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Perché il movimento studentesco può essere rivoluzionario?

Perché il movimento studentesco può essere rivoluzionario?

L'autore è il coordinatore nazionale dell'Unione degli Studenti.

"è in questo che il movimento studentesco è rivoluzionario [...]. Esso non rifiuta le riforme (la sua azione le provoca) ma tenta, al di là delle soddisfazioni immediate, di elaborare una strategia che permetta il cambiamento radicale della società."

Nanterre: l'esplosione del Maggio, Daniel Cohn-Bendit

Il 10 ottobre: la scintilla per un nuovo ciclo di mobilitazione

Gli studenti sono tornati in piazza, con numeri inaspettati. Capire la sfida del nascente movimento studentesco è quanto mai necessario per non cadere in facili banalizzazioni sulle rivendicazioni e sulla portata che potrebbe assumere. In queste ultime due settimane si sono susseguite centinaia di assemblee da nord al sud del Paese, che stanno aprendo un ampio fronte di opposizione a La buona scuola di Renzi, leggendo tra le righe del progetto di riforma complessiva un appiattimento dei luoghi delle formazione alle esigenze delle imprese del Paese, una torsione autoritaria della governance scolastica, un soffocamento del protagonismo studentesco, una privatizzazione sostanziale con l’ingresso dei capitali privati e delle loro logiche che andranno a permeare sempre più i modus operandi interni alle scuole, una valutazione quantitativa e punitiva che maschera la sua vera natura di dispositivo di controllo, una finanziarizzazione inaccettabile dei mezzi per combattere la dispersione scolastica. Di analisi critiche sulla Buona Scuola se ne potrebbero fare a bizzeffe, ma occorre guardare – non tanto per onor di cronaca, ma per riconoscere le vere sfide che hanno lanciato gli studenti a partire dal 10 ottobre verso il 14 novembre e oltre – a quali sono i ragionamenti che stanno iniziando a emergere e a concentrarsi su di essi.

L’autunno del 2012 ha chiuso un ciclo di mobilitazioni studentesche a carattere resistenziale iniziato nel 2005 con il movimento di opposizione alla Riforma Moratti. In questi ultimi anni, infatti, l’attacco neoliberista all’istruzione si è manifestato con tutta la sua forza, andando a mutare il ruolo del sistema formativo dall’interno, inaridendolo sotto molteplici punti di vista. Negli ultimi vent’anni, infatti, abbiamo assistito a un attacco all’universalità della formazione, alla scolarizzazione di massa del compromesso fordista che aveva svolto una funzione importante, non solo nel nostro Paese, per abbattere le disuguaglianze, alfabetizzare e fornire quadri dirigenti in grado di affrontare gli sviluppi del sistema produttivo. Dagli anni ’90, dal libro bianco agli accordi GATS, fino alle direttive più recenti, la governance mondiale ed europea ha deciso di appiattire le scuole e le università alle esigenze del sistema produttivo e di liberalizzare i servizi. Quindi determinazione degli apprendimenti funzionali alla domanda del mercato della manodopera, disciplinamento e controllo continuo attraverso la didattica e la valutazione quantitativa e numerica, imposizione della logica dell’impresa sui bisogni educativi e produzione indotta di questi ultimi in uniformità alle logiche dell’impresa. Ma forse il punto nevralgico della ristrutturazione del sistema formativo è da individuare nella sua progressiva chiusura alle fasce più deboli e povere. Oggi il mercato non ha bisogno di un’alta formazione diffusa e dunque tanto vale da un lato dequalificare l’istruzione pubblica, dall’altro imporre dei costi alti all’accesso. Le scuole e le università si stanno trasformando in incubatori di precari usa e getta per l’azienda della porta accanto. La Buona Scuola è l’apogeo di questo processo. Da un lato essa non si interroga volontariamente sul come garantire a tutti il diritto allo studio, confermando la volontà di proseguire nell’elitizzazione della formazione, dall’altro punta il dito, peraltro senza un progetto complessivo, sul potenziamento delle scuole del “saper fare” e sugli apprendistati sperimentali al IV e V anno per rispondere alle esigenze attuali delle filiere produttive nostrane che richiedono basse competenze, orari assurdi, salari da fame e flessibilità massima. Il fil rouge tra la quinta sessione de La Buona Scuola e il DL Poletti e la legge delega appena approvata dal Senato è presto riconosciuto.

 

La responsabilità storica del movimento studentesco

Prima di pensare alle risposte date e a quelle mancate, occorre fare un passo in più, riconoscendo un dato ulteriore: il mutamento dello scenario politico, le larghe intese, l’assetto post-democratico che si delinea giorno dopo giorno, ci impongono un ripensamento del nostro ruolo e della nostra proposta. A partire dal movimento della Pantera del ’90 e prima ancora da quello degli studenti medi dell’85 contro il progetto di legge del Ministro dell’Istruzione Falcucci, i movimenti studenteschi sono nati e cresciuti partendo dai propri bisogni materiali. Non si aggregava più a partire dall’ideologia, ma sull’opposizione a provvedimenti singoli, sui quali occorreva inoltre una preparazione tecnica non indifferente che andava a qualificare il movimento di protesta.

