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Perché l'antifascismo non si fa a Casa Pound

Il dibattito di questi giorni sul libro “Dentro e fuori CasaPound” di Daniele Di Nunzio ed Emanuele Toscano, sull'intervista di Emanuele all'Espresso e sulla scelta dei due autori di presentare il loro lavoro a CasaPound, al di là degli eccessi e delle semplificazioni di rito, può essere un'occasione per chiarire alcuni elementi, troppo spesso confusi nel mare dei luoghi comuni e degli artifici retorici.

Personalmente trovo che partecipare a iniziative di CasaPound, in particolare se organizzate nel luogo fisico della loro sede, sia sbagliato e controproducente, perché contribuisce alla grande operazione di marketing politico che è CasaPound, il cui relativo successo si basa esattamente sulla capacità di costruirsi una legittimazione mediatica e culturale al di fuori del ristretto mondo dell'estrema destra e di creare contraddizioni infondate all'interno del campo democratico e antifascista. Trovo inoltre sbagliato e controproducente prendere troppo sul serio il fascismo del terzo millennio, l'estremo centro alto e tutto il resto dell'apparato retorico costruito da CasaPound come parte fondamentale dell'operazione di marketing di cui sopra, perché contribuisce al successo di quell'operazione e nasconde la realtà quotidiana di CasaPound, ben poco diversa da quella degli altri gruppetti neofascisti e spesso (mai abbastanza) oggetti di procedimenti penali.
Vediamo se riusciamo a capirci su alcune cose, smontando un po' di luoghi comuni.

Perché mai non bisognerebbe andare a CasaPound? Rifiutare il confronto significa non essere veramente democratici/antifascisti, “Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”, Voltaire, ecc.

Intanto andrebbe chiarito che la libera espressione delle opinioni non è di per sé un principio democratico ma liberale. Voltaire viveva in un mondo in cui era liberale e tollerante confrontarsi sempre con tutti, perché quel tutti era in realtà il ristretto circolo degli intellettuali borghesi, gran parte dei quali, quanto sentiva parlare di democrazia, rispondeva a cannonate, perché per tutto il XVIII e il XIX secolo la democrazia è stata una parola maledetta, che sapeva di socialismo, plebaglia e lotta di classe, non certo di civile confronto nei caffè del centro.

In una società democratica, invece, in cui quel tutti dovrebbe comprendere davvero tutti, il principio astratto del confronto e del dialogo universale deve fare i conti con la realtà concreta. Ognuno di noi ha risorse limitate, se ognuno si confrontasse e dialogasse sempre con tutti, passerebbe la vita a farlo. Nella realtà concreta, ogni confronto, ogni dialogo, ogni relazione è una scelta politica in un mare di opzioni. Scelgo se confrontarmi con Ateneo Controverso di Cosenza, con il Gruppo Abele di Torino, con l'associazione Per Partito Preso di Pagani o con CasaPound (che, va detto, tra queste realtà è probabilmente la meno radicata).

Rifiutare il confronto con i fascisti significa semplicemente scegliere il confronto con altri. Significa non considerarli più interessanti di altri all'interno del panorama della nostra società. Chi sceglie invece di dialogare con i fascisti ha evidentemente il diritto di farlo, ma dovrebbe rivendicarlo come scelta e assumersene le responsabilità, invece di sostenere che “un vero democratico/antifascista dialoga con tutti”, perché nessuno, mai, parla con tutti.

Inoltre una cosa è il confronto pubblico in un luogo pubblico e quindi (nei limiti del possibile) neutro e condiviso (poi argomenterò come in realtà gli spazi pubblici della Repubblica non siano né neutri né condivisi, ma questo è un altro discorso), come ad esempio gli organi collegiali di una scuola o di un'università, in alcuni dei quali CasaPound ha eletto suoi rappresentanti: le organizzazioni democratiche e antifasciste degli studenti, normalmente, denunciano la presenza anomala di un soggetto politico fascista all'interno di un luogo democratico, ma non per questo rinunciano a stare in quel luogo, viverlo, combattere fino in fondo la battaglia delle idee.

