfettamente in linea con la tradizione della destra americana anche per quanto riguarda la religione: il candidato repubblicano prevale nettamente tra gli elettori di fede protestante, come del resto era avvenuto a tutti i suoi predecessori da quando, nel 1972, si è iniziato a raccogliere questo dato. Anzi, tra i protestanti, nonostante il suo profilo pubblico non certo morigerato, Trump vince con maggiore nettezza rispetto a Romney e McCain. Emerge, in questo senso, la spregiudicatezza della destra religiosa nel voto strategico: nonostante il candidato repubblicano meno religioso degli ultimi decenni, lo spauracchio della vittoria di una democratica che avrebbe nominato giudici liberal alla Corte Suprema (fondamentale per temi come aborto o matrimonio gay) ha mobilitato la destra protestante a sufficienza.
L’impressione che per certi aspetti si sia trattato più di un voto anti-Clinton che di un voto pro-Trump è confermata dagli indicatori delle preferenze politiche legati al giudizio sull’amministrazione uscente e sull’altro candidato. La valutazione che danno di Obama gli elettori di Trump e, infatti, sorprendentemente positiva, almeno in termini relativi: quasi il 12% di loro approva l’operato del presidente uscente, e Trump prende il 19% dei voti di chi pensa che la condizione dell’economia americana sia buona (24 punti in più rispetto a 4 anni fa) e il 55% di chi pensa che vada più o meno bene (ben 29 punti in più rispetto a 4 anni fa).
Insomma, la tesi di un voto dettato semplicemente dalla rabbia economica regge fino a un certo punto: per essere suoi oppositori, gli elettori di Trump hanno un giudizio tutto sommato positivo sulle politiche di Obama, e il loro giudizio sull’economia del paese tende a essere meno critico rispetto a quello dei repubblicani di quattro anni fa. Più che contro il presidente uscente, sembra che una parte significativa dell’elettorato ce l’avesse proprio con Hillary Clinton. Se infatti si analizzano i dati riguardanti il giudizio su entrambi i candidati, si osserva che, com’è prevedibile, Clinton tende a prevalere tra chi apprezza solo lei e Trump tra chi apprezza solo lui, ma, soprattutto, il candidato repubblicano vince in maniera nettissima tra chi non apprezza nessuno dei due. Lo stesso meccanismo è riscontrabile nei giudizi sull’onestà dei candidati e su quanto siano qualificati per il lavoro di presidente: a risultare decisiva è la prevalenza degli elettori di Trump tra chi considera entrambi disonesti ed entrambi non qualificati. Insomma: c’è una quota significativa di elettorato che, se si deve trovare a scegliere tra due candidati che non apprezza, e che considera disonesti e impreparati, preferisce Trump a Clinton.
La logica del “meno peggio”, tanto evocata a favore di Hillary Clinton, sembra in realtà aver finito per premiare il suo avversario. Infatti, se dall’Italia la percezione, almeno durante la campagna elettorale, era di un’elezione polarizzata su Trump, con un forte movimento di destra a suo sostegno e una mobilitazione contro di lui dall’altra parte, gli exit poll ci dicono il contrario: tra gli elettori che hanno votato perché fortemente convinti dal proprio candidato prevale Clinton, mentre Trump ha vinto, e nettamente, tra coloro che hanno votato più per opporsi all’altro candidato che per sostenere il proprio. Il dato è evidente: per una quota significativa di elettori americani, che non ha fiducia per alcun candidato, compreso Trump, quest’ultimo rappresentava comunque il meno peggio, rispetto a Hillary Clinton.
La mucca nel corridoio: la grande fuga dal bipartitismo
Le considerazioni proposte nelle sezioni precedenti ci suggeriscono un quadro più complesso di quelli superficialmente esposti da molti ma comunque interessante: Trump sembra aver fatto più o meno “la solita destra”, massimizzando la propria prevalenza nell’elettorato bianco, ricco e protestante, e in più sembra aver leggermente ma significativamente scalfito una parte dell’elettorato di Obama, in particolare tra i bianchi a reddito medio-basso, raccogliendo il consenso di una parte di società che, semplicemente, non si fida di Hillary Clinton.