Gli ultimi due anni però ci consegnano un quadro più insidioso. Dal governo Monti, tecnico, freddo, totalmente subalterno alle lobbies finanziarie, si è passati ai governi Letta e Renzi, che agli occhi dell’opinione pubblica si presentano come i governi del largo consenso mediatico atto alla pacificazione nazionale, dei provvedimenti tampone per le “emergenze”. I governi delle larghe intese continuano a perseguire i diktat di BCE e FMI cercando però di ammortizzare gli “shock”. Ancora una volta il nostro Paese diventa un laboratorio politico d’avanguardia per la governance politico-economica. Si apre una svolta autoritaria del neoliberismo che intacca anche l’assetto democratico italiano attraverso le riforme istituzionali. Il punto nodale è proprio riconoscere la nuova tecnica di governo, volta ad amministrare – innestando anche qualche elemento sociale – il processo di saccheggio dei beni comuni, la messa a valore di questi ultimi e il perdurare della stretta sulla spesa pubblica. Lo scopo rimane quello di mantenere gli obiettivi sul rimborso del debito e la difesa degli interessi del capitalismo predatore in cerca di nuove fette di mercato da cui trarre profitti sicuri dopo la scottatura della crisi finanziaria del 2007.  La nostra è dunque una fase di rivoluzione passiva e la chiave interpretativa gramsciana ci può essere d’aiuto. La rivoluzione passiva è una rivoluzione-restaurazione [A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, pp. 1324-1325], capace attraverso delle riforme calate dall’alto di progredire nel conseguimento delle politiche neoliberiste. Essa rappresenta il superamento del concetto di “Controriforma” sempre di matrice gramsciana, potenzialmente ascrivibile alle politiche degli anni scorsi che non tenevano conto di “una qualche parte delle esigenze dal basso” [ivi] e delineavano una conclamata e visibile lotta di classe dall’alto diretta alle conquiste sociali degli anni precedenti. Ciò può avvenire soltanto con una forte egemonia politico-culturale – alimentata di boutade mediatiche su fantomatiche “riforme” – che si faccia carico della gestione e consolidamento dei rapporti di forza a favore dei ceti alti che si sono arricchiti in maniera spropositata nel corso della crisi. Gli obiettivi sono dunque la governabilità e la pacificazione sociale: ogni conflitto dev’essere soffocato.  

Si vogliono governare le istanze sociali con qualche falsa risposta dunque, come gli 80 euro in busta paga.

Il punto nodale è proprio riconoscere la nuova tecnica di governo, volta ad amministrare e a disinnescare le tensioni sociali per consentire la nuova fase di accumulazione del capitale.

Renzi, interpretando in qualche misura anche un disagio nei confronti della gestione della crisi passata, si erge in questi mesi a paladino dell’alternativa. Ecco allora che si fa strada il mito dell’“austerità espansiva”, con un perseguimento degli obiettivi di Draghi accompagnati da politiche economiche che guardano alla “crescita”.  Verrebbe da chiedersi a favore di chi, ma la risposta è presto data: l’accumulazione della ricchezza corrispondente all’aumento del PIL previsto, infatti, sarà ancora una volta a favore delle grandi aziende, senza politiche di stimolo della domanda o aumento dell’occupazione. La strada intrapresa ultimamente dal Governo Renzi, comunque, ha un nuovo indirizzo sul lato delle politiche economiche e del lavoro. Abbandonata ogni velleità di matrice blairiana, Renzi, con la forzatura in corso sul Jobs Act, aggiunge un tassello importante all’inaccettabile piano neoliberista di completo annientamento dei diritti all’interno dei luoghi di lavoro e della precarizzazione come forma di controllo, di assoggettamento e di massima estrazione di valore dal lavoro vivo. Parimenti, gli annunciati 25/30 miliardi di tagli che dovranno essere messi in campo dalla legge di stabilità, accompagnati dal piano di privatizzazioni, delineano anch’essi la sostanziale linearità del governo rispetto a quelli precedenti sui tagli alla spesa e l’apertura di nuovi spazi di valorizzazione capitalistica in quelle che una volta erano le “zone franche” del pubblico.

Ma veniamo al dunque. Oggi l’assetto post democratico ritaglia al soggetto sociale un ruolo sempre più marginale, disciplinato e subalterno. È facile riconoscere questo nell’azione di Renzi che attacca frequentemente i corpi intermedi, tacciandoli di conservatorismo.

Occorre pertanto indagare le vie d’uscita col fine di ribaltare le prospettive imposte. Abbiamo la responsabilità storica di lanciare una battaglia incompatibile con il governo dell’austerità. Se il ciclo di mobilitazione degli ultimi otto anni si è chiuso, lasciandoci il portato di meriti ed errori, e se pensiamo che è stata definitivamente superata – per tutto quello che abbiamo provato a delineare poc’anzi – la consolidata strategia di aggregare su singoli provvedimenti per poi cercare una generalizzazione politica più ampia, dobbiamo tracciare una nuova strada da percorrere.

Dobbiamo restituire un ruolo forte e politico ai movimenti studenteschi non solo per rispondere ai bisogni prettamente materiali di milioni di giovani che oggi studiano con difficoltà o che sono stati già espulsi dalle scuole o dalle università per una precisa volontà politica, ma anche per dare una risposta forte all’esigenza di rovesciare l’attuale modello di sviluppo, di ridefinire l’assetto democratico, di invertire i rapporti di forza sempre più a sfavore delle classi subalterne. Vogliamo che le piazze vengano attraversate nuovamente da una tensione utopica? Sì, ma con i piedi per terra, consapevoli che l’obiettivo dovrà essere quello di agire su una temporalità lunga senza farsi ingannare dalle piccole vittorie che si potranno ottenere lungo il percorso.

