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I gonzi di Riace e il partito del buonsenso: una risposta a Travaglio

  • Scritto da  Federico Martelloni
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I gonzi di Riace e il partito del buonsenso: una risposta a Travaglio

Oggi, Marco Travaglio, nel suo editoriale su Il Fatto Quotidiano intitolato “I gonzi di Riace”, stigmatizza la condotta di quelli che definisce “i tifosi (Salvini) e i nemici (un bel pezzo della sinistra) dei magistrati di Locri” che hanno disposto l’arresto (sic!) di Mimmo Lucano, sindaco di Riace, dichiarando di militare in un terzo partito: quello “del buonsenso”.

Per il socratico Travaglio, se non si vuole precipitare “nell’anarchia, nel caos, nel Far West”, ci si può battere per cambiare una legge ritenuta ingiusta ma, fin quando ciò non accada, tocca a tutti, specie a chi veste ruoli istituzionali, rispettarla o, quantomeno, accettare le conseguenze della sua violazione, come toccò a tante storiche figure della disobbedienza civile che, nel rapsodico riassunto dell’autore, spaziano da Gandhi a Pannella, da Erri De Luca a Danilo Dolci. Non manca, nell’editoriale di Travaglio, il classico riferimento al conflitto tra Antigone e Creonte, con la sollecita precisazione che l’Italia, diversamente dalla Tebe di Sofocle e dall’India di Gandhi, è una democrazia, il che sconsiglierebbe di violare ogni legge e, tantomeno, mettere in discussione l’operato dei giudici.

La militanza nel partito del buonsenso non impedisce, tuttavia, all’autore un errore più grave degli altri, proprio quando richiama l’esperienza di Danilo Dolci, assolto – non già condannato! – da tutte le accuse che gli furono mosse per il celebre “sciopero alla rovescia” di Partinico, che portò al suo arresto la mattina del 2 febbraio 1956. Fu Pietro Calamandrei, nell’arringa in difesa di Danilo Dolci che conclude “Processo all’art. 4” – come fu, significativamente, intitolato il volume che racconta la storia dell’intera vicenda processuale – a richiamare l’Antigone, per evidenziare il contrasto tra le ragioni del commissario Di Giorgio, che applica con solerte disciplina il Codice di Pubblica Sicurezza, e quelle di Danilo, che organizza la mobilitazione dei disoccupati sulla trazzera vecchia, per rivendicare il diritto al lavoro (art. 4 Cost.) promesso dalla Carta fondamentale del ‘48. 
Con una differenza che lo stesso Calamandrei mette in luce, tanto rilevante e dirimente da condizionare le sorti del giudizio: Danilo, diversamente da Antigone, non obbedisce ad un diritto non scritto, ma alla Costituzione posta alla base dell’intero edificio repubblicano.

Trascurando il carattere oggettivamente esorbitante della misura cautelare richiesta per il “delinquente” Mimmo Lucano e la sua compagna - su cui Travaglio, colpevolmente, tace - anche i fatti di Riace potrebbero essere letti alla luce del contrasto da leggi ordinarie e principi costituzionali, posto che è stato scritto - anche se nessun commentatore pare essersene accorto – anche l’art. 2 Cost., alla cui stregua «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.». 
L’esplicito richiamo operato dalla norma costituzionale a questi diritti inviolabili della persona, implica il loro inserimento nel diritto statuale, al vertice della gerarchia delle fonti.

L'idea dei costituenti è, insomma, che esistano diritti fondamentali che precedono l’esistenza stessa dello Stato, cui l’insieme delle norme poste dall’ordinamento statuale deve conformarsi: essi prescindono dalla cittadinanza, appartenendo alle donne e agli uomini come tali e non in quanto cittadini, quale che sia il luogo di nascita o il colore della loro pelle.

Ciò che si può rimproverare a Mimmo Lucano è una fedele obbedienza all’art. 2, il che dovrebbe farne un esempio per i suoi colleghi sindaci e, più in generale, per gli uomini e le donne cui è toccato vivere quest’aspra stagione senza porti né ponti.

 

 

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