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Renzi, gli operai, la classe media: l'invidia sociale verso il basso

Renzi, gli operai, la classe media: l'invidia sociale verso il basso

 

Qualche giorno fa, intervistato dal Fatto Quotidiano, Maurizio Landini si domandava: «Ma a Renzi cosa hanno fatto di male quelli che per vivere devono lavorare? Perché ce l’ha così tanto con loro?».

Potrebbe sembrare una domanda banale, quasi un piagnisteo. L’interrogativo posto da Landini contiene invece un nucleo di interesse molto profondo. Perché prima che decidesse di dover compiacere a tutti i costi il ceto imprenditoriale, il Renzi che conoscevamo era ossessionato dall’obiettivo di mantenere e allargare uno zoccolo di consenso potenziale – il “40%” delle Europee, e la sua rievocazione per mezzo di sondaggi. Un Renzi per il quale il consenso più vasto possibile era necessario: per poter minacciare elezioni anticipate, disciplinando così alleati coatti e minoranze interne. E proprio in virtù di quella minaccia, per scongiurare che le elezioni si materializzassero sul serio, rimandando all’infinito il rischio che dietro la minaccia si nascondesse il bluff. Che motivo avrebbe, quel Renzi, di inimicarsi così gratuitamente quel milione di lavoratori che erano in piazza sabato con la CGIL? Perché lo stesso Renzi che, tra un attacco al sindacato e una camicia bianca, cerca di ingraziarsi l’elettore di destra, dovrebbe rischiare di perdere del tutto i voti di chi era in piazza, delle loro famiglie e colleghi? Certo, Renzi gioca la sua partita a destra sulla base della convinzione - decisamente in continuità con il dalemismo della “sinistra” PD - che in Italia a destra si trovi la maggior parte degli elettori, e che l’elettorato del PD continuerà a votarlo qualsiasi cosa accada. Ma certo che attaccare con quella nettezza milioni di voti che sono, o sono stati fino a pochissimo tempo fa, parte del patrimonio politico del PD non si spiega neanche con l’appoggio, tutt’altro che indifferente, che gli imprenditori riuniti alla Leopolda sapranno ricambiare in sede di campagna elettorale vera e propria. 

Ma la domanda che si pone Landini può essere anche lo spunto per trarre conclusioni leggermente diverse da quelle a cui è giunto il segretario della FIOM. A nostro modo di vedere, infatti, a prevalere, nei toni del Renzi della Leopolda, non sembra essere la «logica padronale», quanto quella – potenzialmente molto più rancorosa – della classe media. L’astio di Renzi non è quello del padrone ansioso di disporre liberamente del suo sottoposto: sembra piuttosto quello del pendolare che vorrebbe mettere le mani addosso al conducente del treno; quello di chi, costretto a turni massacranti, reagisce urlando ai ragazzini che giocano sotto la sua finestra. Quello di Roma fa schifo o dei commentatori anti-degrado del Mattino di Padova. Quello che, con un ossimoro neanche troppo tale, si potrebbe definire invidia sociale verso il basso.

È un discorso, è vero, assai scivoloso: se tanto ci sarebbe da dire sul concetto stesso di “classe sociale”, ben poco accordo c’è su cosa costituisca, nel concreto, la classe media. Eppure, la rilevanza attribuita a questa categoria è piuttosto unanime. Nella storia d’Italia, le classi medie sarebbero state, nell’ordine, il motore del Risorgimento, il collante dell’Italia Liberale, il bacino di consenso originario del fascismo, l’asse della bilancia nel confronto tra DC e PCI. E oggi, dietro l’emergere di una middle class mondiale, si intravede la possibilità di una democratizzazione della Cina, di un innalzamento degli standard contributivi dei Paesi in visa di sviluppo e del raggiungimento di un nuovo equilibrio globale – il che spiega le più o meno interessate celebrazioni di movimenti di classe media come quelli brasiliani anti-coppa e anti-corruzione o degli studenti di Hong Kong.