Un'altra cosa è il confronto sotto l'egida di CasaPound, in un luogo privatissimo (anche se di proprietà pubblica) come la sede romana di via Napoleone III, riconoscendo implicitamente la legittimità della presenza di quel soggetto politico in quello spazio e accettandolo come organizzatore di un evento a scopo promozionale a cui si presta gratuitamente il proprio contributo. Insomma: ogni confronto è una scelta, e il confronto con tutti si fa nei luoghi di tutti. Essere ospiti in iniziative di un soggetto politico è un'altra cosa, è una scelta precisa, e tutt'altro che neutra.

 

Conoscere il nemico è utile. Il fascismo si combatte anche e soprattutto conoscendolo.

Sicuramente, ma dovremmo anche chiarirci su cosa ci interessa far conoscere del nemico. Il libro di Emanuele e Daniele è certamente interessante, ma analizza un aspetto ben preciso, ristretto e delimitato del soggetto CasaPound, cioè il repertorio retorico e argomentativo utilizzato dai militanti del gruppo. A prendere la parola, più che i ricercatori, sono i militanti di CasaPound, con il duplice risultato dell'individualismo e del soggettivismo. Insomma, da una parte si analizzano la ragioni individuali per le quali un individuo dichiara di aver scelto di militare in CasaPound (individualismo, singolarmente ognuno ha ottime ragioni per fare ciò che fa, ma sono davvero quelle le ragioni storicamente e socialmente rilevanti?) e dall'altra si raccontano CasaPound, la sua ideologia e le sue attività dal punto di vista degli stessi militanti (soggettivismo, ognuno ha ragione dal proprio punto di vista, ma è davvero quello il punto di vista migliore per valutare un fenomeno?).

Il libro non è e non vuole essere un'inchiesta su CasaPound. Quando si parla delle occupazioni a scopo abitativo, non ci si sofferma su dati o analisi sulle loro dimensioni o la loro composizione, ma sul senso che viene loro attribuito dai militanti di CasaPound. Quando si parla del radicamento di CasaPound Italia, si prende per buona l'affermazione che sia “trasversale ai piccoli centri come alle grandi città, su tutto il territorio nazionale”, la cui fonte è appunto un militante di CasaPound. Quando si parla di Blocco Studentesco si descrive il suo programma per le elezioni studentesche, con tanto di pannelli fotovoltaici, e non la realtà quotidiana dell'attività di Blocco. Quando si parla dei fatti di piazza Navona del 29 ottobre 2008 si prende per buona la versione di Blocco Studentesco, invece di investigare su come siano andati realmente i fatti. Non c'è un lavoro di ricerca approfondito sui casi di aggressione in cui sarebbero coinvolti militanti di CasaPound, sulle vicende legate all'acquisto dalla sede da parte del Comune di Roma, sul flop della manifestazione nazionale di Blocco Studentesco del 7 maggio 2010, sui rapporti da una parte con alcuni vecchi arnesi dell'eversione nera e dall'altra con il Pdl, sulle offese alla Resistenza, su splendide tradizioni come la “cinghiamattanza”, ecc.

Capiamoci: questa non è una critica al libro, i cui autori, legittimamente, hanno scelto di non fare un'inchiesta su CasaPound ma un'analisi dell'apparato retorico condiviso dai militanti di CasaPound. Un'operazione del tutto legittima e anche interessante, a meno che non la si confonda, appunto, con una descrizione di cos'è CasaPound e cosa fanno i militanti di CasaPound. Il libro è piuttosto chiaro nell'individuare i limiti della ricerca effettuata, ma il dibattito pubblico che ne è scaturito ha fatto una certa confusione su questo punto, e rischia quindi di far passare la versione dei militanti di CasaPound come una ricostruzione analitica e obiettiva del fenomeno CasaPound. Se l'obiettivo è conoscere il fascismo per combatterlo, dal mio punto di vista, questo rischia di essere un grosso autogol.

