Per case, quartieri, città: verso uno spazio comune per il diritto all'abitare
- Scritto da Rocco Albanese
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Chi sta cominciando a leggere queste brevi note risponda a qualche domanda.
Quanto si spende ogni mese per ciò che riguarda l'abitare (canone di locazione, utenze, oneri condominiali)? Qual è (se c'è, e se non è corrisposto dal welfare familiare) il reddito mensile di cui si dispone? Che rapporto percentuale esiste tra le spese connesse all'abitare e il reddito mensile?
Facciamo un esempio in cui tanti e tante potrebbero riconoscersi. Carlotta è una giovane alla soglia dei trent'anni, e vive da anni a Bologna da “fuori sede”. A Bologna Carlotta, non avendo un ISEE familiare tale da farla accedere al sistema del diritto allo studio, ha fatto l'università anche e soprattutto grazie al sostegno economico dei genitori. Oggi Carlotta lavora, magari è una finta partita IVA o magari ha un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato: in ogni caso, faticando 45 ore la settimana porta a casa un salario mensile netto di 900 euro. Per la sua camera singola vicino Porta Mascarella – bilocali e monolocali manco a parlarne – Carlotta spende complessivamente 400 euro al mese.
In fondo a Carlotta non è andata male: si può stare assai peggio in questa Italia del 2018, dove il fascismo di Salvini si candida a essere senso comune e la gente è ossessionata dalle proprie paure e dalla voglia di annientare tutto ciò che è diverso da sé. Eppure Carlotta spende ogni mese oltre il 44 % del proprio reddito per tutto ciò che riguarda la sua graziosa camera singola. Anche se non lo sa, si trova quindi in una condizione di forte disagio abitativo.
Chiunque sia costretto a impiegare più del 30 % del proprio reddito disponibile in spese legate all'abitare vive un disagio abitativo. Chiunque si trovi in condizioni di disagio abitativo tra le mura domestiche rischia di vivere una vita dimezzata fuori da casa, nell'habitat cittadino. Infatti, dovrà tendenzialmente privarsi di tante tra le esperienze, i tempi e i luoghi – dal cinema ai musei, dalla gita fuori porta allo sport, fino alla partecipazione politica e la birretta con gli amici – che rendono la vita uno spazio di incontro fatto di fraternità e dignità.
Si dice sia un problema marginale, a causa della grande diffusione della proprietà della prima casa in Italia. Ma così facendo non si tengono in conto gli enormi cambiamenti che hanno investito e stanno continuando a interessare il nostro Paese da molteplici punti di vista: economico e delle condizioni di lavoro; demografico (con riguardo all'età, alla composizione etnica, alla distribuzione e mobilità geografica della popolazione); della distribuzione inter-generazionale e inter-etnica della ricchezza e della proprietà immobiliare. Tutte queste trasformazioni vanno nella stessa direzione: quella dell'aumento delle disuguaglianze.
Mentre queste zone d'ombra e di sofferenza sociale si allargano, è facile apprendere che in Italia oltre 7 milioni di case risultano vuote: più di un'abitazione su cinque, il 22,5% del totale, è senza inquilini. E ancora. Secondo dati Istat diffusi a fine 2015, le persone senza fissa dimora in Italia sono oltre 50mila. Nel 2016 sono andati all'asta 270.000 immobili di famiglie indebitate. E le procedure di sfratto nel 2016 sono state 35.336, quando nel 2015 erano 32.723 e nel 2008 – dieci anni fa, primo anno della crisi – erano 25.108 (fonte Ministero dell'Interno).
In una situazione così assurda, lavorare sul diritto all'abitare – immaginando soluzioni concrete, raccontando esperienze di lotta, svolgendo approfondimenti teorici – è cruciale, in quanto a partire dall’abitare è possibile costruire uno spazio comune di attivazione sociale e politica.
È facile intuire il motivo di questa nostra convinzione: il diritto all'abitare è duplice perché vive dentro e fuori le case. Con la medesima intensità, esso ha a che fare con la serenità dell'intimità domestica e con la felicità di una piazza condivisa. In parole povere: abitare in maniera dignitosa significa esercitare al meglio il diritto di tutte e tutti alla città.
Ben inteso: rifiutiamo ogni tono emergenziale e sappiamo bene che casa e città sono questioni strutturali; allo stesso modo non dimentichiamo che – come ci ha insegnato la bolla immobiliare scoppiata nel 2007 – la connessione tra speculazioni immobiliari e finanziarie, insieme alla continua estrazione di rendita fondiaria, sono uno dei perni dell'accumulazione capitalista. Restiamo convinti, insomma, di quel che già nel 1970 Valentino Parlato notava nella sua grande inchiesta sulla casa: "se si vuole che chi non ha abitazione possa conquistarsela e chi la ha possa riappropriarsi di un uso umano, cioè sociale dell'abitazione, crediamo che la via da seguire sia quella, nella quale il cambiamento del modo di produzione, si accompagni al cambiamento della natura del prodotto".
Eppure tornare a lottare per il diritto all'abitare è cruciale soprattutto nell'Italia di oggi, perché nell'Italia di oggi vengono al pettine enormi nodi, contraddizioni troppo odiose.
