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Cambiare in periferia, oltre la retorica

Cambiare in periferia, oltre la retorica

Le recenti elezioni amministrative hanno riportato in auge il concetto di periferia, la nuova parola jolly di ogni dibattito politico veramente al passo con i tempi, in una chiave di lettura spesso superficiale e stereotipata delle trasformazioni sociali e politiche alla base dei recenti risultati elettorali.

Si sta ripetendo in altre forme ciò che era già avvenuto poco meno di un anno fa, quando interi quartieri come Tor Sapienza o Quinto di Treviso erano finiti in prima pagina – in netto contrasto con l'oblio nel quale sono solitamente relegati – a causa di una questione come quella dell'accoglienza dei richiedenti asilo, che nel nostro Pese si è tramutata, più o meno artificialmente, in un'emergenza. La narrazione mainstream sulle periferie sembra oscillare tra l'emergenza e la stasi, tra l'apparente esplosione improvvisa e inaspettata di problemi e contraddizioni e l'affresco cupo di una distanza antropologica incolmabile tra chi abita in periferia e la civiltà del centro. Oltre questa retorica rimane una realtà forse molto più difficile da analizzare e raccontare ma a volte ben più problematica – e allo stesso tempo ricca di potenziali opportunità – di quanto la si descriva.

 


'Tamara', di Federica Fragapane, via Pinterest

 

Una storia di periferia

Periferia, dal greco περὶ φέρεια, significa letteralmente «linea curva che tornando sopra se stessa racchiude uno spazio, forma una figura», un concetto sostanzialmente autonomo – e abbastanza generico – che tuttavia non corrisponde con il significato che ha via via acquisito il termine in italiano. Solitamente tendiamo a definire la periferia per contrasto rispetto al centro: periferia è ciò che sta fuori, che è marginale, lontano, rispetto ad esso. Il centro viceversa non si definisce tanto in opposizione alla periferia quanto per le sue qualità intrinseche: un insediamento storico, la presenza di edifici pubblici e privati importanti e delle funzioni che essi contengono, l'accessibilità e così via.

Quella della periferia come opposto del centro è evidentemente una definizione efficace e immediata, che allo stesso tempo rivela un dato molto importante: definendo la periferia in ragione del centro tendiamo a guardare tutto dalla prospettiva di quest'ultimo. Stando nei perimetri di questo frame cognitivo la periferia in sé per sé non esiste, ma soprattutto sembra non poter esistere come oggetto di ricerca (e di azione) autonomo, dotato di una sua dignità al di là della subordinazione al centro in termini di localizzazione, accessibilità, presenza di servizi, qualità del costruito e via dicendo.

Limitandoci geograficamente all'Italia e temporalmente a partire dal secondo Dopoguerra possiamo individuare – con un buon grado di approssimazione – due fasi diverse dello sviluppo delle periferie, legate all'estensione e alla ritrazione (e riarticolazione) dello sviluppo urbano del Paese (una trattazione più estesa del tema si può trovare qui).

L'apice della fase espansiva sull'onda del Miracolo italiano, caratterizzata da diversi fenomeni derivanti dall'iniziativa pubblica nel settore dell'edilizia popolare, dagli interessi privati e anche da casi estesi di abusivismo, è simbolizzato dalla costruzione in molte città italiane, tra la fine degli anni '60 e la metà degli anni '70, di grossi agglomerati di edilizia razional-funzionalista: dallo Zen di Palermo al quartiere Corviale a Roma (ma quasi ogni città della Penisola può citare il proprio esempio), che costituiscono anche l'emblema del fallimento delle politiche abitative di quegli anni.

La seconda fase è invece generalmente caratterizzata da una stabilizzazione demografica e da una serie di crisi economiche, che si possono collocare nel più ampio ambito della transizione dal modello fordista a quello postfordista. Dentro questo processo lo sviluppo urbano assume due tendenze che si susseguono e in parte si intrecciano tra loro: la prima è quella della dispersione urbana, ovvero il trasferimento di residenze, attività produttive, funzioni e servizi fuori dai perimetri consolidati delle città, in un territorio più vasto segnato linearmente dalle direttrici infrastrutturali; la seconda è quella della rifunzionalizzazione di grandi aree della città consolidata, i cosiddetti processi di rigenerazione urbana che, definendo in molti casi nuove centralità, ovvero nuove aree sulle quali l'interesse pubblico e in maniera sempre più pervasiva quello privato hanno rivolto la loro attenzione, hanno di converso definito altrettante nuove marginalità.