Istruzione gratuita e di qualità: liberazione individuale e progetto per il Paese

I soggetti in formazione sono un soggetto sociale debole, subalterno, in progressivo impoverimento. La precarietà è, in primis, esclusione e marginalità. Noi la viviamo nella difficoltà di accesso ai saperi, nell’impossibilità di poter incidere nelle scelte politiche, di poterci veder garantito il diritto al welfare, alla mobilità, e, in potenza, al lavoro e alla previdenza sociale. Viviamo e condividiamo tale condizione di subalternità con altre soggettività colpite dalla crisi: lavoratori impoveriti, in cassa-integrazione, sotto-occupati, indipendenti, partite iva o disoccupati. Perciò la questione studentesca (uso il termine “studente” per semplicità pur ribadendo la differenza tra questo e il “soggetto in formazione” che raccoglie una più ampia fascia di soggettività) si deve configurare come un frammento di una più ampia questione sociale che parla di interi pezzi di popolazione senza diritti e iper-sfruttati che vivono costantemente la condanna della precarietà.

Lo studente è un soggetto sociale in quanto il suo ruolo è di per sé produttivo. Lo è poiché la ristrutturazione capitalistica, con un processo iniziato da trent’anni a questa parte, ha messo a produzione le conoscenze, le capacità relazionali, l’intimità del soggetto. Il controllo delle conoscenze è divenuto la principale posta in gioco per la valorizzazione del capitale. La conoscenza è un’attività relazionale-cerebrale dell’uomo e diventa tale solo nel momento stesso in cui si propaga; essa assume quindi il carattere di “intelletto generale” o “general intellect” [K.Marx, Gründrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, PGreco, Milano 2012, pag 704-719]. Secondo Marx la crescita del general intellect, e dunque del sapere sociale generale tecnico-scientifico, coadiuvata da una spinta tecnologizzazione dei processi produttivi, avrebbe dovuto portare ad una liberazione dall’alienazione e ad un dominio dell’uomo sui processi produttivi. Ma il capitalismo ha saputo vincere anche su questo fronte, ristrutturandosi e imbrigliando la conoscenza, impedendo a questa di essere uno strumento di liberazione individuale e collettiva. Se dunque la conoscenza assume un ruolo centrale nel rinnovato processo di accumulazione, sono chiari i tentativi di imprimere ad essa un valore di scambio. Se la conoscenza è di per sé inquantificabile, non misurabile e tendenzialmente diffusa, essa può essere mercificata solamente se vengono posti dei limiti di accesso, istituzionalmente o di fatto. Ciò avviene con brevetti, diritti d’autore, licenze, contratti, che limitano con mezzi giuridici la possibilità di copiare, di imitare, di reinventare e di apprendere le conoscenze altrui. Ma ciò avviene con più forza se si guarda al processo di depauperamento e aziendalizzazione della scuola e dell’università. Da vent’anni a questa parte parliamo appunto di una nuova enclosures sulla conoscenza, che diviene una merce alla quale diventa sempre più difficile accedervisi per i blocchi posti all’accesso. La natura estrattiva del capitale si mostra con tutta la sua violenza. Non solo si impongono delle barriere d’accesso alla conoscenza per inseguire la domanda del mercato del lavoro, ma le si impone un valore di scambio attraverso la valutazione e l’appropriazione privata volta alla mercificazione. Rileggere l’accumulazione primaria in Marx potrebbe dare una mano per capire le nuove strategie del capitalismo, la sua rottura con la democrazia, la sua incapacità di “fare società” e la necessità di introdurre nuovi strumenti di governo per garantire i profitti. Ma questa è un’altra storia che meriterebbe tutta un’altra riflessione.

La lotta per la liberazione dei saperi e per l’effettivo controllo del loro indirizzo diviene sempre più centrale per uscire dalla condanna della povertà e dal ricatto della precarietà. Oggi studiare diviene sempre più un investimento privato. Lo confermano le linee guida del governo Renzi che insegue il modello americano che privilegia scuole private inaccessibili ai più e scuole pubbliche “ghetto” con rette altrettanto alte. Il risultato di questo modello è semplice: le disparità sociali determinano quelle educative. Di pari passo queste ultime determineranno le opportunità dei singoli e dunque riprodurranno le disuguaglianze sociali ed economiche.

Parrebbe di vedere la soluzione nella costruzione della “società della conoscenza” delineata dalla Strategia di Lisbona o dei programmi Education and Training. Invece sarebbe un grave errore di miopia politica individuare in questi programmi l’obiettivo di lungo periodo. La loro prospettiva è ridurre la conoscenza ad essere strumento delle esigenze del mercato, utile ad una riorganizzazione in chiave competitiva. Una conoscenza arida, parcellizata, misurata e ridotta qualitativamente a complesso di competenze da spendere in un mercato del lavoro sempre più chiuso e precario.

