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La storia non è finita, e continuano a farla i popoli

La storia non è finita, e continuano a farla i popoli

Oggi, poco meno di dieci milioni di cittadini di Greci avranno la possibilità di recarsi alle urne, per eleggere il proprio parlamento e decidere dunque quale governo dare al proprio Paese. Un evento piuttosto rituale – dal ripristino della democrazia nel 1974 ad oggi, i greci hanno votato una volta ogni due anni e mezzo – in un Paese che raccoglie a malapena un cinquantesimo degli abitanti dell’Unione Europea e poco più dell’uno per cento del suo prodotto interno lordo. Nonostante ciò, i mercati finanziari di tutto il mondo attendono di capire cosa farà quel ristretto numero di greci ancora incerti – tra Nuova Democrazia e Syriza, e ancor più tra Syriza e le altre opposizioni di “sinistra”, dai comunisti del KKE ai socialdemocratici del Pasok. Ecco, no, diciamo che i “mercati” – o quella piccola cerchia di grossi portafogli in grado di muoverli a piacimento – non hanno aspettato il voto per speculare su un panico che essi stessi vanno diffondendo di proposito. Ma questa è un’altra storia.

Non sono infatti i mercati a rendere interessante ciò che succede ad Atene. Al contrario: è la portata simbolica di quello che avviene ora in Grecia a costringere il mondo dell’economia e della finanza all’attenzione. Diciamo avviene, al presente, non perché dia per scontato che queste elezioni conducano al successo di Syriza, anzi. Diciamo avviene perché è la sola possibilità che questo avvenga a costituire un evento che non è possibile definire in altro modo se non storico. È questa mera possibilità a far percepire a milioni di europei le elezioni di oggi come un evento cruciale per la storia recente del Continente.

Parlando di Grecia, va da sé, è facile cedere al richiamo di qualche reminiscenza liceale. Tuttavia, ci sono motivi piuttosto validi per giustificare, questa volta, l’uso del registro epico.

Le elezioni di oggi in Grecia ci dicono forte e chiaro che la Storia non è finita. Anche qui, nel Vecchio Continente, sempre più periferia del Nuovo Mondo. Ancora oggi, a venticinque anni dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine delle ideologie. Persino in Grecia, in un Paese della periferia Sud dell’Unione, flagellato dalla corruzione e dagli scandali. Tra le macerie di una crisi spaventosa, e delle atroci falsità che l’hanno causata e giustificata. Anche qui e ora, una manciata di milioni di cittadini è ancora libera di decidere del proprio destino, ed è ancora libera di compiere una scelta radicale, capace di mettere a rischio la struttura stessa dell’Unione Europea. Il fatto che a mettere a rischio l’Unione siano più le assurde rigidità e pretese degli altri coinquilini Europei, Germania in testa, che le richieste di Syriza – di per sè socialdemocratiche – è secondario.

Oggi la Grecia ci dice che la storia non è ancora finita, e i popoli continuano a scriverla, quando ne hanno la possibilità. È un messaggio che dovrebbe suonare fortissimo nelle orecchie di quei Paesi che ancor più assurdamente hanno rinunciato a giocare la loro partita in Europa, pensando prima che dall’adesione ad essa sarebbero scaturiti tutti i beni per grazia divina, poi che ad essa non vi fosse alternativa, pure nella sua ingiustizia. Certo è uno spettacolo curioso vedere l’effetto che fa, questo messaggio, a quella classe dirigente di sinistra che ha usato per vent’anni e più l’Europa come clava per imporre austerità, precarietà, ingiustizie al proprio elettorato. Oggi questi tristi personaggi scoprono che era possibile dire parole di verità, e armare di questa il proprio popolo per dargli la possibilità di scrivere futuri alternativi. Ma non è a loro che parla la Grecia.

La Grecia parla al popolo europeo, a cui si rivolge con video in lingua inglese. A quel popolo che in piccola parte, già alle Europee dello scorso maggio, ha votato Tsipras, dandogli la forza e l’autorevolezza internazionale per affrontare questa sfida. Ma ancor più, la Grecia parla al resto, a chi ha ceduto alla rassegnazione, non votando, o chi ha finito per appoggiare posizioni nichiliste, di fronte all’assurdo there is no alternative che gli veniva proposto. A quel popolo, la Grecia ricorda che non esiste crisi cui non sia possibile rispondere collettivamente, usando l’arma della solidarietà.

Quella stessa arma della solidarietà la avevano impugnato quasi due secoli prima i minatori inglesi, e un secolo prima le mondine italiane, stringendosi in società di mutuo soccorso, la impugnano nella crisi i greci delle cliniche autogestite e delle mense popolari. Nella distruzione del mondo pre-industriale causata dal capitalismo ottocentesco come nel crollo del castello finanziario su cui si era retta l’economia degli ultimi decenni, la solidarietà tra gli esclusi è stata l’arma più forte con cui resistere e riaffermare il proprio diritto a un’esistenza dignitosa. Nell’esercizio di questa solidarietà il popolo greco ha saggiato la sua forza, e ha capito di poter rivendicare quel diritto anche nelle elezioni, anche di fronte all’Europa.

Facendo questo, ci ha ricordato che la storia non è né necessariamente progresso, né irrimediabile declino, ma un campo di possibilità. Oggi come ieri, ai popoli che trovano la forza e le forme per farlo è consentito modificare i recinti di questo campo, spostandolo fuori dal necessario e allargandolo fino a comprendere il desiderabile. Nella storia di questi greci – come in quella di molti nostri predecessori ottocenteschi – è possibile trovare non già un modello da imitare, quanto la consapevolezza che ci sono spazi di dignità e di riscatto anche nell’abisso; che anche al punto massimo di pressione dell’economia sulle vite, rimane possibile costruire collettivamente vie alternative.

Comunque vada, l’Europa si sveglierà domattina più libera: perché la Grecia ci ha insegnato che ancora oggi è possibile non scegliere da chi essere governati, ma imparare a governarsi da sé.

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