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[Letture corsare] Finale di partito: crisi dei partiti di massa e nuove forme di democrazia

Revelli Finale di partitoDopo le elezioni del 24 e 25 febbraio si naviga a vista, spaesati. Un'utile bussola per ragionare su questa fase ce la dà Marco Revelli, che con il suo ultimo libro, edito da Einaudi, delinea le cause della crisi evidente dei tradizionali partiti di massa novecenteschi. Il titolo è eloquente: Finale di partito. Sì, perché verrebbe da pensare questo se si guarda all'emorragia elettorale che hanno avuto in quest'ultima tornata i due blocchi che da vent'anni a questa parte hanno dominato la scena politica del nostro paese.

Revelli, analizzando i dati delle amministrative dello scorso anno, evidenzia lo smottamento del centrodestra al nord che però non si è tradotto in un travaso di voti al centrosinistra. Ciò dimostra che c'è stata una fuoriuscita di di elettori ed un incremento dell'astensionismo, a partire dalle regioni “rosse”. L'unico a poter cantare vittoria, già in quella occasione, era stato Grillo che pescava voti dall'astensionismo e parimenti dal centrodestra e centrosinistra.

Revelli è chiaro: è in atto una progressiva dissoluzione della “Seconda Repubblica” e l'idea di un maggioritario egemonico e bipolare è fallita con una liquefazione degli aggregati partitici fondamentali. Eppure il corpo elettorale aveva già dato dei segnali con i referendum sull'acqua e sul nucleare, che testimoniavano non solo l'inalienabilità dei beni comuni, ma anche una volontà di riappropriazione e di limitazione del controllo della classe politica sulla “sfera pubblica”. Inoltre, un allarme importante furono le elezioni a sindaco di Pisapia e De Magistris, entrambi osteggiati dalle burocrazie partitiche e voluti dal “basso”. Gli scandali, le risposte mancate, la distanza della rappresentanza istituzionale dalle miserie della gente comune: queste sono alcune delle cause della sfiducia verso i partiti, che si traduce poi in crisi delle istituzioni che li ospitano e che paiono sempre più inadeguate. L'autore dunque addita la tensione oligarchica che affligge da sempre la democrazia e citando Roberto Michels, uno dei maggiori fautori della teoria elitista della politica, argomenta come nel secolo scorso l'organizzazione, la gerarchizzazione e la professionalizzazione siano state delle condizioni basilari per il processo democratico. In realtà Michels concludeva che queste ultime confermassero, tuttavia, l'impossibilità della democrazia pura, perché inevitabilmente vi era una torsione oligarchica del processo democratico. Revelli non si ferma e pone sul piatto altri sintomi della dissoluzione dei “contenitori politici” novecenteschi: la sempre minor qualità dei leader, la progressiva riduzione di luoghi di discussione ma sopratutto i diversi bisogni che non si vogliono più rivendicare delegandoli alle strutture burocratiche (partito e sindacato) ma tendenzialmente tramite gruppi ad hoc, come teorizza Ulrich Beck definendo il concetto di “sub-politica”.

Il nodo centrale del libro si dipana ora. La verità è che la crisi della forma-partito classica va di pari passo con la metamorfosi del lavoro. Come, da più di vent'anni a questa parte si parla di post-fordismo come nuova forma di produzione, ora è giunto il momento di definire anche il posto-fordismo politico. La fabbrica fordista era basata su un sistema rigido, razionale, con una gerarchizzazione marcata, una formalizzazione spinta dei ruoli e una tendenza spiccata al gigantismo. Allo stesso modo il partito classico disciplinava, si organizzava in livelli e tendeva ad incorporare sempre nuove masse da formare e dirigere. Questo è stato un paradigma vincente per oltre un cinquantennio, ma ora sta implodendo. Al pari dei mutamenti del mondo del lavoro crollano alcuni pilastri un tempo centrali: il gigantismo, la divisione dei ruoli, la struttura “pesante”. Capofila di questo mutamento è l'America, con la sua rivoluzione antiburocratica, l'organizzazione catalitica che non mira ad incorporare ma solo ad indirizzare, l'esternalizzazione di tante attività (circoli dopolavoro, redazioni, case editrici, servizi d'ordine). I partiti non hanno più un blocco elettorale di riferimento e cercano voti in tutte le classi sociali in maniera indistinta.

Nel nostro Paese il partito invece ha mantenuto una struttura pesante, sostituendo la militanza con il lavoro dipendente remunerato, mantendo una struttura burocratica, gerarchica, fatta di professionisti che vivono di politica. Tuttavia, secondo Revelli, la nostra democrazia sta cedendo il passo alla “democrazia del pubblico”, dove viene meno la suddivisione tra rappresentanza e opinione pubblica, ma allo stesso tempo si ripersonalizza la politica diventando un mercato dove vince l'imprenditore “politico” più bravo. È una democrazia passiva, dove la distanza tra rappresentanti e rappresentati è ai massimi livelli e l'unica alternativa sembra essere un tipo di democrazia immediata telematica apparentemente diretta.

Quali sono le vere soluzioni? Revelli prova ad identificarle nel concetto di “contro-democrazia”, espressione mutuata da Pierre Rosanvallon. In questo tipo di democrazia il popolo, che non ha più l'illusione di esercitare il potere, lo sorveglia. Ciò può portare alla nascita dei populismi, ma anche al sorgere di una “sub-politica”, fatta dal basso, praticata localmente.

Le ultime pagine di Finale di partito lasciano il lettore con tante domande irrisolte e con un'alternativa appena abbozzata. Pare che Revelli voglia passare la palla alla realtà senza sbilanciarsi in prospettive di lungo periodo. Di sicuro ha il merito di aprire una discussione sulle forme della democrazia, sul ruolo che deve avere il sociale in questa fase difficile e su come ripensare in toto la politica.

Per approfondire, segnaliamo l'intervista a Marco Revelli su Il Corsaro del febbraio 2012, e il dialogo pubblicato nel primo numero dei Quaderni Corsari

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