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Curare il dissenso. Su I matti del Duce di Matteo Petracci

Curare il dissenso. Su I matti del Duce di Matteo Petracci

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Sono stato interdetto a seguito dell’internamento arbitrario in manicomio. Sono stato escluso dai diritti civili, minorato moralmente, rovinato fisicamente e intellettualmente con la sottrazione di dieci anni di esistenza. Il giudice competente deve sentenziare ora che quella diagnosi deve essere distrutta, perché soltanto con la restituita integrità morale e civile la libertà ha valore. Ciò che chiedo è giustizia, e non solo per me, ma anche per la sostanza stessa della riparazione di un arbitrio, dai pericoli del quale in un paese civile tutti i cittadini devono sentirsi al riparo.

Così scriveva Giuseppe Massarenti – sindacalista, tra gli iniziatori del movimento cooperativo e primo sindaco socialista del suo comune, Molinella; simbolo di un certo riformismo italiano che avrebbe attirato attenzioni anche da fuori l’Italia ma, soprattutto, tra le squadracce fasciste ferraresi e bolognesi. Massarenti, noto come il “Santo” del socialismo italiano, scriveva così allo psichiatra Ferdinando Cazzamalli, socialista anch’esso, che si era interessato del suo caso nel dopoguerra. Dopo esser stato “deposto” dagli squadristi nel 1921, scacciato da Molinella, mandato al confino, impossibilitato a procacciarsi mezzi per il sostentamento, Massarenti viveva a Roma nella più assoluta miseria. Una mattina del settembre 1937 venne prelevato dalla Pubblica Sicurezza, e condotto prima in Questura, poi al Policlinico. Tenuto in osservazione per dodici giorni nella Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università, venne dichiarato soggetto a “delirio paranoico”, ed internato nel grande manicomio romano del Santa Maria della Pietà. Lì restò fino alla liberazione di Roma, nel 1944, quando ricevette la visita di Pietro Nenni e Palmiro Togliatti – e vi sarebbe rimasto pure dopo: era infatti intenzionato a non uscire dal Santa Maria della Pietà finché non avesse ottenuto l’annullamento della sentenza e della perizia che ne avevano decretato l’internamento.

Il libro di Matteo Petracci – I matti del Duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista – uscito per i tipi di Donzelli lo scorso ottobre, oltre a restituire giustizia a storie come quella di Giuseppe Massarenti, indaga un fenomeno poco indagato e per molti aspetti controverso della storia delle istituzioni psichiatriche di questo Paese: quello del rapporto tra gli psichiatri e il regime fascista, e in particolare l’estensione durante il ventennio alla “devianza politica” dei compiti di “igiene pubblica” e di controllo sociale tradizionalmente svolti dall’istituzione manicomiale. E se già rievocare e ricostruire queste storie, tradizionalmente coperte dallo stigma sociale associato alla malattia mentale (che portò la maggior parte delle vittime “politiche” dei manicomi a nascondere persino ai propri familiari le storie del loro internamento) costituisce un merito particolarmente rilevante, inserirle nelle storie più generali della psichiatria italiana da un lato, e dell’adesione degli intellettuali e degli “scienziati” dall’altro, conferisce al libro ulteriore interesse.

Petracci, storico che aveva dedicato all’antifascismo nel maceratese la sua tesi di dottorato, arriva alle soglie del manicomio seguendo dagli archivi delle forze dell’ordine le storie di alcuni perseguitati politici. A partire da questi primi ritrovamenti “casuali”, quasi mai trattati nelle memorie o nelle biografie dei partigiani, Petracci ha esteso la ricerca all’intero “campione” costituito dall’archivio del Casellario Politico Centrale – l’ufficio della direzione generale della Pubblica Sicurezza incaricato, dal 1894, di tenere il “Servizio dello schedario biografico degli affiliati ai partiti sovversivi maggiormente pericolosi nei rapporti dell’ordine e della Pubblica sicurezza”. Dal 1904, la legge sui manicomi – in vigore sostanzialmente fino alla legge 180 del 1978 – affidava al Ministero dell’Intero la “vigilanza” sui manicomi: per questo motivo, il Casellario – che teneva traccia di tutti gli oppositori considerati, a torto o ragione, particolarmente pericolosi – conteneva l’indicazione di un eventuale ricovero. Dal Casellario emergono in tutto 475 storie di antifascisti che furono internati in manicomio durante il ventennio: le loro storie sono poi approfondite attraverso la consultazione di altri materiali, come le cartelle cliniche, conservate dagli archivi degli ex manicomi, che contengono spesso diversi materiali clinici e il carteggio tra gli psichiatri e altre istituzioni. Nel libro, Petracci assembla questa eterogenea materia archivistica con la dovizia di dettagli e la cura delle fonti propria dello storico, e dalla combinazione attenta di materiale che ben si presta a esser più narrativo come memorie, lettere e altre testimonianze, ottiene come risultato una prosa estremamente scorrevole e gradevole, nonostante il delicato tema trattato.

