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L'esclusione alla base del radicalismo parigino

  • Scritto da  Ariane Amado
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L'esclusione alla base del radicalismo parigino

Quando le esplosioni sono risuonate nelle periferie parigine io non c’ero. Rannicchiata nella piccola città di Casalecchio vicino a Bologna, accanto a colui che amo, contemplavo gli avvenimenti scioccanti, sfortunatamente senza essere sorpresa. La radicalizzazione non è tanto religiosa quanto vorrebbe apparire: essa proviene soprattutto dal ripiegamento su se stessi, e dalla fragilità, due elementi che in Francia sono stati arginati e repressi per decenni.

Questo fenomeno non è nuovo: sono diversi anni che si sviluppa pur restando nascosto. Già nel 2005, quando le Banlieues francesi si sono infiammate, si è visto esprimersi questo malessere latente. Ma in pochi si sono degnati di ascoltare davvero cosa significava questa sofferenza. Delle città diventate dormitori alle prigioni sovraffollate, la popolazione francese si è ritrovata segregata, rinchiusa, murata per molti, lunghi e dolorosi anni. Quello che paghiamo oggi è il prezzo della nostra indifferenza di allora.

Certo, le cause della «Jihad» superano evidentemente le nostre frontiere e rimandano a dei meccanismi geopolitici e di indottrinamento delle menti che sfuggono a noi comuni cittadini francesi. Nonostante questo, non è perché il nucleo del problema si situi altrove che dobbiamo smettere di riflettere su quanto noi abbiamo contribuito a creare qui. I terroristi che hanno commesso gli attentati terribili del 13 novembre, del 7 e dell’11 gennaio, e gli omicidi di marzo 2012, erano tutti francesi o belgi.

Prendiamo per esempio i terroristi del 7 e 11 gennaio scorsi: questi uomini venivano tutti da quartieri difficili, le famose «Banlieues a rischio», e hanno fatto molti viaggi di andata e ritorno dentro alle carceri superaffollate di Parigi.

All’incendiarsi delle Banlieues nel novembre 2005 nessuno ha voluto vedere quello che significavano veramente le grida di collera e di rancore di queste centinaia di giovani disarmati e soli. Saint-Denis, mediaticamente conosciuta nel passato per essere stata il teatro dello scontro a fuoco tra le forze dell’ordine e i sospetti terroristi dell’attentato del 13 novembre, si era già infiammata circa 10 anni fa, il primo novembre 2005, quasi come un avvertimento di una situazione divenuta impossibile.

Quando queste periferie sono state costruite, al limitare della città, negli anni Settanta, dovevano essere delle città dorate, delle mini utopie nelle quali avrebbe abitato chi lavorava in città ma era senza i mezzi economici per alloggiare all’interno della stessa. La panetteria, il supermercato, l’asilo: tutto era stato immaginato per costruire una città perfetta dalla quale l’essere umano non avesse più bisogno di uscire per soddisfare i propri bisogni. Nei fatti queste utopie sono divenute dei veri e propri ghetti, lontani dagli sguardi di tutti, a metà strada tra i cittadini e gli abitanti delle zone rurali, situate nel territorio che non interessava a nessuno. Nessuno, tranne coloro che lì vivevano e ai quali non è mai stata data la parola. Ormai sono passate decine di anni da quando le forze dell’ordine hanno smesso di intervenire in questi quartieri, e da quando i professori universitari e di liceo hanno iniziato a lanciare allarmi sulla situazione di degrado di queste zone che peggiora di giorno in giorno. Sempre di più le grandi città si gentrificano, e i quartieri popolari diventano alla moda, spingendo i poveri a rendere sempre più povere altre zone nascoste e remote, destinate a non esser niente di più che aree di accumulo di miseria.

E invece nulla. Nessuno allora si degnò di capire cosa significasse la sofferenza di quelle banlieues quando si espresse così violentemente nel 2005, nessuno volle comprendere come questa rabbia si stesse formando nell’ombra già da lungo tempo. Al contrario, piuttosto che tentare di ricostruire i legami sociali laddove la comunicazione si era rotta, anzichè arginare l’esclusione abbattendo le barriere dei grandi poli urbani per includere quei comuni a margine, che, volenti o nolenti, ne fanno parte, abbiamo preferito ignorare nell’indifferenza più totale e terribile. Peggio ancora, abbiamo imprigionato centinaia di migliaia di giovani soli, che hanno trovato un rifugio nello spaccio, nel furto e nella violenza. Rimedi facili in territori rimossi dalla nostra coscienza, che nessuno si degna di avvicinare.

Ad oggi la Francia ha più di 65’000 persone in carcere, circa il triplo dei detenuti nel 1980. La più grande prigione d’Europa si trova in Francia, ben nascosta in una di queste banlieues isolate nella regione parigina, e conta più di 4’000 detenuti avendo la capienza massima di 2’500. La gran parte dei giovani rinchiusi vengono da questi quartieri detti sensibili, e spiegano molto onestamente che la prospettiva d’un avvenire è risibile dal loro punto di vista, e che lo spaccio costituisce una soluzione molto più efficace a confronto degli impieghi precari o della grandissima disoccupazione delle aree in cui vivono. Ma ancora una volta si tratterebbe di ascoltare e guardare ciò che ci imbarazza. Ossia che abbiamo creato una generazione di reclusi ed esclusi a colpi d’indifferenza e segregazione.

Non è con la repressione securitaria e poliziesca che regoleremo questa situazione, bensì a colpi di apertura e di legami sociali. Dobbiamo cominciare dal guardare ciò che non vogliamo vedere a qualche kilometro dalle nostre porte per arginare la miseria che monta, terreno di coltura della radicalizzazione, religiosa e non.

 

*Ariane AMADO, dottoranda in diritto penale e diritto penitenziario comparato all’Università di Parigi 1-Pantheon Sorbona. Associata dal 2012 a Genepi (associazione studentesca che sostiene una maggiore apertura del sistema carcerario attraverso lo scambio dei saperi), responsabile del gruppo Genepi della prigione di Fleury-Merogis nel corso dell’anno 2014-2015, amministratrice della Regione dell’Ile-de-France per l’anno 2015-2016.

**Traduzione di Marco Maggioni e Mattia Bertin

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