Iniziare a rivendicare un’istruzione pubblica, di qualità ma soprattutto gratuita è un primo passo rilevante per rompere la prima catena del complesso sistema di soggiogamento della conoscenza al capitale, delle barriere di accesso ad essa. Abbiamo il dovere di lanciare questa battaglia per dare una risposta non solo ai bisogni delle soggettività, ma al Paese tutto. Se il modello di sviluppo scelto dalle classi dirigenti tende alla costruzione di un Paese dove i saperi non sono strumento di emancipazione collettiva ed individuale, ma merci scarse e funzionali alla riproduzione di questo sistema ingiusto, costruire una battaglia per la loro liberazione è una scelta rivoluzionaria.

Rivendicare l’istruzione gratuita e di qualità non è una battaglia di categoria. In questi ultimi anni abbiamo sofferto una dinamica endogena sui processi politici, ci sono stati imposti i tempi e i temi, dalla legge di stabilità, alla spending review, a La Buona Scuola sino al Jobs Act. Ci dobbiamo prendere in carico la responsabilità di aprire una nuova fase di movimento che, accanto alla resistenza di fronte all’attacco neoliberista sulla formazione e il lavoro, provi a parlare al Paese, creando consenso reale e innescando processi positivi di partecipazione e democrazia. Lottare per l’istruzione libera e gratuita vuol dire lottare per un altro modello di sviluppo, dove la conoscenza sia diffusa e utile al bene collettivo. Una battaglia che sappia intrecciarsi con quelle dei lavoratori, sui modelli produttivi e con le battaglie delle comunità locali in difesa del territorio e dei beni comuni.

La nostra proposta è radicale: da un lato vogliamo rispondere a delle condizioni materiale dei soggetti in formazione sempre più difficili, dall’altro vogliamo provare a costruire un processo di soggettivazione che, partendo dalla presa di coscienza della propria condizione di subalternità, inneschi una battaglia politica e generale sul ruolo che deve avere l’istruzione nel nostro Paese.

Le lotte determinano lo sviluppo: brevi appunti

Provando a leggere lo sviluppo economico degli ultimi cinquant’anni, possiamo denotare quanto il processo di accumulazione capitalistico contemporaneo si fondi sull’assorbimento delle alterità. Le alterità sono la variabile indipendente che di volta in volta mette in crisi i profitti nell’immediato: le lotte salariali della fine degli anni ’60, ad esempio, determinarono un aumento dei costi fissi e una caduta del saggio del profitto. Cosa produssero? In primis la normale saturazione dei mercati e le forti tensioni interne (rivolte studentesche, tensioni e scontri razziali in America, repressione poliziesca), che provocarono, tra i vari effetti, il ribasso della moneta. Ma è sul piano dei salari che avvennero molti cambiamenti. Soprattutto nei Paesi dove il compromesso sociale fordista aveva dato i maggiori frutti, quali l’Italia, maggiore fu lo spessore e la forza delle rivendicazioni operaie. Nel nostro Paese, come tutti sappiamo, il culmine delle lotte si ebbe nel 1969, con il famoso “autunno caldo”, durante il quale gli operai costrinsero le organizzazioni sindacali tradizionali a richieste molto pesanti per il capitale e importanti risultati arrivarono con lo Statuto dei Lavoratori del 1970. Il tempo di lavoro mediamente si ridusse, la produzione rallentò e, in seguito alle richieste dei lavoratori di luoghi di lavoro più sicuri, i costi di gestione aumentarono. Tuttavia agli inizi degli anni Settanta ci fu una timida crescita economica, che però si arrestò nel 1973 con la crisi petrolifera e una riduzione considerevole del PIL. Perciò gli Stati fecero grossi investimenti, in molti casi sostituendo i privati, ma senza avere le risorse necessarie per sostenere la spesa. La domanda si contrasse, i prezzi aumentarono, l’inflazione crebbe, la produzione crollò e gli Stati andarono in passivo e dovettero finanziarsi attraverso i titoli di stato, dando avvio alla parabola del debito che contraddistingue la nostra storia contemporanea. Le politiche del deficit, che sempre contraddistinsero lo stato keynesiano, vennero abbandonate alla fine lasciando progressivamente il campo alle politiche neoliberiste di riduzione della spesa, privatizzazione dei servizi e finanziarizzazione dell’economia, vista peraltro come unica scelta per garantire i profitti.

Tutto questo excursus per dire cosa? Che le lotte dei lavoratori sul salario e sui diritti determinarono una ristrutturazione del capitalismo. Le lotte dunque sono il primo motore – non l’unico, sia ben inteso – per lo sviluppo capitalistico.  Il passaggio dal fordismo al post-fordismo, brutalizzando, è stato anche espressione di una crisi. Il capitale ha dovuto estendere la sfera della produzione di plusvalore. Infatti negli anni è divenuto centrale il comando e il controllo non solo della forza lavoro immessa nei luoghi di lavoro, ma anche di ciò che ne rimaneva fuori. Per attuare ciò, il governo capitalistico si è esteso e ramificato – come abbiamo già detto - dentro la società, perché è la società intera ad essere luogo di accumulazione e produzione di valore. Non esiste più un modo di produzione staccato dalla tecnica di governo della popolazione, il capitalismo non si limita ad estrarre ricchezza all’interno del rapporto capitale-lavoro, ma ha sempre più bisogno di assoggettare, controllare bisogni e desideri. Dunque non si dà sfruttamento senza assoggettamento. Questo poteva e può avvenire grazie a un complesso sistema di controllo che ha sostituito i grandi dispositivi disciplinari fordisti, come la fabbrica o l’ospedale. Senza entrare nel merito di un’analisi che meriterebbe un ampio spazio sul passaggio dalla società disciplinare a quella di controllo o governamentale, vogliamo concentrarci sulla constatazione di quanto il capitalismo abbia saputo riorganizzarsi anche assumendo e digerendo potenziali disturbi. Che dire ad esempio di tratti dei movimenti femministi degli anni ’70 che sono stati messi a valore nel lavoro di cura, settore sempre più in espansione? Che dire delle correnti artistiche svilite a diventare icone pop? Ma senza andare a toccare elementi al di fuori del rapporto capitale-lavoro, che dire delle conquiste dei lavoratori come lo Statuto? Che dire delle necessità degli operai su una minor irrigidimentazione delle mansioni trasformata nel moderno just in time figlio del toyotismo di inizio anni ‘90?