L'esempio più emblematico di dispersione urbana in Italia è quello del Veneto centrale, dove tra i capoluoghi di Vicenza, Padova, Venezia e Treviso i processi di urbanizzazione si sono notevolmente intensificati a partire dagli anni '80, accompagnando un massiccio trasferimento di popolazione e di attività produttive dai capoluoghi alle campagne. Per quanto riguarda i processi di rifunzionalizzazione, dagli anni '90 in poi molti di essi sono stati pilotati dal programma europeo Urban: un esempio noto è quello del piano Urban di Bari con il recupero del centro storico di Bari Vecchia. Altri processi di rifunzionalizzazione sono stati determinati da grandi lavori di adeguamento infrastrutturale, ad esempio la ristrutturazione della Stazione Tiburtina a Roma.

 


'Criss-Crossed Conveyors, Ford Plant', di Charles Sheeler, via Art History Archive

 

Fabbrica e periferia

La lente migliore per leggere le diverse fasi dell'evoluzione delle periferie in Italia è probabilmente quella della trasformazione del modello produttivo: con l'industrializzazione fordista del secondo Dopoguerra la città si espande «a immagine e somiglianza» della grande fabbrica, con grandi agglomerazioni e uno sfruttamento intensivo del suolo; con il declino del modello fordista, assieme alla grande fabbrica «esplode» anche la città, con fenomeni di dispersione e di sfruttamento estensivo del suolo e grandi riarticolazioni delle funzioni dentro la città consolidata. Non è stato esclusivamente il legame con la sfera della produzione a mutare le nostre città e lo sviluppo urbano, ma il binomio fabbrica-città è efficace nel descrivere tali trasformazioni e in particolare l'evoluzione delle periferie. La periferia infatti ha rappresentato, in particolare nel corso dell'affermazione del modello fordista, la naturale prosecuzione spaziale della collocazione sociale della classe operaia, e le lotte per l'estensione del welfare state che hanno trovato nel corso degli anni una lenta e faticosa concretizzazione proprio nei contesti periferici sono, di converso, il segno dello sviluppo di un sistema di controllo sociale delle masse operaie sempre più articolato.

La seconda parte dell'evoluzione delle periferie ci consegna degli elementi d'analisi più complessi e in parte contraddittori: viene di fatto definitivamente sconfessata la marginalità, intesa dal punto di vista meramente spaziale, come metro di classificazione della periferia. La periferia non è semplicemente «lontana dal centro», e a volte non lo è affatto. L'esplosione della città fordista e l'ascesa della dispersione urbana hanno di fatto dimostrato che «tutto è periferia». La ridefinizione di centralità molto deboli attorno ad alcune direttrici di trasporto ha segnato la scomparsa del centro così come è stato sempre inteso nel corso della storia delle città italiane (ed europee). La scomparsa e la disarticolazione del centro cittadino come spazio pubblico predominante ha inoltre cambiato profondamente i connotati delle interazioni sociali, e in particolare di un conflitto sempre più carsico e potenzialmente dirompente (anche perché declinato in forme inedite). La riarticolazione delle funzioni dentro la città consolidata, spinta sempre più dagli interessi privati, ha dimostrato che la nascita di nuove centralità o il deciso rafforzamento di quelle vecchie determina il sorgere di nuove marginalità, a volte per nulla distanti dalle centralità stesse: pensiamo all'uso dello spazio pubblico, in particolare da parte dei migranti, nei pressi immediati delle stazioni, o le speculazioni sui prezzi degli affitti, spesso in nero, in molte zone universitarie.

Insomma, pare che le evoluzioni più recenti dello sviluppo urbano in Italia abbiano tolto di mezzo anche quelle poche certezze che potevamo desumere fin qui. Eppure, sgomberare il campo può essere utile ad allontanarsi definitivamente dall'idea che la marginalità spaziale sia un criterio sufficiente per definire le periferie, e per abbracciare come strumento di ricerca la marginalità sociale nelle sue varie declinazioni.

