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Renzi, Marchionne, l'articolo 18 e l'eredità di Berlusconi

Matteo Renzi e Sergio Marchionne Matteo Renzi e Sergio Marchionne

È impossibile capire e interpretare correttamente le recenti scelte e prese di posizione del presidente del consiglio Matteo Renzi, in particolare l'offensiva sull'articolo 18 e il rinnovato rapporto con Sergio Marchionne, se ci si limita ad analizzarle nel merito o se si tenta di rapportarle alle dinamiche dell'economia o del rapporto con l'Unione Europea.

Perché mai Renzi dovrebbe insistere nell'attacco a un articolo 18 che la riforma del 2012 (votata compattamente da Pd e Pdl sotto l'egida di Monti e Fornero) ha già smontato esattamente nei termini che vengono tuttora criticati (il reintegro automatico in caso di ingiustificato licenziamento per motivi non palesemente discriminatori, che non esiste più)? Cosa mai dovrebbe importare ai suoi referenti sociali italiani (Confindustria) ed europei (Merkel e Draghi) di un articolo 18 già pesantemente indebolito nella sua capacità di difendere i lavoratori, non solo dalla riforma del 2012, ma anche e soprattutto dal proliferare di contratti di lavoro precari privi di qualsiasi protezione? E cosa spinge ora Renzi a riabbracciare Marchionne, dopo la “delusione” dichiarata nella campagna per le primarie del 2012, proprio nel momento in cui la popolarità dell'amministratore delegato Fiat è ai minimi storici, in seguito alla scelta di non investire più un euro in Italia, e, anzi, trasferire all'estero il più possibile?

La chiave interpretativa, a mio parere, è tutta politica, e tutta legata a quella che Renzi considera la battaglia chiave dei prossimi mesi: la conquista dei voti della destra. Se l'articolo 18 e Marchionne non interessano a nessuno tra gli elettori di sinistra, Confindustria e l'Europa, a chi interessano, in quanto totem simbolici del cleavage sinistra-destra degli ultimi anno? Semplice: agli elettori di destra.

Non c'è ragionamento del segretario del Pd, infatti, che non parta dal famoso 40% preso alle europee del 25 maggio, ottenuto soprattutto saccheggiando l'area degli elettori di centro-destra che non considerano più credibile (in quanto non più vincente) Berlusconi, che si sono già stufati di Mario Monti e che non hanno neanche mai preso seriamente in considerazione Angelino Alfano. Come disse efficacemente Ilvo Diamanti, quel risultato non fu ottenuto dal Pd, ma dal PdR, il Partito di Renzi, un'area di consenso ben più vasta di quella del Partito Democratico e soprattutto caratterizzata da un asse politico ben più spostato verso destra.

Raggiunto quell'obiettivo, ora il problema di Renzi è consolidarlo, in vista di elezioni politiche la cui data, in Italia, non è mai davvero prevedibile. E in mancanza di una competizione seriamente minacciosa a sinistra, con le innegabili difficoltà post-elettorali de L'Altra Europa con Tsipras e la complessa transizione che sta vivendo Sinistra Ecologia Libertà, il campo strategico da presidiare per il segretario del Pd resta quello del centro-destra. Un campo su cui per 20 anni ha regnato indiscusso Silvio Berlusconi, la cui presenza è stata tanto ingombrante da non lasciare eredi, se non un se stesso invecchiato e indebolito, anche se ancora non convinto a farsi da parte. Paradossalmente, ma neanche tanto, il più accreditato per ereditare quel ruolo, oggi, è proprio il leader dello schieramento avversario, Matteo Renzi. Ed ecco quindi che Renzi costruisce la sua agende politica del 2013 proprio sui due nodi simbolici più tipici della retorica berlusconiana: prima la questione fiscale, con i famosi 80 euro di detrazione Irpef; ora, la libertà di licenziamento, con l'attacco all'articolo 18. Una battaglia puramente simbolica, come del resto lo stesso Renzi ha esplicitamente detto nel suo discorso al Council on Foreign Relations, priva di risultati reali da portare ai propri referenti italiani e stranieri, che infatti attendono ben altro sul piano dei conti pubblici, ma che rafforza il consenso di Renzi  nell'elettorato post-berlusconiano, toglie il terreno sotto ai piedi a chi pensa di ricostruire una destra (da Alfano allo stesso Berlusconi) e restituisce a Renzi la possibilità di scontrarsi con i suoi nemici preferiti, quelli contro cui ha costruito simbolicamente tutto il suo successo politico: la Cgil e l'ala socialdemocratica del Pd. Niente esalta Renzi, in particolare agli occhi di chi per 20 anni ha votato Berlusconi, più di vederlo scontrarsi con l'odiato Massimo D'Alema, coi suoi eredi più o meno bersaniani e soprattutto con la Confederazione Italiana Generale del Lavoro, la punching bag preferita del pugile fiorentino fin dagli esordi. Un capolavoro di illusionismo: niente mette in difficoltà più l'avversario più di costringerlo a difendere qualcosa che praticamente non c'è più, come appunto l'articolo 18.