Ma arriviamo al dunque: se assumiamo il dato della gradualità dello sviluppo capitalistico e della sua capacità di riorganizzarsi; se assumiamo nella conoscenza un grande campo di valorizzazione; se assumiamo che la privatizzazione sostanziale della conoscenza sia un processo funzionale non solo all’estorsione di valore, bensì anche all’assoggettamento e allo sfruttamento dei soggetti produttori e fruitori di conoscenza quali siamo, allora dobbiamo anche assumere pienamente l’obiettivo di far assumere una propria coscienza politica alla soggettività in formazione. La nostra liberazione individuale e collettiva passa si o no dalla creazione della società della conoscenza? Questo significa dunque lottare per la liberazione della conoscenza e dunque per un’ulteriore avanzamento in primo luogo dell’attuale sviluppo capitalistico. E questa battaglia non è una battaglia immediatamente generale e paradigmatica sul modello di sviluppo?

Altro dato sul quale interrogarsi: gli avanzamenti prodotti dal movimento operaio sul piano salariale e dei diritti hanno prodotto una maggiore possibilità di sottrarsi al ricatto e di mobilitazione. Più migliorano le condizioni di vita, più si è liberi di lottare per ulteriori avanzamenti. Nel caso nostro possiamo intendere la lotta per l’istruzione libera, gratuita e di qualità – con tutto quello che comporta, in primis lo strumento del reddito per i soggetti in formazione e di inserimento ad essa – come una lotta che nel lungo periodo può determinare un avanzamento per la nostra condizione comportando anche una ristrutturazione del sistema economico?

Ma proviamo a semplificare ulteriormente: se la precarietà la intendiamo come esclusione, marginalità e insicurezza, funzionali all’assoggettamento e allo sfruttamento delle nostre vite in tutta la loro complessità, pensiamo di combatterla esclusivamente sul terreno del lavoro o siamo coscienti di subirla sin dalla nostra condizione di studenti nell’inesistenza di diritti di cittadinanza (casa, previdenza, mobilità, partecipazione) e nella progressiva impossibilità di accedere liberamente ai saperi? Se condividiamo questo punto allora è conseguente ragionare sul come non solo difendere i diritti dei soggetti in formazione liberandoli dall’assoggettamento, ma interrogarsi anche sul come liberarli dallo sfruttamento. La liberazione dallo sfruttamento passa dunque in primis da una lotta sul terreno dell’estensione dei diritti di cittadinanza, in secundis sulla lotta per la liberazione totale dell’istruzione da tutte le sue barriere. Diritto allo studio come diritto di cittadinanza dunque, ma anche pieno riconoscimento del valore sociale dell’istruzione. Il punto sta proprio qui: o ci assumiamo l’onere di una battaglia rivoluzionaria e di rottura per il diritto allo studio universale, alias “istruzione gratuita e di qualità”, o non riusciremo mai a far divenire la conoscenza una variabile indipendente dalla quale il sistema produttivo dipende.

La lotta per la liberazione della conoscenza, che è immediatamente una lotta per la liberazione delle nostre soggettività, è l’unica battaglia autenticamente rivoluzionaria sul lungo periodo per cambiare il sistema. Non è l’unica, sia ben inteso. Non crediamo assolutamente che solo sulla conoscenza si concentri l’attenzione del capitale, ma riteniamo che il lavoro cognitivo o immateriale sia predominante qualitativamente e che abbia imposto una tendenza al resto delle forme del lavoro e alla società nel suo complesso. Ne deriva la constatazione che solo lottando per la costruzione di una società della conoscenza svincolata dal controllo capitalistico non solo si possano emancipare le nostre esistenze ma anche rovesciare l’attuale sistema economico. Pensiamo, per concludere, che solo soggettivando la nostra componente sociale si possa ambire a compiere tale trasformazione più che necessaria. Ma questo non si può fare se non partendo dalla nostra capacità di rappresentare la nostra condizione, partendo da ciò che viviamo ogni giorno, perché già nella nostra quotidianità che sperimentiamo l’assoggettamento e lo sfruttamento.

