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Tra gli schiavi di 'Mafia Caporale': xenofobia, ricatto e subalternità senza regole

Tra gli schiavi di 'Mafia Caporale': xenofobia, ricatto e subalternità senza regole

“So che ogni volta è una scoperta, che non c’è limite alla depravazione del caporalato”, è riassumibile in questa breve riflessione dell’Io narrante, l’etnografo Leonardo Palmisano, il saggio ‘Ghetto Italia’ (Fandango Libri), scritto a quattro mani insieme al camerunense Yvan Sagnet, già leader della rivolta dei braccianti di Boncuri, nei pressi di Nardò, dell’estate 2011. I due autori si sono ritrovati a compiere un viaggio dall’estremo tacco di Italia fino alle regioni del Nord Ovest del Paese per delineare quello che è il complesso quadro del caporalato in Italia o come lo ribattezza proprio Palmisano “Mafia Caporale”.

Il viaggio parte da Nardò, dove nel luglio più caldo che memoria d’uomo ricordi è deceduto un 47enne sudanese, per una polmonite, come ha sostenuto una recente perizia. Si passa poi per le tristemente note capitali dello sfruttamento, da Rignano Garganico a Borgo Mezzanotte, da Boreano a Rosarno, giungendo in Sicilia, a Vittoria, dove la rumena Lia esprime un giudizio impietoso sul Belpaese: “Non siamo tanto diversi. Noi abbiamo voluto assomigliare all’Italia, ma ora l’Italia assomiglia alla Romania. Questa cosa mi fa ridere assai”.

Può apparire anacronistico denunciare la piaga del caporalato proprio mentre il governo Renzi pensa a nuove misure per contrastarlo, ma come ben evidenziava nei giorni scorsi Sagnet su Facebook “la lotta al lavoro irregolare non si combatte soltanto con la repressione ma soprattutto con la cultura”, anche “la lotta alle mafie ce lo insegna”. Inoltre, evidenziano gli autori, “l’italiano, il buon italiano, non fa più il caporale. Ha subappaltato questo lavoro a uno straniero intraprendente e ambizioso”. Come il marocchino Mohamed, che nel suo Paese in carcere ci è già stato e che osserva: “Qua non deve essere peggio”.

“L’impoverimento dell’economia agricola italiana è sotto gli occhi di tutti” – scrivono Palmisano e Sagnet – “Politiche agrarie sbagliate, pianificazioni costruite sulla riduzione del costo del lavoro e su benefici a pioggia, assenza di forme di innovazione nel processo produttivo, sono gli elementi che hanno portato i produttori a sedersi sugli allori di un passato che non esiste più e che non tornerà”. Il tutto in un quadro di “fenomeni di razzismo e di xenofobia” che “si diffondono come malattie” in un’Italia “infettata dai media che si dà all’intolleranza”.

In questo contesto, emerge il ruolo del caporale, “regista occulto di un segmento del mercato del lavoro, demiurgo della vita agricola, lenone della manodopera già sottomessa”. In definitiva, “una specie di gran maestro della logistica e del magazzino”. A fare da contraltare, i tanti lavoratori sottomessi nei campi, come il rumeno Marcello, nella cui voce è viva “la commossa speranza nel progresso, nel miglioramento da una generazione all’altra”. Rileva Palmisano, figlio di emigranti nel Nord Italia: “Marcello come mio padre, come mia madre, come i genitori di Yvan. È il simbolo dello sforzo e del sacrificio”.

Nelle voci di questo racconto collettivo si ritrovano Kunta Kinte e i suoi eredi, raccontati da Alex Haley nell’epopea di ‘Radici’, ma – scrivono ancora gli autori – “il fatto più paradossale è che nel sistema statunitense gli schiavi venivano condotti gratis nelle piantagioni. Nel sistema neoschiavistico italiano, invece, il trasporto ha sempre un prezzo”. Forte è nel saggio l’influenza del filone della letteratura da viaggio, tant’è che viene chiamato in causa direttamente Ryszard Kapuściński e si annota: “Dobbiamo considerare lo spirito dei caporali come una specie di landa sconfinata attraversata dal vento fetido e caldo dell’ambizione personale”.

Il viaggio di Palmisano e Sagnet, dopo aver attraversato l’intero Sud Italia, si sposta verso Nord, denunciando le vicende dei sikh che lavorano nell’Agro Pontino, dove “un mix di innocente subalternità al fato è il giusto cemento spirituale a sostegno dell’impalcatura messa su dai padroni e dai mediatori”, infine le condizioni dei braccianti stranieri, soprattutto dell’Est europeo, impegnati nelle vendemmie della Franciacorta e di vaste aree del Piemonte. Condizioni in cui “il ricatto, l’accettazione silenziosa e terrorizzata delle regole di ingaggio imposte dal caporale, sono gli strumenti dell’assoggettamento”.

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