Il dilemma del “premier terzo” e la coalizione tra non-partiti, a cavallo tra Prima e Seconda Repubblica
- Scritto da Lorenzo Zamponi
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Da giorni Movimento Cinque Stelle e Lega discutono della formazione di un governo di coalizione. I leader dei due partiti, Di Maio e Salvini, dicono di essere vicini a una convergenza sul programma di governo (ribattezzato “contratto” dai grillini) e sui giornali impazza il totonomi sul cosiddetto “premier terzo”, la figura che dovrebbe essere individuata come presidente del consiglio dalle due forze politiche. Vediamo insieme perché è così complicato trovare una figura in grado di interpretare questo ruolo, e perché, se anche fosse trovata, porterebbe a conseguenze politiche molto difficili da gestire per Salvini e Di Maio.
Quello che i leader di Lega e M5S stanno provando a far nascere è, di fatto, il primo vero governo di coalizione da oltre 20 anni a questa parte. Certo, nella Seconda Repubblica l’Italia è sempre stata guidata da coalizioni, ma erano coalizioni formate prima delle elezioni, presentatesi unite alle elezioni e già con un leader pronto a essere incaricato dal Presidente del Consiglio in caso di vittoria elettorale: fu questo il caso Berlusconi e Prodi nel ’94, ’96, 2001, 2006 e 2008, per intenderci. Dopo le elezioni del 2013, fu formata una grande coalizione tra il Pd e una parte del centrodestra (prima Forza Italia, poi Ncd), ma in realtà il Pd aveva già, grazie al premio di maggioranza incostituzionale del Porcellum, numeri talmente rilevanti da poter rivendicare senza alcuna remora la poltrona di Palazzo Chigi, che infatti venne occupata da Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni senza bisogno di grosse trattative. Monti, nel 2011, fu l’eccezione, ma neanche lì ci fu la costruzione di una vera coalizione: il governo nacque con il sostegno dei maggiori partiti, ma senza la loro partecipazione diretta, e, anzi, in tensione costante con essi.
Stavolta, invece, Salvini e Di Maio devono fare come si faceva nella Prima Repubblica, fino al 1992: costruire, dopo le elezioni e sulla base dei rapporti di forza decisi dai cittadini, una coalizione, con un programma e una squadra di governo che lo realizzi. E, come si faceva fino al 1992, devono mettersi d’accordo su chi deve guidare questo governo. E qui sta il problema: perché il 1992 è passato, la Prima Repubblica è finita da tempo, e le forze politiche protagoniste di questa vicenda hanno le radici ben piantate nella Seconda, quella dei non-partiti, dei leader e della centralità del premier.
La soluzione più tipica, in caso di governo di coalizione, infatti, è che a guidarlo sia una seconda linea. Essendo i rispettivi leader profondamente identificati con il proprio partito, si cerca una persona meno caratterizzata, e quindi in grado di rappresentare sia il proprio partito sia il partner, attenuando i tratti di differenza. Ma dove sono, le seconde file, in non-partiti leaderistici come quelli della Seconda Repubblica? La Lega, per la verità, ha qualche personalità, oltre a Salvini, ma nessuna di queste potrebbe mai rappresentare pienamente il partito. Figuriamoci il Movimento Cinque Stelle, in cui l’esistenza di altre figure dirigenziali diverse da quella del capo politico è assolutamente bandita: Luigi Di Maio è stato scelto dalla base M5S come candidato alla presidenza del consiglio, chi potrebbe prendersi la responsabilità di sceglierne un altro, e a che titolo? Del resto, tutte le ipotesi di governo discusse in questi giorni prevedono la presenza di Di Maio e Salvini all’interno del governo, altra cosa piuttosto anomala nella tradizione dei governi di coalizione in Italia, ma assolutamente necessaria in questo contesto: Di Maio e Salvini sono i depositari del consenso popolare espresso nei confronti dei propri partiti, e senza la loro diretta presenza il governo non avrebbe alcuna legittimazione. Di più: sarebbe costantemente a rischio. In tutta la Seconda Repubblica, ogni volta che c’è stato un leader di partito forte e riconosciuto dalla propria base, azionista di maggioranza del governo ma non parte integrante della squadra dell’esecutivo, quel governo è sistematicamente caduto, tutte le volte: D’Alema nel caso del primo governo Prodi nel ’98, Veltroni con il secondo governo Prodi nel 2008, Renzi con il governo Letta nel 2014. Leadership di partito forti, in un contesto di partiti deboli, devono essere assolutamente integrate nel governo, pena rendere quel governo debolissimo e condannarlo in partenza. E ciò rende ancora più difficile l’identificazione del presidente del consiglio tra le “secondo linee” di cui sopra: è possibile che dentro il governo si ripropongano rovesciati i rapporti gerarchici presenti in un partito? Può Giorgetti essere un autorevole capo del governo di cui è ministro Salvini, se nel frattempo Salvini è capo di Giorgetti nel partito? Il corto circuito è dietro l’angolo.