CasaPound, infatti, è prima di tutto una grande operazione di marketing politico. Un gruppetto tra i tanti dell'estrema destra romana, nemmeno il più grosso, e neanche tanto diverso dagli altri, è riuscito, grazie ad alcune abili mosse comunicative, a farsi passare come un soggetto innovativo e rivoluzionario di quel campo della politica, in grado di competere in termini di radicamento e di egemonia sul piano nazionale con le organizzazioni sociali democratiche e antifasciste.

Questo percorso è stato costruito grazie alla scelta continua e costante di invitare esponenti del campo democratico e antifascista, in modo, da una parte, da segnare una presa di distanza nei confronti del mondo dell'estrema destra, alla cui marginalità e irrilevanza CasaPound ha il terrore di essere associata, dall'altra di creare contraddizioni artificiali all'interno del campo democratico e antifascista, grazie all'argomento di cui sopra secondo il quale per essere davvero democratici/antifascisti bisogna andare a CasaPound e chi non è d'accordo è il vero fascista.

Analizzare la retorica di CasaPound, quindi, dall'estremo centro alto al post-razzismo, è sicuramente un'iniziativa utile e va reso merito a Daniele Di Nunzio ed Emanuele Toscano per averla compiuta, ma porta con sé allo stesso tempo il rischio che quella retorica venga presa sul serio, e che si confonda quindi, la versione che CasaPound costruisce di sé per il pubblico con la realtà di ciò che CasaPound è e fa tutti i giorni. E questo rischio, purtroppo, è un passo ulteriore nel percorso di sdoganamento e legittimazione che CasaPound compie da anni.

 

Ma non è paradossale che la sinistra si appelli allo stato? È legittimo per sinistra chiedere la chiusura di uno spazio, e farlo appellandosi alla repressione poliziesca e a leggi firmate da personaggi come Scelba e Mancino? E difendere la Costituzione come un totem non è da conservatori?

Chi è impegnato per cambiare lo stato di cose presente è abituato a considerare lo stato, soprattutto nei suoi apparati repressivi, come un avversario. Ci troviamo di fronte la polizia quando manifestiamo, ecc. Ma ridurre il rapporto tra la sinistra sociale e politico e lo stato a un modellino amico-nemico è piuttosto rozzo. Non è questa la sede per approfondire questo nodo dal punto di vista teorico e analitico, ma quantomeno va detto che lo stato democratico liberale è, per chi lavora per il cambiamento, anche e soprattutto un campo di battaglia. Anche senza tirare in mezzo Gramsci e Bourdieu, è evidente come lo stato democratico liberale sia costruito su un equilibrio che si basa su rapporti di forza ben precisi. La Costituzione è il risultato dei rapporti di forza del '46-'47, i quali, grazie a ottime idee e parecchie fucilate, erano piuttosto favorevoli al campo popolare, democratico e antifascista. Lo stato democratico liberale è stato costruito da una parte, non dal tutto, perché c'era un'altra parte che democratica non era. E infatti la Costituzione è tutt'altro che neutra, sancisce legalmente la conquista di alcuni diritti, conquistati, ripeto, con idee e fucilate, contro chi stava dall'altra parte. Allora, per una volta che la lettera della legge statale, che la carta d'identità delle istituzioni, è dalla nostra, perché mai non dovremmo utilizzarla, perché mai dovremmo rinunciare a quel campo di battaglia, cioè l'applicazione della XII disposizione?

Sappiamo tutti benissimo che lo stato ha per sua natura dei caratteri repressivi, e che in particolare i suoi apparati repressivi sono tutt'altro che aperti alle istanze di chi lavora per il cambiamento. Ma non si capisce perché dovremmo rinunciare a un elemento a nostro favore, in una battaglia, quella per la democrazia, che non vede tutti dalla stessa parte e che non è certo finita una volta per tutte.

