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[Lavoro e crisi] Che futuro per la cooperazione?

[Lavoro e crisi] Che futuro per la cooperazione?

Dal principio della crisi abbiamo assistito all’intensificarsi del dibattito sul nuovo modello di sviluppo. Questa prospettiva, introdotta nell’ingessato dibattito del PCI da Pietro Ingrao nel 1966, imponeva la necessità di un’ana­lisi del ca­pi­ta­li­smo ita­liano, delle sue impli­ca­zioni e degli effetti della rot­tura dell’unità del movi­mento ope­raio, con l’ingresso dei socialisti nel governo. Ingrao delineava una prospettiva concreta basata su proposte e visioni.

Oggi, con una frammentazione ancora maggiore dei movimenti dei lavoratori, il dibattito assume i contorni di un esercizio retorico, senza riuscire a delineare pratiche per concretizzare uno sviluppo sostenibile. In questi anni ci siamo concentrati sulle rivendicazioni “verso l’alto” e, come da tradizione italiana, abbiamo trascurato le pratiche di organizzazione dal basso, di auto-organizzazione e autogestione, di azioni orizzontali capaci di rompere il modello attuale per farne nascere uno nuovo: sostenibile, compatibile con l’ambiente e che realizzi benessere collettivo. Dentro questa dimensione la cooperazione, l’autogestione e il mutualismo rappresentano straordinari strumenti per cambiare segno all’economia e realizzare una democrazia reale.

Come tutti gli strumenti la cosa importante è saperli usare. La vicenda degli ultimi anni, costellata da inchieste giudiziarie e scandali politici, ci consegna un quadro segnato dalla “crisi” del movimento cooperativo. I fenomeni di corruzione e malaffare che hanno investito imprese cooperative operanti in ambiti diversi (cooperative di produzione e lavoro sino alle cooperative sociali) hanno contribuito ad alimentare un clima generale di sfiducia sulle possibilità di immaginare un modello alternativo di organizzazione economica. Verrebbe da dire che dopo 150 anni di lotta la cooperazione ha perso la propria sfida egemonica, cedendo definitivamente il passo a modelli di impresa più adatti a sostenere il ritmo dello sviluppo capitalistico. Ma ammettere questo implicherebbe, forse,  riconoscere una sconfitta più ampia, che attiene alla stessa capacità di immaginare prospettive di cambiamento degli attuali assetti di governo della società.

Significherebbe accantonare per sempre un modello storico di organizzazione dei rapporti di produzione, che ha fatto perno sull’autonomia del lavoro contro la pretesa di subordinare lo sviluppo alla presa egemonica dei processi di accumulazione privata. Accettare il fallimento del modello cooperativo equivale a  rinunciare ad esercitare un potere sulle condizioni di lavoro, svuotando i meccanismi di controllo democratico sulle linee di programmazione economica, dentro e fuori le dinamiche aziendali, sfibrando la radice storica del socialismo riformista e rivoluzionario, aridendo il terreno stesso di formazione di cultura politica.

In ultimo significherebbe cedere al “There is no alternative” come ci  ripete qualcuno, riferendosi all’ennesima dimostrazione che l’unica strada percorribile per lo sviluppo di una società moderna sia quella del libero mercato. Poco importa se questa presunta libertà porta invece all’aumento delle disuguaglianze, all’impossibilità di accedere a servizi essenziali per ampie fasce della popolazione ai margini del sistema produttivo e alla riduzione degli spazi di democrazia.

Per cui, se da un lato è evidente che il mondo della cooperazione si trovi oggi dentro una crisi profonda e stia scontando una generale subordinazione alle logiche capitalistiche, è pur vero che il rischio di ridurre la cooperazione a zona grigia in cui si sviluppano connivenze e reti di  malaffare è certamente un modo per indebolire la ricerca di assetti sociali alternativi da quelli esistenti. La necessità di introdurre una misura di analisi più lunga per interpretare le linee di crisi del modello è funzionale a prevenire approdi demagogici che finiscono per colpire i valori originari della cooperazione, riconosciuti nella nostra Carta Costituzionale.

In questo quadro è richiesto uno sforzo interpretativo che vada oltre il riconoscimento di un primato etico della cooperazione, interrogando le distorsioni e gli scandali dell’attualità nelle linee di sviluppo della cooperazione e nel suo rapporto con le fasi di ristrutturazione del modello capitalistico.

A tal proposito, guardando da vicino ad alcune indagini sulla capacità di tenuta del modello cooperativo nella crisi economica degli ultimi anni, emerge che  le imprese cooperative hanno assolto una funzione anti-ciclica, aumentando i livelli di occupazione e i tassi di investimento e di produttività. E questo nonostante il carico fiscale sia più alto in rapporto al valore di beni e servizi prodotti, al netto delle agevolazioni, in ragione dell’aumento della forza lavoro occupata.

