Il meridionalismo e la battaglia politica per il sud tra narrazioni vere e false
- Scritto da Alessandro Cannavale
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Antonio Bonatesta è ricercatore non-strutturato di Storia Contemporanea presso l’Università del Salento. Si occupa di divari regionali nell’ambito del processo di integrazione europea. Dal 2013 è segretario nazionale dell’ADI – Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani: l’ADI, va detto, è uno dei pochi avamposti nella difesa dei diritti dei precari della ricerca. Ho avuto modo di confrontarmi diverse volte, con lui, sulle tematiche del meridionalismo storico e, soprattutto, sull’attuale condizione del Mezzogiorno italiano. Condivido la necessità di pensare al Sud come a una parte d’Italia e non un’area destinata a divenire – o tornare – qualcosa di distinto. Condivido la necessità di decifrare progetti e tendenze in fieri. Soprattutto, con questa intervista, Voci Meridiane si sforza di aprire un dibattito importante sul tema. Noi del Corsaro ripubblichiamo l'intervista.
D. Da tempo la “questione meridionale” non è più una preoccupazione della classe dirigente italiana. Per quale motivo?
La “questione meridionale”, intesa come riflessione storica sul ruolo del Mezzogiorno all’interno della vicenda unitaria nazionale, non esiste più come idea-forza dello sviluppo del Paese. Essa si è incagliata nella fine delle politiche di intervento straordinario per il Mezzogiorno, a ridosso di una stagione politica segnata dalla forte discontinuità degli anni Novanta del Novecento. In quel tempo scomparvero non solo la cosiddetta Prima Repubblica ma anche i sistemi valoriali che vi erano sottesi. Mi riferisco alle grandi correnti del pensiero politico italiano: quella cattolica, quella liberale e quella social-comunista. Si tratta, non a caso, degli stessi grandi filoni che innervarono il meridionalismo classico – da Villari a da De Viti De Marco, da Sturzo a Fiore, da Salvemini a Gramsci – e del neomeridionalismo della seconda metà del Novecento, segnato da protagonisti come Saraceno, Compagna e molti altri.
La cosiddetta “fine delle ideologie”, a lungo decantata come la soluzione a tutti i mali del Paese, non è altro che una formula consolatoria utile a nascondere l’egemonia di un’unica ideologia globale: quella neoliberista del mercatismo finanziario. La crisi del meridionalismo italiano trova fondamento proprio nelle trasformazioni economiche mondiali degli anni Settanta del Novecento, nella fine dei cosiddetti “trenta gloriosi” e dell’organizzazione keynesiana delle relazioni economiche occidentali. Il passaggio a un ordine mondiale basato sulla conflittualità e la competizione economica internazionale ha cambiato le carte in tavola. Da questo punto di vista, la crisi del meridionalismo è prima di tutto il logoramento finale del primato della politica sull’economia, dell’idea che lo Stato possa intervenire nei processi economici per correggerne gli squilibri a livello sociale e territoriale. La fine di ogni progetto di governo dell’economia.
D. Il vuoto lasciato dalla scomparsa del meridionalismo sembra essere stato colmato da altre forme narrative sul Mezzogiorno, basate su pulsioni indipendentiste. Che ne pensa?
Come prima cosa sarebbe opportuno fare ordine. Chi oggi fa riferimento in modo diretto o indiretto, esplicito o implicito, all’indipendenza statuale del Sud non è un meridionalista. Il meridionalismo classico e il neomeridionalismo hanno rappresentato posizioni intellettuali e progetti politici iscritti nella cornice unitaria nazionale ed europea. Il meridionalismo appartiene al campo della modernità politica. Le pulsionirevanchiste legate all’indipendentismo sudista sembrano piuttosto richiamarsi ad aspetti tipicamente legati al rifiuto della modernità e alla liquidazione della tradizione rivoluzionaria. Per questo il discorso indipendentista o “identitario” sul Mezzogiorno è un discorso revisionista, antefatto e appendice culturale di forme criptiche di lealismo borbonico. Come ha molto efficacemente sottolineato Domenico Losurdo, il bersaglio principale del revisionismo storico, nelle sue diverse versioni, è l’intero ciclo storico che dal 1789 conduce al 1917. Nel nostro caso, aggredire il Risorgimento italiano significa liquidare tutto ciò che è alle sue spalle: andando a ritroso, le rivoluzioni del 1848, l’esperienza napoleonica, la rivoluzione napoletana del 1799 e, infine, la stessa rivoluzione francese.
