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Carceri, le occasioni mancate degli Stati generali dell’esecuzione penale

  • Scritto da  Aldo Cimmino
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Carceri, le occasioni mancate degli Stati generali dell’esecuzione penale

Se l’Italia non fosse stata condannata dall’Europa, con la nota sentenza Torreggiani, probabilmente non avremmo mai sentito il termine svuotacarceri. La sentenza pilota (1) della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti ai danni di alcuni detenuti nelle carceri del nostro Paese, ha messo in evidenza come il problema del sovraffollamento carcerario è strutturale e dovrebbe essere risolto con soluzioni altrettanto strutturali.

Le spinte europeiste derivanti dalle condanne di Strasburgo hanno attivato un meccanismo parlamentare perverso e confuso, sfociato in un’azione legislativa frenetica ed incoerente. La corsa all’approvazione di leggi per scongiurare ulteriori condanne da parte della Corte dei diritti dell’Uomo ha avuto come risultato una serie di provvedimenti che di fatto non scardinano l’attuale impostazione della pena, esclusivamente afflittiva e incentrata sul carcere come centro della «rieducazione».

Quali potrebbero essere allora le soluzioni praticabili? La costruzione di nuovi penitenziari? La ristrutturazione architettonica degli edifici di reclusione già esistenti? Questi provvedimenti potrebbero aiutare, ma non bastano. Ciò che è stato richiesto da più parti, e cioè dalla comunità scientifica da un lato e dal mondo del terzo settore sociale impegnato su questi temi dall’altro, è un intervento che miri a ristrutturare l’intero complesso di norme che oggi regolano la fase dell’esecuzione penale.

In altri termini, ciò che serve davvero è un cambiamento di rotta. Un'altra cultura del contrasto alla criminalità, attraverso la fondazione di un’altra cultura della pena e della punizione. E purtroppo gli interventi messi in atto dal parlamento e dal governo non vanno in questa direzione. Anzi reiterano la stessa concezione della pena che ha originato il problema del sovraffollamento. Prova ne sia l’ art. 1 della legge n. 67/2014, che, aprendo con la delega al governo in materia di pene detentive non carcerarie, incredibilmente poi chiede al Governo stesso di prevedere che le pene principali siano proprio l’ergastolo e la reclusione, che non possono essere espiate se non in luoghi carcerari. Tutto continua a incidere sul corpo del condannato, e spesso su quello di colui che ancora non lo è. E ciò che questa società compie su di esso, talvolta, non è tanto distante da quanto descriveva Foucault nel suo Sorvegliare e punire.

Nessuno, credo, può negare che la pronuncia solenne, da parte del giudice, della pena dell’ergastolo, l’applicazione di strumenti antisociali quali il carcere duro, l’annullamento della personalità del detenuto, i maltrattamenti subiti all’interno delle carceri, vadano a ristrutturare un moderno concetto dello «splendore dei supplizi». (Il riferimento è ancora a  Michel Foucault in Sorvegliare e punire. L’autore si riferisce alla eclatanza e rappresentatività delle punizioni corporali, e dunque della violenza istituzionale, che attorno alla fine del 1600 erano rapportate alla gravità del reato commesso, alla classe sociale del reo e alla personalità dello stesso).

Splendore che aumenta, poi, nei confronti dell’indagato, e cioè di colui che si trova in quel limbo terribile, che è la fase delle indagini preliminari, per cui non è ancora condannato, ma neppure sfugge al biasimo sociale ed istituzionale, con le conseguenze che ne derivano, prima di tutto, sul diritto alla libertà personale.

Oggi il Ministro Orlando propone gli Stati generali dell’esecuzione penale. Uno spazio destinato, così viene definito dal Ministero, ad essere il luogo del dibattito e del confronto al fine di definire un «nuovo modello di esecuzione penale». L’iniziativa ministeriale, che è stata presentata a Milano-Bollate lo scorso 19 maggio, tuttavia si preannuncia già come un’occasione mancata. Ne è prova una prima contraddizione, rappresentata dal fatto che gli Stati generali riconoscono, almeno a parole, il referente costituzionale dell’art. 27 della Carta fondamentale, che impone che le pene non consistano in trattamenti contrari al senso di umanità e sancisce il principio del fine rieducativo delle stesse, ma fondamentalmente se ne discostano nei fatti. E lo si percepisce immediatamente passando in rassegna i vari temi di discussione previsti nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale.

Dei diciotto tavoli di lavoro, infatti, nessuno affronta il problema della cultura della pena, dell’opportunità della sua forma detentiva e della radicale trasformazione della sanzione reclusiva. Nessuno tavolo, per fare un esempio, si riferisce al problema del tempo del reinserimento sociale. E subito sorgono le prime domande. Da quando il condannato ha la concreta possibilità di inserirsi nuovamente nel consorzio sociale? È possibile aspettare che lo stesso espii prima la sua pena e solo successivamente ricominci ad essere un cittadino come gli altri? Domande alle quali non risponderà, per esempio, il Tavolo Diciassette degli Stati generali, che si propone proprio di trattare i problemi legati al reinserimento sociale di chi ha scontato una pena, e cioè ben dopo la fase dell’esecuzione penale. E durante la detenzione? E inoltre quali azioni vengono messe in campo per «rieducare» la società all’accoglienza e alla solidarietà costituzionale di quanti sono stati esclusi, perché rinchiusi nelle carceri? E sulle misure di sicurezza detentive? Perché non si mette in discussione l’opportunità dell’esistenza di tali misure, previste dal Codice penale del 1930, ed eseguite una volta negli O.p.g. ed oggi nelle nuove R.e.m.s.? (2) Ed ancora più a monte, quale diritto penale è concepibile per i fatti dettati dalla «follia»? Perché non è stato previsto un tavolo di discussione sull’inopportunità del regime di rigore previsto da determinate norme dell’attuale ordinamento penitenziario, mero orgasmo punitivo che si alimenta all’interno di un meccanismo già sufficientemente vessatorio? (3)