Un’altra opzione di cui si è parlato molto, e che è stata usata talvolta in passato, è quella del presidente del consiglio “tecnico”. Una persona esterna ai partiti, “terza”, imparziale, che garantisca l’equilibrio all’interno del governo. Se ne è parlato tanto, in questi giorni. Teoricamente, l’uovo di Colombo. Concretamente: un disastro in preparazione. Come potrebbero i due partiti che più di ogni altro hanno spinto sul tema della riconquista della sovranità popolare da parte dei cittadini delegare il governo a una figura esterna, scelta in un negoziato privato tra leader di partito? Come si giustificherebbe la nomina di un “tecnico” dopo gli anni dell’opposizione dura al Monti “golpista” e a Renzi “non eletto”? E soprattutto, quale tecnico potrebbe avere la credibilità e l’autorevolezza per gestire un’alleanza eterogenea attraverso passaggi politici delicatissimi?
Il vero tema a cui molti sembrano voler sfuggire è quello del ruolo del presidente del consiglio nella politica di oggi, sempre meno “primo ministro” in senso tradizionale e sempre più “premier” all’inglese, sempre meno gestore e garante dell’equilibrio tra i partiti, veri depositari del potere politico, e sempre più leader autorevole, guida sostanziale del paese. Un eventuale governo M5S-Lega, se il negoziato andasse a buon fine, probabilmente finirebbe per somigliare molto a un governo di coalizione stile Prima Repubblica, in cui la dialettica politica si svolge sempre meno tra governo e opposizione e sempre più tra i vari partiti all’interno dello stesso governo. Un ritorno al passato, quando polemiche durissime opponevano, ad esempio, socialisti e democristiani al governo, talvolta addirittura più di quanto accadesse con l’opposizione comunista. Se immaginiamo un governo con Salvini e Di Maio ministri, e allo stesso tempo leader dei due maggiori schieramenti politici, costantemente proiettati verso il prossimo scontro elettorale, è probabile che si riproponga una dinamica simile: una collaborazione piuttosto competitiva, per usare un eufemismo.
Ciò che non sembra potersi riproporre in maniera simile a quanto accadeva nella Prima Repubblica è il ruolo del presidente del consiglio come semplice arbitro di questa contesa. Da ormai 25 anni (ma in realtà la mutazione è già iniziata negli anni ’80), il presidente del consiglio è di fatto il leader politico del paese, la figura in assoluto più visibile e riconosciuta del panorama istituzionale, il detentore concreto del potere esecutivo. Non a caso, anche quando sono stati scelti presidenti del consiglio “tecnici” o di seconda fila, in questi anni, l’ingresso a Palazzo Chigi li ha lanciati come personalità politiche a tutto tondo: da Carlo Azeglio Ciampi che finì addirittura al Quirinale a Mario Monti che fondò un proprio partito per le elezioni successive. Davvero possiamo immaginare, oggi, un presidente del consiglio “notaio”, un silenzioso professore che arriva, tratta al Consiglio Europeo sull’unione bancaria e la costituzionalizzazione del fiscal compact, vara la legge di bilancio, va in tv a prendersi l’intera responsabilità di ciò che piace e non piace agli italiani del suo operato, però allo stesso tempo risponde a Di Maio e Salvini di ogni sua mossa, media tra loro, e sparisce un minuto prima delle prossime elezioni, in modo da permettere ai due leader di rigiocarsela tranquillamente? Sinceramente, tra tutti gli aspetti della Prima Repubblica che possono ritornare in questa crisi (speriamo finale) della Seconda, questo appare il più improbabile. Tale è la centralità del presidente del consiglio nella politica italiana di oggi, che Paolo Gentiloni, uno che cinque anni fa arrivava terzo con il 15% dei voti alle primarie per il candidato sindaco del centrosinistra a Roma, dietro a Ignazio Marino e David Sassoli (non propriamente due pesi massimi), oggi è il politico più popolare d’Italia, e di fatto, se si votasse domani, sarebbe il leader del centrosinistra. Un premier “terzo”, magari tecnico, rischierebbe o di fare la fine del vaso di coccio tra i due vasi di ferro Di Maio e Salvini, facendo crollare il governo nel giro di pochi mesi, o di acquisire una popolarità tale da oscurare entrambi i leader, determinando una competizione imprevista e finendo poi, magari, per candidarsi contro di loro alle elezioni successive. Questo, del resto, fu quello che avvenne con Mario Monti, che dopo essere stato fedelmente sostenuto da Bersani e Berlusconi, nell’impopolarità generale, per un anno e mezzo, li ripagò candidandosi contro di loro e impedendo di fatto a entrambi di vincere e governare, alle elezioni del 2013.