Verso la democrazia economica e cognitiva

Occorre ragionare con più attenzione sul sistema di diritto allo studio odierno. Oggi non basta più rivendicare il finanziamento dei servizi, ma dobbiamo ripensare il sistema nel suo complesso, liberandolo dai vincoli meritocratici e disciplinanti. Non ci basta più la quantità, ma vogliamo ragionare di qualità, e dunque di riuscire a raggiungere la piena libertà dell’individuo nella scelta dei tempi e dei contenuti del proprio percorso formativo. Il sistema del diritto allo studio deve diventare universale, accessibile a tutte e tutti indipendentemente dall’età. È una questione democratica, di civiltà. Una democrazia, per essere sostanziale, deve garantire a tutte e tutti uguali opportunità. Tante volte abbiamo pensato che ciò si potesse raggiungere unicamente elargendo maggiori contributi economici. La sfida è invece coniugare a questa importante battaglia quella per svincolare i servizi e le prestazioni da una rigida ottica produttivistica - per la quale il fine della formazione è la costruzione del produttore - riuscendo a garantire piene libertà sostanziali. Libertà al plurale da sostanziare, da realizzare. Solo pensando una forma di welfare universale per la formazione si può restituire alla scuola l’obiettivo di costruire il cittadino libero. Proprio garantendo a tutte e tutti la possibilità di istruirsi si può costruire una democrazia matura, che, per dirla con Edgar Morin [La testa ben fatta, Cortina, Milano 2000], dev’essere una democrazia cognitiva; garantire un sistema di welfare universale dando la possibilità a ogni individuo di costruirsi una formazione completa, che sappia coniugare saperi scientifici-tecnologici con saperi umanistici per garantire l’effettiva espansione delle libertà sostanziali, è un grande obiettivo di lungo termine.

Porsi questo obiettivo significa rovesciare il paradigma del capitale umano, entrato nel lessico comune in questi ultimi vent’anni. Investire in istruzione per noi non significa investire in capitale umano funzionale ad incrementare la produttività e la competizione del sistema economico. Legittimando l’idea che l’istruzione sia un costo che deve avere un ritorno o dei benefici solo economici, non si guarda ai benefici sociali e democratici e si incentiva il processo di privatizzazione della stessa, vedendola sempre più come un investimento privato. Rovesciare il paradigma del capitale umano significa provare ad immaginarne uno nuovo, che provi a porre l’accento sullo sviluppo dell’essere umano in tutti i suoi ambiti, più che la sua messa a valore. Ciò non significa slegare i luoghi della formazione dal sistema socio-economico, ma vederli come fucina di quest’ultimo, riuscendolo a determinare e non essendo invece meri riproduttori delle storture e ingiustizie esistenti, essendo attualmente in un rapporto di subalternità. La battaglia per la liberazione dei saperi è anche una battaglia per una reale democrazia economica, nella quale i cittadini siano in grado non solo di utilizzare i mezzi di produzione, ma anche di dirigere e determinare gli obiettivi dell’economia.

Nuove forme organizzative ai tempi della frammentazione: associarsi “per” e non solo “contro”

Continuiamo ad assistere ad un processo di divisione classista tra licei e istituti tecnici e professionali. Provando a focalizzarci più sulle tendenze di questi ultimi si possono riconoscere alcuni fenomeni in progressiva estensione. I tecnici e i professionali sono l’emblema del processo di dequalificazione degli ultimi anni, trasformati ad essere dei veri e propri bacini per attingere manodopera a basso costo. Ma senza entrare nella riflessione in merito ai processi in atto su queste scuole, soprattutto riguardo la maldestra importazione del sistema duale tedesco che determina un allontanamento inaccettabile dai luoghi della formazione, occorre indagare la composizione sociale che vive questi istituti. La scelta del proprio percorso di studio continua ad avvenire dipendentemente dal proprio contesto socio-economico di partenza. La necessità di un’occupazione immediata è più forte nella fasce deboli della società. La globalizzazione, i flussi migratori e la precarietà hanno fatto mutare inevitabilmente anche i luoghi della formazione. Oggi negli istituti tecnici e professionali non ci va più solamente il figlio dell’operaio o operaia italiani con il posto fisso, ma sempre più i figli dei quarantenni precari o dei migranti di prima generazione. Risulta sempre più difficile intercettare, organizzare e comunicare con chi frequenta i tecnici e i professionali. Non si può aggregare lanciando messaggi resistenziali, che parlano della necessità di riconquistare determinati diritti. Il “riprendiamoci il futuro” del 2010 non può aggregare chi non ha nulla da riprendere, non è cresciuto in tempi migliori ma è stato segnato unicamente dall’insicurezza quotidiana e dalla marginalità sociale. Non sono i figli di un ceto medio in progressivo impoverimento, ma delle fasce più deboli, sfruttate, escluse dalla cittadinanza, senza alcun diritto. Il ruolo del mutualismo e dell’aggregazione è forse, in questi contesti, sempre più importante. Se pensiamo che – parafrasando Trentin (B. Trentin, La libertà come posta in gioco nel conflitto sociale, La libertà prima di tutto, Ediesse 2008, p. 317) – la miseria non sia sempre la causa dell’oppressione, ma che lo sradicamento, l’esclusione e l’oppressione siano più spesso causa della miseria, non possiamo intercettare chi vive ai margini ponendo in primo piano soltanto una battaglia per il “benessere economico”. Accanto alle rivendicazioni storiche sull’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni, sulla necessità di una riforma dei cicli scolastici che vada ad arginare la canalizzazione precoce e tenda a portare tutte e tutti, indipendente dal percorso scelto, ad un alto livello di istruzione, le organizzazioni studentesche devono interrogarsi in primis sul come garantire a tutte e tutti spazi di libertà, di condivisione e autodeterminazione. È necessaria un’organizzazione che sappia sempre più essere laboratorio politico capace di valorizzare le differenze e rispondere ai bisogni primari o prepolitici. Un luogo dove la democrazia sia effettivamente uno stare insieme e un prendersi cura l’uno dell’altro, praticando l’alternativa di società con nuove forme di socialità improntate alla condivisione, alla cooperazione, alla compresenza di culture diverse. Bisogna individuare i luoghi in cui sperimentare il Melting pot, il crogiuolo di culture, linguaggi, bisogni e desideri diversi che non si annullano ma che trovano tutti cittadinanza all’interno dell’organizzazione.