Non che non si debba rileggere la vicenda risorgimentale liberandola dalle incrostazioni agiografiche. A dire il vero questo è stato ampiamente fatto dalla storiografia – penso ai più recenti lavori di Alberto Banti, di Paolo Macry o di Salvatore Lupo – ma non capisco perché la stessa cosa non valga per il concetto di “identità” che agita, ad esempio, le pagine di Pino Aprile. Intendo semplicemente dire che anche l’appello identitario all’orgoglio o all’indipendenza dei meridionali va decostruito. Comprendo che esso possa suscitare fascinazione ma occorre essere consapevoli che dietro di esso si cela un universo culturale di matrice conservatrice e di critica reazionaria della modernità.
Prendiamo, ad esempio, la teoria del complotto di Gran Bretagna e Francia con cui si pretende di giustificare il collasso duosiciliano. Tale teoria implica la delegittimazione delle due rivoluzioni che si verificarono in questi paesi: quella liberale e quella giacobina. Stiamo parlando, in concreto, del portato del giusnaturalismo e dell’egualitarismo. Al contrario, quando in Giù al Sud si tessono in modo storiograficamente maldestro le lodi della flotta russa e del ruolo che essa ebbe nei soccorsi alla città di Messina dopo il terremoto del 1908, si fa riferimento all’Impero zarista nella sua duplice veste di baluardo contro-rivoluzionario della Restaurazione e di vittima del bolscevismo.
D. Come è possibile demolire decenni e decenni di storiografia sullo stato nazionale?
La produzione di senso storico è sempre legata, in un modo o nell’altro, a spinte valoriali e interessi collocati nel presente. Se questi moventi si inquadrano in un metodo scientifico, nel rigore delle fonti e nel confronto storiografico abbiamo forme di conoscenza sul passato. Diversamente, siamo nel campo del revisionismo o, peggio ancora, del negazionismo storico. Manipolando dati e fonti si può arrivare a negare l’olocausto o, magari, le ragioni dell’unità nazionale italiana su cui invece la storiografia si è interrogata per decenni. L’obiettivo di queste figure, non sempre dichiarato, è dunque uno: minare le basi unitarie dello Stato a partire dal Mezzogiorno. Per questo motivo ogni sforzo si concentra sul momento dell’unificazione, che viene costantemente sottoposto a una forte trazione: l’esaltazione di una presunta potenza industriale del Regno delle Due Sicilie, la polemica sui piemontesi invasori e la propalazione del “mito dei primati” duosiciliani, la demonizzazione di Garibaldi e dei Mille, l’oblio e la condanna dei patrioti meridionali fautori dell’unità, la politicizzazione – ben oltre i limiti del romanzesco – della vicenda del brigantaggio. Sono invece completamente disinteressati ai momenti cruciali in cui si è storicamente verificato l’allargamento del divario tra Nord e Sud: il protezionismo doganale di fine Ottocento, le due guerre mondiali e il fascismo. Eppure anche questi momenti potrebbero essere manipolati contro la validità storica dello stato nazionale. Il problema è che queste vicende mostrano chiaramente le responsabilità dei meridionali come classe politica e dirigente, dall’accordo protezionistico tra gli agrari del Sud e gli industriali del Nord al consenso garantito dai notabili meridionali al fascismo. Nulla si dice sulla meridionalizzazione della politica e degli apparati statali in età repubblicana. Il problema è esattamente questo: mentre il meridionalismo è un discorso sul Mezzogiorno e sulle responsabilità sue e degli altri nella vicenda unitaria, il negazionismo revanscista e “identitarista” è un discorso su tutto ciò che non è Mezzogiorno. Come tutti i negazionismi deve inventare nemici e usurpatori, creare capri espiatori e configurare complotti cui additare le responsabilità delle proprie insufficienze. Si tratta di un meccanismo potentissimo perché autoassolutorio, lo stesso che portò Hitler al potere dopo la crisi del 1929. La storiografia scientifica non è in grado, per statuto, di difendersi da questo genere di operazioni: la storia riconosce la complessità del passato, ripudia l’idea di verità e oggettività storica e questo non produce esattamente quei best seller tanto a ruba nelle librerie.