Per vederne una è sufficiente tornare all'esempio di Carlotta e della sua città. Bologna, infatti, si sta sempre più connotando come un laboratorio di quel modello di sviluppo che David Harvey ha definito "accumulation by dispossession" (accumulazione per spossessamento). La costruzione – tanto effettiva quanto retorica – di una città a vocazione universitaria e turistica ha consacrato da tempo il centro urbano all'estrazione della ricchezza portata in città dalla popolazione studentesca. Se in questo modo il centro era diventato un territorio ostile per tante persone, l'insostenibilità del modello è oggi manifesta e perfino gli studenti cominciano a essere sempre più espulsi dal centro a vantaggio dei turisti (a causa, ad esempio, della crescente diffusione di Airbnb).
In questa cornice la gente perde il potere di partecipare a disegnare il futuro della città, e non c'è una trasformazione urbana di portata significativa che avvenga fuori dalle logiche dell'urbanistica contrattata (puntualmente) con i più solidi poteri economici e finanziari.
In moltissimi altri luoghi invece, i processi di estrazione di rendita e spossessamento avvengono in un contesto paradossale, in cui – come affermato dai movimenti di lotta per l'abitare – ci sono "troppe case senza gente, troppa gente senza casa".
A Roma, in un quartiere caratterizzato da tante complessità e da una grande pressione abitativa come San Lorenzo, la povera Desirée ha trovato la morte in uno stabile che, lasciato in stato di abbandono per lunghi anni, era potuto diventare un buco nero. E purtroppo tanti sono, in Italia, gli spazi come quello di via dei Lucani: il fatto è che un enorme patrimonio immobiliare è vuoto o sfitto e versa in stato di abbandono, con conseguenze come la negazione diffusa di spazi di abitazione e aggregazione, un generale deperimento dei tessuti urbani (con danni urbanistici e alla salute), l'aumento di fattori sociali di rischio.
Di tutto questo abbiamo già parlato, provando a immaginare alcune priorità capaci di comporre una proposta organica di attivazione sociale e politica per il diritto all’abitare.
Sappiamo che la grande speculazione immobiliare continua ad avanzare incontrastata nelle nostre città, spesso scegliendo consapevolmente di lasciare grandi spazi vuoti allo scopo di “drogare” i valori di mercato e lucrare ulteriormente. L’alternativa a forme così violente di accumulazione, tutte giocate sulle nostre vite, passa per due strade.
Da un lato c’è la leva fiscale: è necessario pretendere una riforma dell'imposizione immobiliare ispirata a progressività e giustizia sociale, tassando il patrimonio immobiliare sfitto dei più ricchi .
Dall’altro lato c’è la lotta alla proprietà assenteista: se la proprietà, privata o pubblica che sia, si risolve in spreco di risorse e/o esercizio abusivo del diritto di esclusione, la protezione di essa deve cedere il passo all'interesse ad accedere alla casa. Occorre, in altri termini, rompere il tabù della proprietà come diritto assoluto ed esclusivo, puntando al riuso sociale del patrimonio edilizio in stato di abbandono.
Sappiamo inoltre che mai come oggi è importante intensificare gli sforzi affinché il diritto all’abitare e il diritto alla città trovino spazi comuni di lotta e affermazione.
Quando dice che «la proprietà è sacra», Salvini forse non si accorge di portare le lancette dell’orologio indietro di duecento anni. Ma è di certo consapevole e spregiudicato nel perseguire un’idea che è sempre la stessa: gestire come problemi di ordine pubblico e sicurezza questioni che sono politiche. Del resto una strategia politica fascista si concretizza immancabilmente in un gioco delle tre carte: si usano nozioni indistinte e autoritarie (interesse nazionale; ordine pubblico; sicurezza) per nascondere una gestione della società che è sempre dalla parte dei più ricchi e dei più forti, e che sempre soffia sul fuoco della guerra tra poveri per dividere gli oppressi - soprattutto per tali motivi si sgombera l’esperienza di Baobab a Roma.
Da questa prospettiva, è evidente che non c’è alcuna discontinuità in materia di diritto all’abitare nelle politiche di tutti gli ultimi governi (Conte, Gentiloni, Renzi), che si sono fondate sulla repressione violenta di deboli, poveri e marginali.
Così il famoso articolo 5 del "decreto Lupi" (d.l. n. 47/2014), secondo cui "chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l'allacciamento a pubblici servizi in relazione all'immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge". Così l’operato di Marco Minniti, che per primo (anche Salvini gliene ha reso il merito) ha usato ordine pubblico e sicurezza come criteri determinanti per definire regole e prassi da adottare in caso di occupazioni abitative. Così Salvini stesso che, non contento della vergognosa circolare del primo settembre, con il decreto sicurezza (d.l. n. 113/2018) aumenta le pene per le occupazioni e arriva a consentire l’uso di intercettazioni nei confronti di chi vuole riaprire spazi vuoti per soddisfare fondamentali bisogni abitativi e sociali.
Tutto ciò riassume le ragioni per cui abbiamo deciso di inaugurare la nuova sezione de ilcorsaro.info, dedicata alle questioni urbane, puntando i riflettori sul diritto all'abitare e su come i bisogni abitativi emergono e si articolano nelle nostre città. Immaginiamo uno spazio comune e trasversale, aperto a contributi di ogni tipo: dal racconto di un’esperienza territoriale all’approfondimento di una questione specifica. Incontriamoci con fiducia e ribadiamo ancora una volta che non abbiamo paura; che per noi «l’aria della città rende liberi/e».
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