Parallelamente si allarga la fascia degli espulsi dai percorsi formativi. Soprattutto al sud la dispersione scolastica sta assumendo i contorni di una vera e propria emergenza sociale che reclama risposte. Gli alti tassi di abbandono degli studi non sono errori non programmati, ma sono frutto di precise politiche di dequalificazione del ruolo della scuola e dell’aumento vertiginoso dei costi dell’istruzione.

I soggetti in formazione non sono una classe, né un pezzo di una più ampia: sono una pluralità di identità sociali accumunate da una condizione di esclusione sociale e cittadinanza negata. Questo assunto ci impone di studiare come dare spazio a diverse esigenze. Oggi lo studente non si riconosce più unicamente nel suo ruolo di produttore e fruitore di conoscenza, ma anche nella sua condizione di pendolare, di lavoratore, di fuori sede, di migrante; questo e altro al pari di musicista, calciatore, attore. Infine, come detto poc’anzi, un soggetto può anche avere il desiderio di poter rientrare nei percorsi formativi. Se il capitalismo odierno frammenta e disgrega, il mettere in Rete le diverse identità, accogliendo al nostro interno bisogni latenti e desideri, è il primo passo per costruire delle battaglie comuni. Il capitalismo, con la sua ristrutturazione e con il superamento del fordismo, ha destrutturato ogni potenziale meccanismo di creazione di coscienza collettiva. La messa a produzione della vita intera e della cooperazione sociale ci impone una riflessione e ci apre degli spazi inediti di azione. Il conflitto con il capitale non avviene più unicamente all’interno del rapporto di lavoro della grande fabbrica, nel conflitto padronato-lavoratori. Se oggi il capitalismo mette a produzione tutta la vita ed estorce plusvalore dalla cooperazione, dalle attitudini, dalle capacità di ognuno e dunque mercifica e determina l’individuo, la risposta non può che essere quella della sottrazione, della pratica dell’Esodo di gorziana memoria. Se ognuno di noi possiede e valorizza il proprio capitale umano in ogni attimo di vita, dentro e fuori dal luogo della formazione, le organizzazioni studentesche devono interrogarsi su come liberare energie, produrre cultura, essere luogo formativo, includere e valorizzare le diversità. Dobbiamo dunque sviluppare dinamiche di solidarietà attiva, praticare dal nostro interno forme alternative di relazione, e coniugare dunque mutualismo e rivendicazione. Dopotutto non diciamo nulla di nuovo, se non di recuperare buone pratiche dell’associazionismo operaio della fine dell’800.

Il sindacato, difatti, nasce come forma di condivisione di una condizione. In altri termini il sindacato è il primo luogo di autorappresentanza e autorganizzazione di una soggettività. I soggetti in formazione hanno sempre più bisogno di individuare uno spazio del genere. Ma sappiamo bene che costruire un sindacato dei soggetti in formazione di massa, quale prova ad essere la Rete della Conoscenza, è, forse, cosa ardua quanto il costruire il sindacato in un luogo di lavoro. Perché? Perché come ci siamo detti più volte oggi i luoghi della formazione, in misura maggiore l’università rispetto alla scuola, sono luoghi sempre meno considerati come luoghi di vita e dunque perdono il carattere di essere potenzialmente un luogo di massa, propedeutico alla creazione di una coscienza collettiva.

Difatti abbiamo già evidenziato quanto ad oggi i luoghi della formazione non siano il fulcro per la soggettivazione di una fantomatica classe unita e cosciente della propria condizione, vuoi per l’espulsione di massa dall’università e progressivamente dalle scuole, vuoi per il peggioramento generale delle condizioni economiche. Vi sono molteplici motivi che non stiamo ad evidenziare, ma c’è un punto da precisare. Come abbiamo ribadito, noi siamo un frammento di una più ampia fetta di subordinati che contiene sia caratteri di classe, sia caratteri generazionali. Se la precarietà lavorativa ed esistenziale è la condizione dominante di vita, determinando prima di tutto esclusione e solitudine, ci dobbiamo porre la sfida di tessere nuovi fili, attraverso la spinta alla partecipazione e all’organizzazione. Chi non riesce più a frequentare le nostre scuole e le università perde anche la possibilità di frequentare un luogo che, dopotutto, continua a rimanere di massa, dove si può discutere, condividere i propri bisogni e desideri e organizzarsi all’interno. Di conseguenza, lo ribadiamo ancora una volta, il ruolo del mutualismo e degli spazi risulta sempre più rilevante, maggiormente nelle città metropolitane. Luoghi dove valorizzare le proprie capacità, attitudini e passioni. Luoghi dove dall’individualità e dalla differenza si costruisca società. Luoghi dove si pratica l’Esodo, dove ci si sottrae anche attraverso forme di solidarietà attiva a un capitalismo che mette a produzione tutta la vita ed estorce plusvalore dalla cooperazione, dalle attitudini, dalle capacità di ognuno e dunque mercifica e determina l’individuo. Senza sfidarsi su questi campi non potrà partire alcun movimento con una forte vocazione maggioritaria, se non si pratica l’alternativa non si riuscirà mai a costruirla realmente.