D. Eppure gli storici non hanno mai smesso, se vogliamo, di scrivere sul Mezzogiorno con metodo scientifico.
Esatto. Negli ultimi anni qualche tentativo di smontare tali forme di narrazione è stato fatto. Aprile nel suo libro si lancia nell’affermazione secondo cui il Regno delle Due Sicilie fosse la “terza potenza industriale mondiale”, ovviamente senza citare né fonti né dati. È piuttosto curioso, allora, che la statualità borbonica sia stata letteralmente schiantata dalla spinta di poche migliaia di patrioti. Evidentemente, le cause del crollo del Regno delle Due Sicilie non si possono spiegare con fantomatici complotti internazionali e vanno ricercate nelle sue debolezze e contraddizioni interne. E’ quello che ha dimostrato Renata De Lorenzo nel suo libro Borbonia felix. Anche Salvatore Lupo si è molto impegnato su questo versante: l’interpretazione della lotta per l’unificazione come “guerra civile” mi sembra che contribuisca molto bene a inquadrare le vicende militari del 1859-60 e, in parte, la repressione del brigantaggio, oggetto di costanti polemiche da parte soprattutto dei neo-borbonici.
Il problema però è più profondo e riguarda il ruolo del sapere scientifico nella società di oggi. Il discorso scientifico fa sempre più fatica ad opporsi ai negazionismi a causa della sua profonda crisi di legittimazione. Questa crisi investe in modo particolare le discipline umanistiche e, tra queste, soprattutto gli studi storici. Tali difficoltà non sono solo epistemologiche e cioè legate al fatto che le scienze umane e sociali, specie dopo la diffusione del decostruttivismo o del post-modernismo, si sono spesso risolte in impotenti constatazioni sull’impossibilità di ridurre la complessità e, di conseguenza, nel rifiuto di fornire sistemi generali di interpretazione della realtà (agibili dalla politica e fruibili anche dal grande pubblico). Queste difficoltà non sono cioè riconducibili solo a fattori interni al discorso scientifico. Esse riguardano anche le modalità attraverso cui la conoscenza scientifica produce senso comune. Questa specifica forma di produzione è oggi compromessa dalla rottura del rapporto tra intellettuali e politica. L’intellettualità ha storicamente trovato la sua fonte di legittimazione nel rapporto con la politica e ora, dopo averlo smarrito, si illude di poterne trovare una nuova nelle tecniche di valutazione della qualità della ricerca. In sostanza, il discorso scientifico sembra esprimere attualmente una dinamica autoreferenziale, per cui esso si produce non più in risposta a un problema di egemonia ma in risposta a un problema di legittimazione. Strette in questa crisi, le discipline umanistiche stanno perdendo le grandi arene (televisione e giornali) senza aver appreso come occupare le nuove, vale a dire i social media. Qui il senso storico non si costruisce attraverso i criteri canonici del metodo scientifico né viene validato dai sistemi di valutazione della qualità della ricerca. Così, mentre i ricercatori sono occupati a scrivere per essere valutati, sui social network il senso storico è ormai affare d’altri e si produce sulla base di dinamiche di ridondanza e di consenso. La partita vera credo si giochi qui.
D. Poi, come accennava sopra, c’è anche una partita politica. Il negazionismo si organizza?
Mi pare di sì e di questo occorre essere ben consapevoli. Il revisionismo neo-borbonico non è certamente un fatto nuovo in Italia. Esso ha annoverato sin dagli anni Settanta del Novecento innumerevoli pubblicazioni, case editrici, associazioni e circoli culturali senza però mai riuscire a sottrarsi all’isolamento in cui era confinato. Ora qualcosa è cambiato. C’è stato un salto di grado: esso non è più soltanto un fenomeno culturale ma esprime una percettibile tensione all’organizzazione, alla strutturazione e all’occupazione di spazi politici.