Quelle raccontate nel libro sono spesso storie di perseguitati politici – talvolta anche quelle di semplici “antifascisti da osteria”, raccontate tra gli altri anche da Alessandro Portelli: avventori di osterie poco accorti che in pubblico, magari con l’aiuto determinante del vino, si rendevano “colpevoli” di esprimere riprovazione o ironizzare in pubblico sulle figure del Duce, del Re o del Papa – ma non risultano facilmente inquadrabile in schemi precisi. Petracci suddivide dunque questi casi, in primo luogo, secondo il criterio dell’istituzione – e dunque delle procedure “legali” dell’internamento: e così la prima parte è dedicata agli internati negli ospedali psichiatrici provinciali, la seconda a quelli “ospiti” dei manicomi giudiziari, mentre il terzo gruppo è costituito da chi in manicomio vi arrivava dopo aver trascorso già un periodo di reclusione, in carcere o al confino. Come viene fatto emergere nel libro, infatti, in alcuni dei casi il ricovero in manicomio – nelle sue varie declinazioni – veniva a configurarsi come una tra le diverse, possibili opzioni che l’autorità di pubblica sicurezza si ritrovava tra le mani, nello svolgere la sua lotta al dissenso e alla cospirazione. Nel caso di Massarenti citato in apertura, il manicomio consente di silenziare una voce pericolosa, senza incorrere nei rischi di un processo e di una carcerazione. Il motivo lo aveva, del resto, teorizzato già Cesare Lombroso, controverso decano degli psichiatri dell’epoca e forse l’intellettuale italiano più celebre di inizio novecento, in un celebre volume sugli anarchici – inseriti tra le categorie dei criminali “nati”, segnalati da precise deformazioni del volto e da ereditarietà. “I martiri – scriveva Lombroso – sono venerati; dei matti si ride — e un uomo ridicolo non è mai pericoloso”. Non solo: la soluzione del ricovero d’urgenza in manicomio, per i motivi di “pericolosità sociale” previsti dalla legge sui manicomi del 1904, può essere una soluzione rapida, “preventiva”, rispetto all’emergere improvviso di un pericolo. È il caso di “Sante”, avvocato, massone, amico del giovane Mussolini socialista, che una volta caduto in disgrazia e perseguitato, lo minaccia di vendere agli antifascisti all’estero alcune lettere “compromettenti” che gli aveva inviato prima di diventare il Duce del fascismo. Immediatamente, il Segretario Particolare di Palazzo Venezia richiede alle autorità competenti l’internamento d’urgenza dell’avvocato, che dimostrava di non essere “nel pieno delle proprie facoltà mentali”. Il provvedimento dà il tempo alle forze di polizia di mettere fuori gioco l’avvocato e verificare il contenuto delle missive, che si rivelerà non compromettente. Altre volte, agli psichiatri si chiederà, in sostanza, di certificare con una perizia che i disturbi mentali insorti in alcuni antifascisti dopo l’effettiva persecuzione e le violenze subite da parte delle Milizie non erano che l’emergere di tratti ereditari e congeniti, non imputabili dunque alle autorità.

Il merito principale del volume di Petracci, come evidenziato anche nella recente presentazione alla Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma, è tuttavia quello di restituire la complessità delle vicende che hanno visto per protagonisti psichiatri e operatori sanitari durante il ventennio. Uomini che se spesso si sono mostrati convinti esecutori di ordini politici, se in casi non irrilevanti si sono al contrario opposti, alle volte sembravano sinceramente convinti del ruolo di “bonifica sociale” che la loro disciplina andava assumendo, non solo nell’Italia fascista. È infatti interessante osservare i forti elementi di continuità nella gestione delle istituzioni psichiatriche prima e dopo la Grande Guerra, caratterizzate dall’evolversi delle modalità di applicazione di un impianto normativo (quello della legge sui manicomi del 1904, e dei regolamenti adottati negli anni immediatamente seguenti) sostanzialmente immutato. Fatto, questo, non irrilevante, se si considera nell’ambito di un regime che riformerà radicalmente la gran parte delle istituzioni ereditate dall’epoca liberale, che ne creerà spesso di nuove, ma che troverà nei manicomi e nelle procedure di internamento dispositivi già in grado, come si è visto nel caso di Sante, di prestarsi alle sue esigenze autoritarie.