Dalla resistenza all’attacco: il più bello dei mari è quello che non navigammo

Chiudiamo il cerchio. La battaglia sulla liberazione dei saperi, declinata nella rivendicazione di un’istruzione libera, gratuita e di qualità per tutte e tutti, può realmente essere la battaglia centrale del movimento studentesco non solo per questo autunno. È una battaglia incompatibile e rivoluzionaria con gli attuali indirizzi dell’economia. È una battaglia che risponde indirettamente anche all’esigenza di far rivivere il luogo della formazione sul piano della partecipazione e della mobilitazione. È importante di per sé anche per la potenziale capacità di invertire il processo di individualizzazione che attraversa i nostri luoghi. Ma il movimento si deve misurare anche sulla sua capacità di rinnovare le pratiche e i linguaggi. Le pratiche conflittuali devono assumere sempre più anche una dimensione individuale, come del resto sta sperimentando l’UdS in questi ultimi mesi con l’attivazione singola contro i test Invalsi e la salita sui banchi di scuola che riprendeva la celebre scena de “l’attimo fuggente”. Parimenti i linguaggi devono tornare ad essere diretti e comprensibili, in grado di aprire contraddizioni e costruire immaginario. La spoliticizzazione e la frammentazione sempre più forte non si possono combattere con un approccio eccessivamente pedagogico da parte delle “avanguardie”. Occorre immergersi pienamente nelle contraddizioni e parlare a chi non capisce che significa “saperi”, non capisce che significa “precarietà” o per di più “jobs act” e collaterali. E a queste soggettività, che condividono un malessere latente che talvolta si risveglia in manifestazioni di disagio non politiche, o che nella maggioranza dei casi si annullano nella passività, non possiamo pensare di politicizzarli se non partendo dai loro bisogni (che forse, sempre nell’ottica di rendere popolari i nostri linguaggi dovremmo iniziare a chiamare “problemi”) più basilari. Questa è la più grande sfida che abbiamo come maggiore organizzazione che vuole costruire il movimento studentesco: dismettere l’abito di avanguardia che impone i temi che stanno nel dibattito pubblico e far prendere coscienza agli studenti in primo luogo della loro condizione di subordinazione, a partire dall’autobus che costa troppo. Solo in questo modo si potranno attivare dei meccanismi di politicizzazione che sapranno innescare un protagonismo qualitativo dei soggetti in formazione nella lotta per il ribaltamento dei rapporti sociali esistenti. Per noi è questo il ragionamento di lungo periodo da imporci in agenda anche per restituire una funzione storica al nostro soggetto sociale di riferimento. Ma per mettere in pratica ciò dobbiamo essere pienamente consapevoli della gradualità e della temporalità lunga sulla quale agire senza ridurci alle contingenze imposte da un dibattito pubblico drogato e manipolato sul quale avremmo sempre meno voce, soprattutto nel mutato scenario di governo che macina consenso. O riusciamo ad imporci nel lungo periodo sul tema del valore sociale dell’istruzione e dunque sulla sua consequenziale gratuità e qualità o continueremo a subire i processi politici inseguendo il dibattito pubblico.

Oggi bisogna sfidare sul campo della proposta. Ora più che mai gli studenti devono essere un soggetto attivo in tal senso, in grado di orientare il dibattito pubblico con una rivendicazione radicale come quella sull’istruzione e la liberazione dei saperi. La nostra più grande sconfitta sarà quando gli studenti scenderanno in piazza gridando esclusivamente un “voglio un lavoro, qualunque esso sia”, dimenticandosi il “voglio poter studiare”. Purtroppo la prima rivendicazione è molto più diffusa della seconda, per la disastrosa condizione sociale ed economica che vive il nostro Paese.

Siamo giunti ad uno snodo molto importante. Oggi la liberazione degli individui non passa soltanto dall’avere un lavoro non precario e un reddito minimo, cosa sacrosanta sulla quale il sindacato e i movimenti dovrebbero convergere per cancellare la precarietà dalle nostre biografie. Oggi la liberazione passa anche dalla piena appropriazione del nostro sapere e del nostro saper fare, dal determinare “cosa” si studia e il “come” lo si studia, dal determinare successivamente “cosa” e il “come” si produce. Ma il primo passo è raggiungere la gratuità dell’istruzione e del sapere in generale, nella sua fruizione formale come in quella informale, affinché questi siano un mezzo di abbattimento delle disuguaglianze e non di una loro riproduzione come avviene oggi.

È una battaglia realmente generale e di modello per la piena democrazia, per l’uguaglianza delle opportunità, per essere padroni della propria vita. Se i movimenti sapranno imporre questi temi costruendo una connessione tra conoscenza, modello di sviluppo e liberazione individuale, allora esploreranno dei mari mai attraversati. Sarà certamente un nuovo ed esaltante viaggio, perché si sa: il più bello dei mari è quello che non navigammo. 

Ultima modifica ilLunedì, 20 Ottobre 2014 15:01
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