 


Disegno tratto da Massive Change, Bruce Mau, 2004

 

Mercato e Stato: un duplice fallimento

Quando sentiamo la parola periferia solitamente tendiamo a collegarla ad accezioni negative, dal degrado all'assenza di servizi, dai problemi di integrazione alla mancanza di sicurezza. Si tratta di un collegamento molto spesso legittimo, che rappresenta il fallimento di questo modello di sviluppo della città. Ma, più esattamente, stiamo parlando del fallimento da parte di chi? La risposta è duplice, perché riguarda in diverse accezioni tanto il libero mercato quanto lo Stato.

Il libero mercato non è strutturalmente in grado di garantire un alloggio dignitoso e una qualità urbana accettabile a tutti, e peraltro non è nemmeno interessato a farlo. Non si tratta di un problema di scarsità in senso stretto: pensiamo soltanto al fatto che in Europa vi sono 11 mln di case vuote a fronte di 4,1 mln di senzatetto. Il dato sugli alloggi, che esemplifica in maniera drammatica il fallimento del libero mercato, rappresenta esclusivamente la punta dell'iceberg di una generale incapacità di garantire uno sviluppo urbano equilibrato, sostenibile e soprattutto socialmente equo.

A fronte di questo fallimento ne subentra un secondo: quello dello Stato come calmieratore degli squilibri del mercato, come regolatore di ultima istanza del modello capitalista, come garante di quel compromesso capitale-lavoro che ha generato le proprie conseguenze anche sullo sviluppo urbano e del quale oggi assistiamo a una profondissima ristrutturazione. Se negli anni che sono stati espansivi anche dal punto di vista della conflittualità sociale si sono prodotti diversi avanzamenti nel campo del welfare, del diritto all'abitare e via dicendo, questi sono stati in larghissima parte spazzati via dal processo di ristrutturazione che, apertosi dagli anni '80, continua ancora oggi con le misure di austerità e in particolare la riduzione drastica della capacità di spesa degli Enti Locali.

Questo fallimento tuttavia non si limita all'incapacità di conservare quel compromesso, rafforzarlo o estenderlo: anche negli anni in cui si sono prodotti i maggiori avanzamenti, il ruolo dello Stato era già caratterizzato da limiti macroscopici, tanto rispetto al modello cognitivo e decisionale da applicare nella progettazione urbana, quanto rispetto al ruolo del progettista dentro quel modello. Possiamo in sostanza affermare che dentro il compromesso capitale-lavoro non si è sviluppato soltanto un preciso ambito di competenza dello Stato – l'edilizia pubblica popolare, la fornitura dei servizi etc. – ma anche un peculiare modello di approccio cognitivo ai problemi (di fatto quello meramente razionalista e procedurale) e un modello dall'alto verso il basso di definizione ed esecuzione dei progetti. Modelli nei quali il ruolo del progettista è quello dell'esecutore tecnico di scelte politiche prese nell'ambito della democrazia rappresentativa liberale.

L'estrema attenzione al disegno, dunque agli aspetti formali dell'esito progettuale e a quelli procedurali della catena burocratica, ha prodotto in diverse occasioni delle situazioni paradossali: ad esempio, in molti dei casi di applicazione di modelli razional-funzionalisti nell'edilizia popolare, l'attivazione dei servizi, l'attrezzatura degli spazi pubblici, l'insediamento delle funzioni diverse da quelle residenziali sono arrivati dopo anni, se non addirittura decenni, dall'arrivo dei primi residenti. In moltri altri casi forme e funzioni dello sviluppo urbano non hanno minimamente intercettato la storia, gli interessi, le aspirazioni delle popolazioni insediate. Il fallimento dello Stato è dunque ben più ampio dell'incapacità di dare seguito al compromesso capitale-lavoro, ma riguarda proprio la definizione di quel compromesso come dispositivo, nel senso foucaultiano del termine, che ha orientato (verso l'inevitabile fallimento) un'intera strategia di sviluppo urbano.