Del resto, almeno stando a quei casi che Petracci è stato in grado di ricostruire partendo dal Casellario Politico Centrale – che è probabile rappresenti, come emerge da alcuni approfondimenti nelle carte degli Archivi di Stato di Macerata e Bologna, la punta di un fenomeno più ampio, anche se apparentemente non delle proporzioni evidenziate nel caso sovietico – il regime sembrerebbe far ricorso al manicomio come strumento di repressione del dissenso soprattutto nella fase di consolidamento seguita al delitto Matteotti. È quando le opposizioni politiche sembrano definitivamente sconfitte, e il fascismo procede al rafforzamento della sua stretta autoritaria con l’emanazione delle leggi “fascistissime”, che le carte del Casellario mostrano un aumento dei casi di antifascisti internati. Nel momento forse di massima solidità e di massima adesione da parte degli italiani agli ideali di ordine sociale del fascismo, quando dal discorso dell’Ascensione Mussolini incomincia a delineare l’obiettivo della «lotta per la salute della razza», l’antifascista – come l’anarchico di qualche decennio prima – diventa a tutti gli effetti un “deviato”, come tale oggetto d’attenzione “sincera” da parte di scienziati che vedevano nell’isolamento e l’estirpazione della devianza sociale, nella lotta alla «degenerazione» dell’italiano, la loro ragione sociale. E allora “Laura”, convinta comunista, organizzatrice del Partito nella clandestinità, in quanto donna non viene considerata pienamente in grado di sviluppare una coscienza politica autonoma: comprendendo di poter ottenere un comportamento più “compassionevole”, riesce a dissimulare e a non essere considerata una “anima criminale”, ma semplicemente una donna manipolata dalla propaganda dei sovversivi – come nel caso più celebre di Violet Gibson, l’attentatrice di Mussolini.

Il libro di Petracci, dunque, non solo torna assai utile – in mezzo alla retorica compassionevole delle celebrazioni pacificate – a ribadire ciò che rischia di non essere più ovvio, e cioè la violenza, la durezza della repressione che colpì chi manifestava, anche in modo spontaneo e affatto pericoloso, la propria dissidenza al regime – al confino, come in carcere e nei manicomi, variamente combinati tra loro.  È un volume che contribuisce anche a chiarire, dalla prospettiva estrema della repressione della “devianza politica”, perché quella che riassumiamo sotto l’etichetta “Legge Basaglia” merita di essere definita “la più importante rivoluzione italiana”. Una consapevolezza sempre più a portata di mano del lettore interessato, che tra le nuove uscite può continuamente trovare nuovo materiale di approfondimento – da volumi d’insieme come La «Repubblica dei matti». Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978 dello storico britannico John Foot, a un volume come il recentissimo Un’odissea partigiana, in cui Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano ripercorrono un caso curiosamente “contrario” a quello studiato da Petracci. Si tratta di quegli antifascisti che, coinvolti a cavallo della Liberazione in casi di “giustizia sommaria” contro fascisti e delatori, credettero di trovare nel riconoscimento della seminfermità mentale una via di fuga dal carcere – una strategia difensiva consigliata, tra gli altri, dallo stesso Lelio Basso. Finirono invece per vedersi esclusi dall’amnistia di Togliatti che liberò non solo molti loro compagni, ma anche gli stessi fascisti che avevano combattuto, che poterono godersi quella libertà da loro faticosamente riconquistata mentre loro restavano prigionieri di quei manicomi per lunghi anni.

La riscoperta e la divulgazione della memoria dei manicomi e delle storie di chi li ha abitati, da paziente o da medico, costituisce da qualche tempo un movimento interessante nel panorama italiano. Imponenti progetti nazionali di conservazione e valorizzazione del patrimonio archivistico degli ex manicomi, come Carte da Legare, si trovano a coordinare un fermento che proviene dal basso, spesso dagli ex manicomi stessi, talvolta trasformatisi in luoghi come il Museo della Mente di Roma – ospitato da quegli stessi padiglioni in cui Massarenti venne rinchiuso per oltre sette anni della sua vita. E se è proprio John Foot a sottolineare come non sia un caso che quella rivoluzione sia stata portata avanti da una generazione di ex partigiani, che ha saputo tradurre in azione politica, sociale e riformatrice la visione altra di società maturata durante la lotta al fascismo, è la cronaca – con i rinvii, le incertezze normative e scarsa attenzione da parte dell’opinione pubblica che hanno accompagnato, lo scorso 31 marzo, la chiusura degli ultimi sei manicomi criminali, pardon, Ospedali Psichiatrici Giudiziari – a ricordarci come anche quello slancio rivoluzionario, così raro in questo Paese, sia stato e continua ad essere minacciato dalla capacità di persistenza di pregiudizi e comportamenti consolidati. E ripensando alla necessità, evidenziata da Massarenti settant’anni fa, di sentirci cittadini al riparo dagli arbitri di uno Stato incarnato in istituzioni repressive, non sembrerà inopportuno chiedersi quanto di quelle istituzioni si sia trasmesso, quanto abbia resistito alla rivoluzione, se nell’Italia che festeggia l’anniversario della liberazione, serva “coraggio” per non aver paura delle forze di polizia, talvolta persino dei medici.

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