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Olimpiadi: non (solo) una questione di legalità

Olimpiadi: non (solo) una questione di legalità

C'è un non detto significativo nel dibattito di questi giorni sulla candidatura romana alle Olimpiadi 2024. In molti si concentrano sulla questione della legalità e del rischio di corruzione: alcuni per dire che è impossibile organizzare le Olimpiadi a causa di questi fattori, altri per dire che tali rischi vanno affrontati e combattuti, ma non possono bloccare le scelte di una città e del Paese.

Un ragionamento di questo tipo non coglie le caratteristiche intrinseche dei grandi eventi per come sono strutturati nell'era contemporanea. L'organizzazione di un grande evento, anche senza particolari fenomeni di corruzione e malaffare, genera ricadute negative sui territori e sulle popolazioni coinvolte. Di seguito ne accenniamo alcuni.

Chi paga per cosa?

Gli ingenti investimenti pubblici necessari per realizzare grandi eventi come le Olimpiadi generano un effetto moltiplicatore a favore del profitto privato, concentrato in larga parte nelle mani dei grandi sponsor e delle imprese che, quasi sempre, non hanno sede nel territorio dove si realizza il grande evento. C'è quindi un doppio effetto di aumento delle disuguaglianze e trasferimento delle risorse. Debito pubblico per generare profitti privati, investimenti locali per generare guadagni deterritorializzati. A Milano, nonostante le rassicurazioni dell'attuale Sindaco Beppe Sala, Expo ha chiuso i conti con una perdita di più di 230 mln di €. A Torino il debito del Comune è passato da 1,8 mld di € nel 2001 a 3,3 mld di € nel 2011, con un contributo determinante da parte delle Olimpiadi invernali del 2006, che secondo l'Istituto Bruno Leoni sono 'costate' 800 mln di € di perdite (qui una storia dettagliata delle trasformazioni urbane torinesi pre e post Olimpiadi). E per far fronte a questa enorme mole di debito il Comune ha scelto di privatizzare e svendere il patrimonio pubblico: oltre al danno, la beffa.

Che lavoro?

I posti di lavoro (temporanei) prodotti in queste occasioni sono caratterizzati da una profonda segmentazione. Pochi impieghi iperqualificati – come i ruoli di gestione manageriale degli eventi sportivi o delle cerimonie – e tantissimi impieghi scarsamente qualificati, precari e malpagati – nel settore edile, nell'accoglienza turistica, nelle pulizie e tanto altro –. Senza considerare la prospettiva del lavoro gratuito mascherato da volontariato, proprio come è avvenuto in occasione di Expo. Dal punto di vista della creazione di lavoro dignitoso, ben retribuito e stabile, la realizzazione di un grande evento, strutturalmente temporaneo e basato sul principio della minimizzazione dei costi di gestione, rappresenta la premessa peggiore.

'Mostri' urbani: sproporzionati, costosi, utili ai soliti noti

Le grandi strutture costruite per ospitare gli eventi sono regolarmente sovradimensionate rispetto ai bisogni del territorio, e più in generale strutturalmente incompatibili con qualsiasi principio di utilità pubblica, costituendo quindi un ottimo affare per costruttori, fondi immobiliari e banche, ma un pessimo affare per gli abitanti. In Brasile lo stadio Mané Garrincha, realizzato per i Mondiali e costato mezzo miliardo di dollari, oggi è un gigantesco parcheggio; per rimanere dalle nostre parti, non si contano le strutture non terminate o abbandonate previste per i Mondiali di Italia '90 (qui una breve rassegna). Non è solo una questione - pure significativa - di consumo di suolo ma di traiettoria di sviluppo delle città, che con i grandi eventi piega inevitabilmente verso la deroga alla pianificazione per “ragioni straordinarie” (leggasi “interessi particolari”) e verso lo stimolo della rendita urbana.

Una scusa per controllare e reprimere

L'organizzazione di un grande evento presuppone, soprattutto in questo periodo storico, una necessaria risposta ai rischi di sicurezza. La risposta che viene data è tuttavia quella del controllo e della militarizzazione del territorio. Il grande evento diventa un pretesto per ridurre le libertà personali e la possibilità della popolazione di vivere la città e i suoi spazi, molto spesso con provvedimenti che hanno scarsissima attinenza con l'evento in sé: qualcuno ricorda ancora la legge Fini-Giovanardi sulle droghe leggere infilata nel decreto sulle Olimpiadi Invernali di Torino?

Che sport?

Infine, parlando di sport – e di come lo sport olimpico sia diventato ormai soprattutto un grande show a beneficio di televisioni e sponsor – bisogna ricordare che solo una minima parte dei fondi stanziati per le Olimpiadi andrebbero a finire – e lo farebbero in un'ottica meramente compensativa – nei progetti per lo sport di base, per lo sviluppo delle discipline minori, per l'educazione allo sport (magari per mettere in sicurezza qualche palestra delle nostre scuole, che avrebbero bisogno di 13 mld di € per non crollare alla prima scossa di terremoto).

Legalità e illegalità sono dunque categorie insufficienti per descrivere pregi, e soprattutto difetti, della macchina del grande evento. Esiste un altro modo di organizzare i grandi eventi? Sì, sconfiggendo la precarizzazione del mercato del lavoro, costruendo un vero controllo popolare sullo sviluppo del territorio, riutilizzando e riqualificando l'esistente, cambiando profondamente le politiche sportive. Questo significa che prima di ospitare un'Olimpiade in Italia (ma anche altrove) ci sarebbero tante cose da cambiare. Magari è il caso di impegnarsi su queste, intanto.

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