Parlare di voti strappati dalla destra ai democratici è difficile, se si guardano i voti assoluti. La mucca nel corridoio, per citare una celebre espressione di Pierluigi Bersani su ciò che è presente ma non si vuole vedere, è quella della fuga degli elettori americani dal sistema bipartitico, sia attraverso l’astensione sia attraverso il voto per i “terzi partiti”. Non solo, infatti, 3,2 milioni di americani in meno hanno votato nel 2016 rispetto al 2012, ma oltre 4 milioni hanno votato per il libertario Gary Johnson e 1,2 per la verde Jill Stein. Sia Trump sia Clinton hanno preso molti meno voti dei loro omologhi Romney e Obama nel 2012, e in totale i due partiti maggiori hanno perso 7,2 milioni di voti rispetto a 4 anni fa.
Se si guardano i voti presi dai principali candidati negli ultimi 30 anni, l’impressione è che queste elezioni abbiano segnato un ritorno al passato, dopo la stagione di intensissima partecipazione segnata dalla figura di Barack Obama: il primo presidente afroamericano della storia, e il presidente che ha guidato gli Stati Uniti durante la crisi finanziaria, ha polarizzato fortemente l’elettorato e mobilitato, sia a suo sostegno sia contro di lui, parti della popolazione che, uscito lui di scena, sono semplicemente tornate nell’apatia in cui stavano prima. Il dato più visibile è quello dei democratici: in termini di consenso popolare, Obama è stato l’eccezione, ed è stato un errore prenderlo per la regola. Una volta candidata Hillary Clinton, il sostegno ai democratici è tornato sui livelli precedenti, quando, la maggior parte delle volte, perdevano le elezioni.
In sintesi: il fallimento di un ritorno al passato
Per capire la vittoria di Donald Trump, bisogna prima di tutto tenere conto delle condizioni eccezionali in cui avvenuta: di fatto il candidato repubblicano ha preso oltre 200 mila voti in meno rispetto a Hillary Clinton, e ha vinto solo grazie a un sistema elettorale che sovrarappresenta in maniera significativa gli elettori che abitano nelle aree rurali. Quelle aree rurali sono quelle dove Trump ha prevalso in maniera più netta, e ciò vale sia in termini economici (come fece notare già in luglio Michael Moore, le aree post-industriali sono particolarmente sensibili alla critica della globalizzazione e della delocalizzazione delle imprese) sia in termini etnico-razziali (le metropoli costiere non sono solo, come spesso si dice, i posti dove vive l’élite progressista istruita, ma anche e soprattutto il luogo di residenza della grande maggioranza di neri e latinos). Con un solo punto percentuale in più a livello nazionale, Clinton avrebbe vinto in maniera nettissima, e staremmo tutti facendo ben altre analisi.
Ma così non è successo, e l’analisi ne deve tenere conto. In ogni caso, se teniamo insieme il dato sociale e generazionale, quello religioso e politico, e l’affluenza, l’impressione è che si sia trattato molto più di una sconfitta di Hillary Clinton che di una vittoria di Donald Trump. Il candidato repubblicano non sembra aver ottenuto risultati eccezionali, limitandosi a massimizzare il consenso della solita destra americana, con l’unica eccezione di una leggera ma significativa erosione del consenso democratico, tuttora comunque maggioritario, nei ceti medio-bassi. Ben più rilevante sembra il fallimento di Clinton, che ha preso ben 5 milioni di voti in meno rispetto a quelli presi da Obama 4 anni fa e quasi 10 milioni in meno di quelli del 2008.