Per tornare al problema della ridefinizione del concetto di periferia, potremmo affermare che periferia è lì dove i fallimenti del mercato e quelli dello Stato si incontrano: ritorna il paradigma della lontananza massima, in questo caso dalla risoluzione effettiva dei problemi. Le periferie continuano ancora oggi ad essere l'emblema del fallimento di quel sogno urbano che anche nel nostro Paese aveva spinto milioni di persone a emigrare in cerca di una vita migliore. Se, come si suol dire, l'aria della città rende liberi, ciò che noi possiamo intendere come periferia si colloca al di fuori di questo perimetro, a prescindere dall'effettiva collocazione spaziale. Le periferie sono oggi anzitutto i luoghi dei senza potere, per cui la prima preoccupazione di chi vuole provare a cambiare questa condizione dovrebbe essere quella di come restituire la capacità di decidere del proprio territorio e della propria condizione a chi oggi non la ha più.

 


Schema di un processo di resilienza di un materiale

 

Periferie e resilienza

Privilegiare la dimensione sociale rispetto alla dimensione fisica nella definizione di cos'è periferia oggi non significa semplicemente recepire una tendenza storica, quella della fine dell'espansione della città occidentale per come l'abbiamo conosciuta nel corso del XX secolo. Si tratta più che altro di riconoscere come strategica la categoria multidisciplinare della resilienza.

Resilienza è un termine che proviene dall'ambito ingegneristico e che rappresenta la capacità di un corpo di tornare ad uno stato di equilibrio a seguito di un evento stressante, ad esempio la capacità di assorbire una deformazione elastica. Il termine in seguito si è esteso al campo della psicologia, e poi ad altre discipline. In latino, il verbo resalio indicava il gesto del risalire sulla chiglia di un'imbarcazione dopo che essa era stata rovesciata dalla forza del mare.

Costruire società resilienti significa innanzitutto fare i conti con un termine polisemico, anche se molto spesso in ambito urbanistico è collegato esclusivamente alla dimensione ambientale: in questo campo, la resilienza di un insediamento è legata alla capacità di reagire e riorganizzarsi a seguito di turbamenti climatici o ambientali di ampia portata, ad esempio frane o inondazioni, quindi attiene all'aumento dalla superficie permeabile o al rispetto delle caratteristiche idrologiche del territorio. In una dimensione sociale e culturale, invece, la resilienza allude a una capacità localizzata di definire reti di solidarietà e inclusione capaci di affrontare, riconfigurandosi in maniera creativa, le fasi di stress (crisi economica, mutazioni nella composizione della popolazione insediata, usi conflittuali dello spazio etc.). L'approccio dovrebbe dunque essere quello di favorire la capacità degli abitanti di ridefinire collettivamente e in maniera continua l'uso degli spazi, rafforzandone le capacità di autorganizzazione e di scambio di competenze, conoscenze, tempo a disposizione: gli esempi delle banche del tempo, dei gruppi di acquisto solidale, dell'associazionismo culturale e ricreativo, sono molto significativi da questo punto di vista.

Rispetto alla resilienza culturale, risulta interessante capire come tradizioni, usi e memorie locali possono essere un materiale utile per operare processi differenti da quelli delle chiusure localistiche tipiche del contrasto all'insediamento di nuove popolazioni, diverse per etnia e cultura, come quelle dei migranti. In questo caso lo scarto tra resistenza e resilienza è evidente: se l'ambito della resistenza allude a una dimensione puramente contrappositiva – e a un bagaglio retorico che è quello della 'difesa dall'attacco esterno', al quale attingono continuamente i fomentatori dell'odio razzista e xenofobo – l'ambito della resilienza indica invece la possibilità di uscire dal binomio annullamento/difesa dell'identità locale, per concepire la base culturale locale come punto di partenza per il confronto e la contaminazione tra differenze.

 


Immagine tratta dalla copertina di Walkscapes, walking as an aesthetic practice, di Francesco Careri (Land&Scape series, 2002)

 

La conoscenza e il cambiamento, in periferia

Abbiamo già appurato come non esista – forse in realtà non sia mai esistita – la Periferia con la p maiuscola, intesa come modello assoluto di configurazione spaziale e sociale, come modalità peculiare di insediamento delle classi subalterne nell'area urbana: si tratta di un miraggio che appartiene ad un'altra epoca e che è stato definitivamente sconfessato dalla fine del protagonismo del pubblico nell'edilizia popolare, dall'esplosione del fenomeno della dispersione, dai massicci fenomeni di riconfigurazione della città consolidata. Siamo così dentro un apparente paradosso: una domanda crescente di conoscenza e di maggiore consapevolezza dei differenti problemi che attraversano questi contesti urbani si scontra con l'incapacità di definire modelli di lettura validi in termini assoluti. Possiamo tuttavia provare a fare ordine e a indicare alcune direzioni di ricerca che possono essere utili per conoscere e cambiare, in periferia.