Non si tratta di santificare il colpevole, che molto spesso è però vittima di meccanismi socio-economici ormai alla deriva, ma di comprendere quale sia l’atteggiamento costituzionalmente orientato che deve assumere lo Stato, e con esso i cittadini, nella riduzione dei fenomeni criminali e criminogeni. Del resto la difficoltà di dirigersi verso modelli innovativi, quali ad esempio quello della restorative justice, affonda radici nel profondo passato del nostro Paese. Il riferimento è all’esperienza della Commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri (1949-1950) che fu presieduta dall’allora Senatore Giovanni Persico, uomo politico democristiano, già detenuto tra il 1943 ed il 1944 per la sua attività antifascista.

Ci si aspettava che, proprio all’indomani dell’esperienza di regime, che aveva travalicato persino i confini della difesa sociale generalmente intesa, attraverso l’uso distorto degli strumenti preventivi e repressivi del diritto penale, gli antifascisti trovassero tutta la forza necessaria per smantellare l’idea di indispensabilità del carcere e della pena della reclusione. (4) Tuttavia i risultati si dimostrarono deludenti, se si considera che furono mantenute le posizioni più conservatrici proprio nel campo della disciplina carceraria. L’istituzione totale, che secondo alcuni oggi dovrebbe essere l’oggetto di una proposta abolizionista, (5) restava, e resta ancora oggi, l’unica proposta ritenuta valida e concepibile per la repressione delle condotte antisociali.

Le scelte dell’odierno Governo, allora, perdono di credibilità, se da un lato l’esecutivo promuove gli Stati generali dell’esecuzione penale, ma dall’altro ha paura di attuare la delega sulle pene alternative al carcere perché impopolare. Così come non sono credibili le iniziative dirette a trasfigurare il volto dell’esecuzione penale se da un lato l’Italia lascia irrisolti quei fenomeni sociali ormai divenuti emergenze strutturali e, dall’altro, se non si impedisce all’Europa di imporre agli Stati membri obblighi di incriminazione difficilmente traducibili, nel nostro ordinamento, in termini di garanzie minime dei diritti fondamentali stabiliti dalla nostra Costituzione.

Del resto né l’Italia, né tanto meno l’Europa, oggi giocano un ruolo decisivo nell’affermazione di una cultura della libertà e della tutela dei diritti fondamentali. Ed è questa la conseguenza di determinate scelte sia di politica criminale che di politica sociale. Ma in entrambi i casi alla base vi sono indirizzi di politica economico-finanziaria che non consentono, a monte, di garantire la tutela dei diritti minimi a tutti i consociati, sia a livello nazionale che europeo. Su tale aspetto forse è necessario richiamare le responsabilità di una comunità scientifica penalistica che si è limitata, negli anni, ad una mera critica tecnica degli strumenti normativi.

Ci si potrebbe domandare se non sia, invece, chiamata a criticare, quelle scelte economico-finanziarie che creano le condizioni di insicurezza sociale, che sono poi alla base delle politiche di repressione e di contenimento, o meglio, di mortificazione dei diritti fondamentali, tanto individuali quanto superindividuali. Critica quanto mai necessaria se si considera che gli esecutivi, in ogni tempo, devono fare i conti con l’elettorato, che ha sempre manifestato simpatia per i governi in grado di garantire le loro istanze di sicurezza di polizia.

Manca un percorso culturale in grado di collocare, nell’ordine generale dei concetti, l’azione criminale quale risultato della degenerazione interna dei rapporti sociali, e non qualcosa che proviene da «un altro pianeta» ed estraneo agli uomini. La conseguenza di tale vuoto culturale non può che essere rappresentata da future scelte politiche che ancora una volta, riposeranno sull’idea di necessità dell’istituzione totale.

 

(1) Le sentenze pilota della Corte Europea dei diritti dell’Uomo sono sentenze adottate, appunto, con la procedura pilota che consente alla Corte di individuare un problema strutturale dell’Ordinamento interno di uno Stato membro e dunque la violazione ricorrente di determinati diritti della Convenzione da parte dello Stato contraente.
(2) Interessante sarebbe stato il confronto col movimento “Società pericolosa” (http://www.societapericolosa.it/) composto da docenti e studenti dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e che ha promosso l’appello per l’abolizione delle misure di sicurezza.
(3) Il riferimento, per fare un esempio, è all’art. 4 bis della legge 354/1975 che prevede condizioni eccezionali per coloro che si rendano autori di determinati delitti e dunque sono privati dell’accesso ai benefici penitenziari.
(4) Si consideri inoltre che molti dei componenti quella Commissione di inchiesta avevano subito sulla propria pelle l’esperienza carceraria di matrice fascista.

(5) Il riferimento è L
. Manconi, S. Anastasia, V. Calderone, F. Resta, Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, Milano, 2015.

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