Più che sulla rivolta popolare a sostegno di Trump (che esiste, come si è visto, ma in proporzioni piuttosto basse), bisognerebbe forse concentrarsi sulla bancarotta politica dell’élite liberal, che è riuscita a farsi battere da un candidato repubblicano tutto sommato debole e impopolare come il milionario newyorchese. Il dato che sembra emergere con maggiore forza dall’analisi degli exit poll è l’impopolarità di Hillary Clinton, che resta forte tra le fasce maggiormente istruite della popolazione, tra le minoranze etniche e tra gli LGBT, ma che perde visibilmente quota nella working class bianca. È noto ormai da decenni che i democratici americani siano in minoranza, tra gli elettori, sul piano dell’identity politics. Come facemmo notare raccontando la vicenda di Bernie Sanders, sul piano della culture war, cioè della battaglia sui valori, tra progressisti e conservatori, che da decenni divide la politica americana intorno a sette temi (aborto, uso delle armi, laicità dello stato, privacy, droghe leggere, omosessualità e censura), la destra americana resta egemonica, seppure questa egemonia sembri destinata a calare per motivi prettamente generazionali e demografici. Una proposta politica liberista in economia e progressista nei valori ha vinto solo due volta, negli ultimi decenni, entrambe le volte a opera di Bill Clinton. Le successive vittorie di Obama furono costruite sulla straordinaria mobilitazione popolare a sostegno di un candidato innovativo e carismatico, ma anche e soprattutto sul tema della crisi economica e delle politiche necessarie per fronteggiarla. Obama era un candidato afroamericano, ma era anche e soprattutto il candidato che sfidava l’establishment democratico sulla fine dell’impunità assoluta per Wall Street e sulla necessità di politiche anticicliche. La sua proposta politica, sia nel 2008 sia nel 2012, vedeva un’alleanza tra identity voters (con il record assoluto di voti espressi dai neri nella storia) ed elettori anti-crisi (con una quota di bianchi significativamente maggiore di quelli conquistati da Hillary Clinton, in particolare nelle classi popolari). E per quanto le politiche di regolamentazione finanziaria e di stimolo keynesiano dell’economia messe in campo da Obama siano state moderatissime (per non parlare della disastrosa politica estera), anche una parte significativa degli elettori di Trump tuttora sostiene di apprezzarle. A non essere risultato credibile è stato il ritorno al passato, agli anni ’90, all’idea che una proposta politica liberista in economia e progressista nei valori possa essere vincente. A essere stata sconfitta, prima di tutto, è stata Hillary Clinton e tutto ciò che rappresenta, cioè l’incarnazione dell’establishment liberal che ha sostenuto la globalizzazion e la deregulation finanziaria.
L’impressione è che Hillary Clinton si sia dimostrata incapace di tenere insieme la coalizione tra identity voters ed elettori anti-crisi costruita da Obama, mentre Trump sia riuscito a tenere meglio dalla propria parte (più per antipatia verso l’avversario che per popolarità propria) e ad erodere parzialmente un pezzettino di elettorato democratico, più su base razziale, e razzista, che economica. Rompere l’asse economico ed imporne uno razziale e nazionale: niente di più classico, a destra. Trump ha fatto, abbastanza bene e senza particolari trionfi, il lavoro della destra. Ciò che è mancato, semplicemente, è stata una sinistra. Qualcuno che sapesse imporre il frame delle disuguaglianze economiche come prioritario su quello delle identità, o quantomeno sullo stesso livello, come successe con Obama quattro e otto anni fa. È mancato il tentativo di Bernie Sanders di costruire una coalizione anti-1% che andasse oltre la culture war, tentativo speculare a quello trumpiano e forse potenzialmente ancora più potente, di questi tempi. È difficile dire se un candidato one-issue, concentrato principalmente e sostanzialmente sulle disuguaglianze economiche, come Sanders, sarebbe stato in grado di imporre questo frame alla campagna elettorale impedendo a Trump di giocarla tutta sul piano razzista e nazionalista. Di certo, Sanders non si portava dietro il bagaglio di impopolarità che Clinton è riuscita ad accumulare in tre decenni di leadership politica nazionale.
I democratici americani credevano che le due elezioni vinte da Obama avessero segnato un punto di non ritorno, che la composizione generazionale e demografica del paese fornisse loro un vantaggio strutturale. In prospettiva, non hanno tutti i torti, ma per ora non è assolutamente così. Hanno preso per regola un’eccezione, e cioè la capacità di un candidato presidente di mobilitare pezzi di società enormi e variegati, dai neri alla working class bianca. Hillary Clinton, e con lei l’establishment liberal, non è risultata credibile per milioni di elettori, che se non hanno votato Trump hanno preferito stare a casa o scegliere il candidato di un terzo partito. Sta alla sinistra americana, all’interno e all’esterno del Partito Democratico, adesso, capire se e come è in grado di contendere quella parte di popolazione alla destra nazionalista e xenofoba. Una destra che, del resto, a poche ore dalla vittoria, sembra già mostrare quanto fossero credibili le sue promesse di battaglia anti-establishment: dalla nuova deregulation finanziaria all'annunciata nomina di un uomo di JP Morgan al Tesoro, Trump sembra orientato a essere, anche dal governo, la solita destra. Va capito se a opporsi a lui saranno i soliti liberal, oppure se sarà in campo anche una nuova sinistra popolare e radicale. L'opportunità è aperta, e sarà il campo dell'opposizione e dell'alternativa al presidente Trump quello in cui ci si misurerà.
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