 

L'antifascismo si fa con le idee, non con le nostalgie, né con gli appelli alla chiusura di CasaPound.

Condivido in pieno la critica al mondo antifascista italiano, prigioniero di tic e slogan spesso sterili, e raramente capace di mettere in campo una battaglia culturale, sociale e politica seria contro i nuovi fascismi. Che qualcuno, dopo i fatti di Firenze, abbia avuto come unica reazione la richiesta di chiudere CasaPound, è segno di una crisi profonda. Rischiamo di diventare i guardiani di un ordine costituzionale superato dalla realtà, questo è verissimo, e trovo altrettanto ridicoli gli slogan grottescamente violenti che scrivono e condividono sul web persone che non hanno mai fatto male a una mosca ma che si sentono veri antifascisti se scrivono “le sedi dei fascisti si chiudono col fuoco”, tanto non costa niente, mica bisogna farlo davvero. Poi, chiaramente, quando qualcuno lo fa, fioccano le denunce e i comunicati di dissociazione.

Se non vogliamo essere ridotti a questo, schiacciati tra gli appelli a polizia e magistratura e la retorica dell'arditismo da social network, dobbiamo davvero ragionarne tutti insieme. Ma non è che non succeda. In Italia, per fortuna, esistono un sacco di soggetti politici e sociali che sono attivamente impegnati nella battaglia antifascista. Nelle organizzazioni sociali, nei partiti, nei movimenti, nelle università, nella stampa, ci sono molte persone e collettivi che discutono e lavorano in questo senso. Con molti limiti, certo. Ma se stiamo ragionando di come rilanciare la battaglia antifascista, credo che sia con loro che ci si dovrebbe confrontare, più che con CasaPound.

Vogliamo rilanciare l'antifascismo? Bene, tiriamo fuori nuove idee antifasciste, innovative, provocatorie, anticonformiste. Ma facciamolo davvero, però, tutti insieme, altrimenti rischiamo di finire nel calderone del cosiddetto anticonformismo della maggioranza, l'anticonformismo di chi si batte contro la presunta egemonia culturale della sinistra, l'anticonformismo di Giuliano Ferrara, Oriana Fallaci, Piero Sansonetti e Luca Barbareschi. Un anticonformismo al servizio del potere di cui, sinceramente, possiamo fare a meno.

 

La faccio finita, perché ho già scritto troppo. Mi limito a un ultimo interrogativo, sul quale invito Emanuele e Daniele, che conosco come persone intelligenti e preparate, a riflettere: ma secondo voi, perché CasaPound vi invita a parlare?

Normalmente, chiunque si occupi di loro sa di dover andare incontro a un atteggiamento tutt'altro che benevolo. Chiunque scriva qualcosa di loro o sul mondo neofascista in generale, oggi, in Italia, deve mettere nel conto che si beccherà una querela, sempre, a prescindere. Dal sottoscritto in su, chiunque, giornalista o militante, scriva di loro, deve trovarsi un avvocato e prepararsi ad anni di rogne. Anche questo articolo, per quanto sia stato attento a citare solo fatti certi e a non insultare nessuno, potrebbe finire sulla scrivania di un magistrato. Devo mettere in conto di pagare un avvocato, solo per citare pubblicamente una realtà di estrema destra.

Vi siete chiesti come mai, invece, voi siete stati invitati a parlare a casa loro? Non è evidente il tentativo di CasaPound di inserire il vostro libro, che so essere stato scritto con tutt'altri fini e che, come ho già detto, considero una ricerca utile e interessante, all'interno dell'operazione di marketing politico legittimante di cui sopra? E allora perché mai farsi sfruttare in questa maniera? È davvero così che si fa la ricerca sociale antifascista?

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