Un elemento che tende a rafforzare il ruolo della cooperazione come fattore di compensazione degli squilibri prodotti dalla crisi economico-finanziaria, assumendo sul livello congiunturale un forte elemento di garanzia e di tenuta del tessuto sociale e produttivo.

Un dato che conserva aspetti più generali che interrogano il rapporto tra le dimensioni del modello cooperativo e la portata globale della crisi economico-finanzaria. Interrogando questa chiave di lettura, emerge che l’aumento delle disuguaglianze di potere, di reddito e di opportunità, all’origine della crisi finanziaria, sono le leve che hanno generato quel bisogno diffuso di solidarietà alla base della nascita del movimento cooperativo. Mutualismo, democrazia economica ed esperienze di transizione dal capitalismo a nuove forme di auto-gestione, in un contesto come quello attuale, possono rappresentare una soluzione alla crisi e acquisire nuova centralità.

A questo riguardo va notato come negli ultimi anni si stia assistendo ad un rinnovato interesse sulla funzione assunta dalle pratiche mutualistiche nella costruzione, da un lato, di esperienze di “resistenza” contro gli squilibri sociali prodotti dalla crisi, e, dall’altro,  da percorsi di partecipazione e co-decisione espressione di innovazione sociale e di autonomia collettiva.

In questo quadro emerge il fenomeno dei workers buyout, che operano su una dimensione di riappropriazione degli spazi e delle forme di produzione, come avvenuto in Argentina con le fabricas  recuperadas. Si tratta di realtà produttive colpite da procedure di fallimento e che sono state trasformate dai lavoratori in cooperative di produzione e lavoro. In Italia un caso emblematico è stato quello della prima cooperativa farmaceutica, la Fenix Pharma, rilevata da tre lavoratori a seguito della chiusura della sede della Warner Chilcott, multinazionale operante nel settore. La storia della Fenix Pharma, come quella della Calcestruzzi Ericina di Trapani, raccontano che nel cuore della crisi sistemica del capitalismo esistono spazi reali per rilanciare processi di transizione a differenti modi di produzione.

Nuovi paradigmi produttivi che possono riportare al centro del dibattito e della vita pubblica, anche altri temi, tra cui quello della parità di genere (illuminanti a questo proposito le esperienze delle comunità curde del Rojava, dove le cooperative, in larga parte formate da donne, garantiscono il mantenimento di numerose famiglie, bloccando l'aumento dei prezzi di beni essenziali nonostante lo stato d’assedio) e della gestione responsabile delle imprese. Importante, sotto quest’ultimo punto di vista, l’approvazione alla Camera dei Deputati della legge di iniziativa popolare promossa da Libera e CGIL per l’introduzione di strumenti capace di sostenere i lavoratori delle aziende sequestrate e confiscate alle mafie. Lo spirito di questa legge è quella di dare la possibilità alle lavoratrici e ai lavoratori di queste aziende che non sono collusi con la gestione criminale di organizzarsi in cooperativa e acquisire l’azienda. Circa il 27% dei beni confiscati è affidato a cooperative sociali che si occupano di minori, profughi, reinserimento lavorativo, formazione, anziani, diversamente abili, farmaco-dipendenti, sostegno a donne che hanno subito violenze.

Esperienze significative che  mostrano come si stia assistendo a un passaggio importante, anche se ancora limitato nei numeri, dalla testimonianza alla pratica di economia solidale e che ci restituiscono la possibilità di immaginare e praticare un nuovo modello di sviluppo diverso da quello che ci è stato imposto in questi anni.

Un modello che sappia riscoprire i valori del mutualismo, della cooperazione, della solidarietà e possa valutare in maniera oggettiva ciò che questi hanno rappresentato e rappresentano nel nostro Paese, analizzando e non banalizzando le criticità, recuperandone le esperienze più significative dal punto di vista dei risultati e facendo tesoro di questo patrimonio per immaginare e costruire un’Italia diversa. Un modello che possa appoggiare il rinnovamento delle pratiche cooperative e solidaristiche, che permetta ai giovani professionisti di non essere schiacciati da un mercato chiuso in “caste”, che rimetta al servizio della comunità i beni confiscati alle mafie e garantisca servizi ai cittadini, che permetta ai lavoratori di riorganizzare le imprese da loro stessi salvate dal fallimento.

Per far sì che le parole democrazia, solidarietà, mutualismo, lavoro possano tornare a disegnare un orizzonte concreto per la vita sociale ed economica di questo paese.

Questo è il primo contributo di una riflessione che ACT! intende aprire sul rilancio del modello cooperativo nella transizione ad un nuovo modello di sviluppo

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