Nel contempo, gli economisti occidentali e italiani registrano con inquietudine da più di un decennio la riduzione della quota di reddito detenuta da chi guadagna più dei poveri ma meno del 10% di più ricchi (i top income su cui Piketty ha gettato un po’ di attenzione). Riduzione che in Italia è stata non enorme, almeno fino alla crisi, ma che è andata a vantaggio proprio di quel 10%. Che la si definisca in termini di reddito, o piuttosto – come si faceva un tempo – basandosi sull’occupazione (presa come misura del “posto occupato nella società”), sembra evidente che le fasce più deboli della classe media siano aggredite in misura considerevole dal fenomeno della precarietà cui noi tutti proviamo a dare una risposta politica.

Se si adoperasse la definizione un po’ datata di Sylos Labini, per esempio, nella classe media dovremmo comprendere “la piccola borghesia impiegatizia (stipendi)”, e dunque i precari della scuola, della ricerca e del pubblico impiego; “la piccola borghesia relativamente autonoma (redditi misti)”, e dunque, con un po’ di elasticità, gran parte delle partite IVA, compresa la figura mitologica dei “creativi”.

Certamente, molti di quelli che si sono trovati in mezzo tra nuovo e vecchio mondo del lavoro erano convinti di essere diventati, o di essere destinati a diventare in un futuro molto prossimo, classe media. E nella frustrazione comune a una generazione, nel sentirsi più sfigati, meno tutelati, meno pagati, meno stabili di quanto saremmo stati, con le stesse qualifiche e competenze, appena qualche decennio fa, c'è il rischio concreto che molti riscoprano l'antico terrore dei pezzenti; l’orrore di essere risucchiati di nuovo verso il basso, nonostante la "creatività", la "cultura", i "sacrifici" accumulati. Di certo, con la classe media tradizionalmente intesa, il precariato sembra avere in comune la natura di “non-classe” – la mancanza di un’identificazione propria, l’assenza stessa di interessi condivisi. Molti di noi, in effetti, condividono di più – in termini di aspirazioni, di consumi, di stili di vita – con i propri datori di lavoro che con figure tradizionalmente precarie come i camerieri e i braccianti: e in questo senso va letto lo stridore tra le code davanti agli Apple Store per acquistare i nuovi modelli di iPhone e una contrazione di reddito comune a quasi tutto il 99%. Scomodando Pasolini, chi abita questo indefinito posto tra chi sta bene e chi sta male ha spesso ceduto, prima e con più convinzione degli altri, «alla identificazione di borghesia con umanità».

E allora questo non concepirsi (se non nel portafogli) diversi da chi sta sopra, unito alla convinzione più o meno motivata che i propri “meriti” debbano garantire status, stipendio o almeno stabilità maggiori di quelli di gran parte di chi sta più in basso, finisce per produrre invidia sociale verso il basso, anziché solidarietà di una classe che, al di fuori di questo rancore, non esiste.

Quando Matteo Renzi indugia con astio sul lavoro "tradizionale", contrapponendo l’instabilità che vivono i (più o meno) giovani alle “garanzie” di chi è stato costretto a lasciare la scuola per salire su un ponteggio a rischiare la vita, ciò che sta cercando di fare è compiacere gli istinti più bassi della pancia del Paese – ove con “pancia” si potrebbe intendere proprio chi sta in mezzo, tra la testa e le gambe. A loro, a noi in effetti, offre la possibilità di sentirci, questa volta sì, ferocemente classe media, ma nel solo esercizio di un incarognimento sociale e della guerra tra vecchi e nuovi poveri.

Il concetto di classe media è scivoloso anche perché evoca interpretazioni forti: se persino Time non sfugge alla tentazione di scomodare Marx e la sua teoria sul declino delle classi medie, nell’avversione di Sylos Labini nei confronti di Berlusconi una parte non secondaria era giocata proprio dalla capacità del Cavaliere di saldare con forme nuove quel blocco sociale che portò all’affermazione del fascismo. Con uno sguardo più a breve termine, quello di chi ha un contratto in scadenza a dicembre, chi scrive riesce a concludere solo che una simile strategia, qualora andasse in porto, produrrà un Paese sicuramente molto più stabile, ma una società sempre più incivile. Un Paese in cui si governa finalmente bene, ma si vive irrimediabilmente male, e nel quale lavorare, uscire la sera, coltivare affetti, diventa sempre più simile a prender parte a una guerra. Un Paese che abbiamo ancora la possibilità, proprio partendo dalle nostre azioni e relazioni quotidiane, di respingere al mittente.

 

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