La prima suggestione è quella di non leggere i fenomeni che attraversano le periferie osservandoli dal centro, da un punto di vista che presuppone in sé subordinazione e marginalità rispetto ad un altrove. Questo sforzo indica la necessità di raccontare la storia delle periferie in modo diverso: in Generative metaphor: A perspective on problem-solving in social policy (1979) Donald Schön afferma che le situazioni problematiche non sono realtà date, ma dipendono, soprattutto nella loro risoluzione, dalla modalità con la quale sono conosciute e descritte. «Non chiedere: Qual è il problema? Chiedi Qual è la storia? Solo così scoprirai qual è davvero il problema», sottolinea John Forester in The deliberative pratictioner (1999).

Rispetto al nostro caso ciò non significa affatto applicare le stesse letture e le stesse soluzioni che si individuano per i centri storici, come ci insegnano molti fenomeni di gentrification (aumento dei valori immobiliari ed espulsione progressiva delle popolazioni storicamente insediate in determinate aree per fare spazio ad abitanti più facoltosi e alle loro attività e servizi); piuttosto, significa svolgere un lavoro di ricerca ai margini di definizioni come quelle della «città delle reti» o della «città postfordista», letture che spesso si concentrano sulle dinamiche che si sviluppano nei centri delle grandi città finanziarie, definizioni che rischiano di relegare i fenomeni 'di periferia' in una dimensione quasi meccanica di crescente marginalità.

Lungi dal dover essere negati o sminuiti, i problemi che incontriamo in periferia possono essere letti in maniera radicalmente diversa dalla semplice marginalità, lontananza o subordinazione rispetto al centro: le risorse per la risoluzione dei problemi che affliggono le periferie si trovano in qualche modo già dentro le periferie stesse, e il modo di raccontare e rappresentare questi problemi, che muta radicalmente se prodotto a partire da fuori o da dentro le stesse periferie, è la prima grande risorsa per risolverli.

La seconda suggestione, strettamente legata alla prima, è che è necessario che l'osservatore sia non semplicemente interno, ma anche partecipante. Partecipazione rischia di essere un termine ambiguo: in questo caso non ci riferiamo a una semplice tecnica procedurale, destinata a un uso preliminare o di ultima istanza, o semplicemente per la risoluzione dei conflitti più difficili e aspri, o ancora a essere sfoderata come abbellimento di progetti preconfezionati in contesti dove la conflittualità è più attenuata. La partecipazione ai processi decisionali è innanzitutto un processo di apprendimento collettivo. Nessuno conosce meglio un quartiere di chi ci abita o lo vive nelle più diverse modalità (ci si sposta, ci lavora, ci studia, ci gioca etc.). La conoscenza diffusa e collettiva, i cosiddetti saperi locali, come li definisce Carlo Cellamare in Progettualità dell'agire urbano: processi e pratiche urbane (2011), sono una risorsa non sostituibile, che non si acquisisce da nessuna parte se non nell'interazione quotidiana sul territorio. Spesso le istituzioni vedono le mobilitazioni locali come un'inutile deviazione, un ostacolo o addirittura un nemico da fronteggiare: si tratta viceversa di risorse, difficilmente estraibili ma altrettanto preziose e insostituibili. La vera sfida è far emergere i saperi locali nei contesti più difficili, quelli dove il capitale sociale o la disponibilità alla cooperazione appaiono più deboli, gli stessi contesti in cui queste risorse sono estremamente determinanti nella risoluzione dei problemi. Una debolezza da attribuire a una carenza di linguaggi e approcci adatti a far emergere e mettere in relazione queste risorse, più che a una preclusione naturale a metterle a disposizione da parte degli abitanti stessi