Quando è uscito Terroni di Pino Aprile io ero un dottorando al primo anno. Ricordo l’imbarazzo di molti docenti in università: veniva percepito come un fatto bizzarro, di folklore, una boutade editoriale che, per qualche motivo, aveva scavalcato il recinto in cui sono solitamente relegate le oscenità. Oggi Aprile è stato cooptato nel collegio degli esperti voluto da Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia. A Napoli, i neo-borbonici posano con la loro bandiera assieme a De Magistris, il quale parla di “capitale napoletana”. Si tratta, a ben vedere, di ponti lanciati verso quelle esperienze di governo municipale o regionale che, pur nella loro diversità e pur senza trovare al momento una precisa o definita collocazione, si stanno configurando nel Mezzogiorno come opposizione all’attuale governo. E’ significativo: il borbonismo è attualmente impegnato nella ricerca di sbocchi a livello politico. Difficile comprendere, al momento, chi stia strumentalizzando davvero questo rapporto, meno difficile capire dove voglia arrivare chi si sta impegnando con tutte le sue forze in un’opera demolitoria della storia unitaria nazionale.
La percezione è che un pezzo di establishment economico stia ora scommettendo sulla partita separatista o, probabilmente, su un’ulteriore rarefazione della statualità nazionale con l’obiettivo di aprirsi spazi di penetrazione finora negati. Il discorso negazionista sul Mezzogiorno è funzionale a questo obiettivo e viene alimentato attraverso una struttura capillare corroborata da risorse inedite e investita di numerosi compiti: presidiare la comunicazione digitale, cooptare dirigenti scolastici, costruirsi avamposti nei dipartimenti universitari, agganciare amministratori pubblici, mutare la toponomastica e l’intitolazione degli edifici scolastici. Si tratta di fenomeni che producono conseguenze sotto gli occhi di tutti ma che continuano a essere interpretati come deformazioni folkloristiche o maldestre forme di marketing territoriale. Non a caso il progetto ufficiale viene definito “identitario”. Gli “identitaristi”, così desiderano rappresentarsi i neo-borbonici, parlano dell’esigenza di ricostruire una statualità meridionale, di una ristrutturazione federale dello Stato, di “modello catalano” per il Mezzogiorno. L’ambiguità che si cela dietro queste affermazioni è amplissima ed è speculare alla violenza concettuale esercitata sul versante della negazionismo storico.
D. Quale futuro per il Mezzogiorno?
Bisogna prendere atto dell’esaurimento del portato storico del meridionalismo. Il vuoto che esso ha lasciato è ora occupato da due opposti che sembrano, al momento, prevalenti: da una parte, il pregiudizio antimeridionale che alimenta le rappresentazioni dei media ed è funzionale al progetto di governo neoliberista della società; dall’altra, per reazione, una nebulosa di sentimentale e genuino attaccamento alle sorti del Mezzogiorno, che nell’assenza di riferimenti rischia ogni giorno di più di essere attirata nella narrazione revanscista e nelle strumentalizzazioni del borbonismo.
Occorre rispondere sul piano dell’elaborazione e dell’organizzazione di una terza forza che possa produrre progettualità e risposte muovendo da scelte di campo ben precise. Uno dei temi principali è sicuramente quello della collocazione geopolitica del Mezzogiorno e della configurazione di un suo stabile sistema di interessi. I meridionali, per ripartire, hanno bisogno di superare il corto circuito dell’alterità dualistica tra il Nord e il Sud nazionale e aprirsi al Mediterraneo e alle prossimità regionali, confrontandosi con questo patrimonio di relazioni e identità plurime. I meridionali devono però accettare di fare i conti con il portato storico del sanfedismo e con le sue pulsioni pre-moderne. Il primo avversario da abbattere sono le narrazioni auto-assolutorie, il borbonismo organizzato in primo luogo, da decostruire con una capillare e costante azione di debunking.
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