In un contesto come quello di oggi, di distanza siderale tra cittadini e istituzioni, due partiti a cui non mi unisce praticamente nulla, e del cui eventuale governo mi sentirei naturalmente all’opposizione, come M5S e Lega, si sono però intestati un obiettivo meritorio: provare a colmare questa distanza. Si può fare con l’ennesima delega a una figura la cui legittimità venga da presunte competenze “tecniche” o dall’accreditamento verso poteri nazionali o esteri ben poco trasparenti? Abbiamo veramente bisogno di perpetuare il commissariamento della politica? A cosa serve il populismo, anche quello conservatore o reazionario, se non prova neanche a ricontrattare il patto tra istituzioni e cittadini in nome di una nuova legittimità democratica? Insomma, per brutalizzare: tutto questo casino per trovarci a Palazzo Chigi un altro bocconiano che tra 6 mesi si farà il suo partitino liberale dall’8%?
Non basta tornare a proporzionale e multipolarismo per chiudere con la Seconda Repubblica. La Prima Repubblica era la repubblica dei partiti. Riproporne il funzionamento in assenza di soggetti politici in grado di organizzare il consenso popolare, la rappresentanza parlamentare e l’amministrazione esecutiva in maniera coordinata e stabile, significa condannarsi al fallimento. Nell’epoca dei non-partiti, della loro dipendenza dai rispettivi leader e della centralità del presidente del consiglio, riproporre le vecchie logiche di coalizione, basate sulla distinzione tra responsabilità di partito ed esecutive, sulla nomina a premier di una “seconda fila” o di un “tecnico terzo” e sulla sua scasa visibilità a vantaggio dei partiti, pare davvero poco realistico.
Ciò dovrebbe suggerire di affrontare il grande rimosso degli ultimi 25 anni: la riforma dell’organizzazione politica. Per un quarto di secolo ci si è illusi che alla crisi di rappresentanza che si era aperta con il declino dei partiti si potesse rispondere con l’ingegneria istituzionale e l’invenzione di un sistema elettorale sempre diverso, rimuovendo invece il tema della necessità di nuovi soggetti politici in grado di rendere effettivo l’articolo 49 della Costituzione, cosa che, evidentemente, i partiti come li conosciamo oggi non sono strutturalmente in grado di fare. La Terza Repubblica, se non vuole morire prima di nascere, deve partire da qui, immaginando e praticando canali di partecipazione politica all’altezza dei tempi.
Nel breve termine, si potrebbe iniziare ad andare in quella direzione facendo una scelta semplice, quella che caratterizza i governi di coalizione in qualsiasi paese europeo: l’attribuzione della presidenza del consiglio al leader del partito di maggioranza relativa. L’identificazione tra leadership di partito e leadership dell’esecutivo, intendiamoci, è una forzatura rispetto al meccanismo parlamentare costituzionale, non priva di rischi, e il Pd l’ha pagata cara, ad esempio, negli anni di Renzi. Ma è una forzatura non priva di precedenti di successo (e capisco che possa sembrare ardito paragonare Luigi Di Maio ad Alcide De Gasperi, ma è la storia a farlo, non chi scrive), e che quantomeno darebbe al governo una guida autorevole dal punto di vista del consenso popolare e della capacità di rispondere ai cittadini. Oggi, va detto, non sembra assolutamente realistico che la Lega accetti un’opzione del genere. Ma, allora, forse, la domanda che dovremmo farci è un’altra: se per un partito è assolutamente impensabile vedere il leader di un altro partito alla guida del proprio governo, è davvero il caso di farci un’alleanza? Se, come Salvini continua a ripetere, la Lega non può appoggiare un governo a guida Di Maio, quest’alleanza di governo ha davvero senso?