Terza suggestione: una rilettura radicale delle questioni di periferia non può che passare da una definizione del territorio a partire dall'uso che se ne fa, come insegna Pierluigi Crosta. Il territorio infatti è prodotto dell'interazione di diversi attori, e in termini collettivi di diverse popolazioni, ovvero di gruppi più o meno omogenei che fanno usi diversi e quindi hanno visioni diverse dello stesso territorio. È collocandosi dal punto di vista di questi attori collettivi che si possono comprendere in maniera più chiara le dinamiche che attraversano un determinato territorio. Lì dove c'è uso dello spazio, e soprattutto lì dove gli usi dello spazio sono diversi tra loro, c'è interazione sociale: si tratta di un'ottima risposta a chi, con una visione dal centro, analizza le periferie come una tabula rasa, come un terreno arido, avendo in mente il modello canonico di relazioni sociali dei centri cittadini.

Questa suggestione diventa particolarmente potente se applicata a diversi casi concreti di convivenza tra popolazioni diverse: autoctoni e migranti; vecchi e giovani; residenti e utenti di un centro commerciale; e così via. Pensiamo ad esempio all'uso radicalmente diverso dello spazio pubblico – delle panchine in una piazza, o degli spazi comuni in un condominio – effettuato da molte comunità straniere e dalla popolazione autoctona, usi che riflettono culture e modi di vita diversi e che, a volte, confliggono in un determinato spazio. La questione diventa particolarmente interessante quando questi usi diversi che si concentrano nello stesso spazio devono fare i conti con un'altra dinamica, spesso frutto di quel fallimento dello Stato esemplificato dai grandi progetti di edilizia popolare degli anni '70: in periferia convivono usi senza spazi e spazi senza usi. Una delle grandi sfide contemporanee della pianificazione del territorio consiste nel fare i conti con ciò che è già stato costruito e provare a renderlo compatibile con le esigenze e le aspirazioni delle diverse popolazioni. Locali commerciali sfitti che possono essere messi a disposizione della popolazione per usi ricreativi o di aggregazione; spazi comuni che possono essere ripensati come luoghi di interazione tra culture e tradizioni differenti; aree verdi abbandonate che possono essere curate e rifunzionalizzate dagli stessi abitanti; e così via. Si tratta di processi trasformativi che coinvolgono in maniera più diretta le pratiche di uso del territorio piuttosto che la progettazione fisica in senso stretto.

Quarta e ultima suggestione, legata alla precedente: il territorio è oggetto di produzione sociale, molto spesso conflittuale. Questa considerazione è utile per inquadrare il ruolo di parte, fuori da una dimensione meramente tecnica, degli esperti che a vario titolo sono chiamati a intervenire su un determinato territorio. In particolare la pianificazione del territorio può essere considerata come un processo sociale, di relazione conflittuale tra interessi a volte contrapposti, nel quale l'esperto assume un ruolo attivo, di riconoscimento delle differenze. Sono quindi necessari strumenti di pianificazione del territorio forti per riconoscere e difendere il valore delle pratiche deliberative, spesso non istituzionali, diffuse nel tempo e nello spazio: il primo nemico di questa prospettiva è la retorica della pianificazione debole che ha aperto ulteriore spazio agli interessi privati sul territorio. In sostanza, la prospettiva può essere esemplificata nel restituire potere a chi non l'ha più, agevolando la (ri)costruzione della società, cioè di una rete in grado di trattenere localmente potere – Foucault in Le maglie del potere (1981) sostiene che «la società è un arcipelago di poteri» – nei contesti nei quali, in particolare negli ultimi anni, è stato negato ogni spazio – fisico e non – a questo processo di (ri)costruzione. Quando Margareth Thatcher affermava che «la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie», stava in realtà rivelando un programma politico chiaro che in larga parte si è drammaticamente avverato. Lavorare in direzione opposta a questo programma politico in periferia significa concepire la pianificazione del territorio dentro – non contro, né sopra – quello sviluppo continuo di relazioni sociali, in uno spazio per nulla asettico e indifferente.

Si tratta, dunque, di riconoscere che proprio nel territorio, proprio in quell'intreccio di conflitti, tensioni, gerarchie, riconoscimenti, reti, aggregazioni e simboli, un intreccio apparentemente illeggibile e intrattabile, proprio lì si cela il potenziale necessario per trasformare l'esistente.

Questo articolo è apparso in una prima versione su Versus Zoom

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