Ma sarebbe sbagliato pensare che la sinistra del suo partito sia il vero avversario contro cui Renzi ha scatenato quest'offensiva: si tratta appunto di punching bag, di un obiettivo dimostrativo per mostrarsi forte e aggressivo, nel confronto con quelli che sono i veri concorrenti di Renzi oggi, e cioè tutti i soggetti interessati a ricostruire la destra italiana e a concorrere con Renzi per l'eredità berlusconiana.

Ed è qui che entra in ballo l'asse con Marchionne: perché, dopo aver esaltato l'amministratore delegato della Fiat ai tempi della vertenza su Pomigliano, nel 2010, e averlo poi pubblicamente scaricato in occasione delle primarie del centrosinistra, nel 2012, ora Renzi torna a fare asse con lui? Perché Marchionne rappresenta quel pezzo di establishment italiano che ha identificato nell'ex sindaco di Firenze l'erede di Berlusconi, ed è entrato in guerra contro chi invece, da Luca Cordero di Montezemolo (recentemente silurato da Marchionne in Ferrari) a Diego Della Valle (ieri sera violentissimo in tv contro Renzi e Marchionne, nonché possibilista su un impegno in politica) a Corrado Passera (già in campo col suo Italia Unica) pensa a nuovi soggetti politici per catalizzare l'area degli orfani di Berlusconi e Monti.

Renzi può quindi utilizzare Marchionne, altro simbolo pesantemente divisivo sul cleavage destra-sinistra (odiato a sinistra, amato a destra), tanto quanto l'articolo 18 (che polarizza in senso opposto), per apparire più berlusconiano di tutti, più impegnato di tutti nella battaglia contro il sindacato, più accreditato di tutti per essere il riferimento politico di tutti gli italiani che hanno creduto a Silvio Berlusconi e Mario Monti.

Insomma: dell'articolo 18 non interessa niente né a Renzi né all'Europa né a Confindustria, dato che la riforma che volevano l'hanno già avuta due anni fa. L'obiettivo di Renzi è semplicemente prendere di mira un simbolo della sinistra e del sindacato in modo da ingaggiare una battaglia contro la sinistra e il sindacato, che vede indeboliti, e da guadagnare consenso a destra. Allo stesso modo, fare asse con Marchionne rafforza la legittimità di Renzi tra gli elettori di destra che lo considerano ancora troppo “politico” e troppo poco “imprenditore”, e che potrebbero essere tentati di seguire le sirene di Montezemolo, Della Valle e Passera.

Un azzardo spregiudicato, di quelli che piacciono a Renzi, che lo scopre pesantemente sul fianco sinistro e si basa sul presupposto che non ci sia nessuno, a sinistra, in grado di vedere il suo bluff e mettere in contraddizione la sua retorica progressista e innovatrice con questi attacchi reazionari ai diritti sociali. Un'opportunità allettante, per chi volesse seriamente lavorare a un'alternativa di sinistra al neoliberismo cialtrone del presidente del consiglio, sottraendosi alla trappola dialettica della divisione tra innovatori e conservatori (un cinico sfruttamento retorico del dramma della precarietà, come abbiamo già avuto modo di dire) e sfidandolo con proposte davvero innovative per un nuovo patto sociale e generazionale, un nuovo statuto dei lavoratori, un nuovo welfare universale.

Renzi, Marchionne, l'articolo 18 e l'eredità di Berlusconi

 

È impossibile capire e interpretare correttamente le recenti scelte e prese di posizione del presidente del consiglio Matteo Renzi, in particolare l'offensiva sull'articolo 18 e il rinnovato rapporto con Sergio Marchionne, se ci si limita ad analizzarle nel merito o se si tenta di rapportarle alle dinamiche dell'economia o del rapporto con l'Unione Europa.

Perché mai Renzi dovrebbe insistere nell'attacco a un articolo 18 che la riforma del 2012 (votata compattamente da Pd e Pdl sotto l'egida di Monti e Fornero) ha già smontato esattamente nei termini che vengono tuttora criticati (il reintegro automatico in caso di ingiustificato licenziamento per motivi non palesemente discriminatori, che non esiste più)? Cosa mai dovrebbe importare ai suoi referenti sociali italiani (Confindustria) ed europei (Merkel e Draghi) di un articolo 18 già pesantemente indebolito nella sua capacità di difendere i lavoratori, non solo dalla riforma del 2012, ma anche e soprattutto dal proliferare di contratti di lavoro precari privi di qualsiasi protezione? E cosa spinge ora Renzi a riabbracciare Marchionne, dopo la “delusione” dichiarata nella campagna per le primarie del 2012, proprio nel momento in cui la popolarità dell'amministratore delegato Fiat è ai minimi storici, in seguito alla scelta di non investire più un euro in Italia, e, anzi, trasferire all'estero il più possibile?

La chiave interpretativa, a mio parere, è tutta politica, e tutta legata a quella che Renzi considera la battaglia chiave dei prossimi mesi: la conquista dei voti della destra. Se l'articolo 18 e Marchionne non interessano a nessuno tra gli elettori di sinistra, Confindustria e l'Europa, a chi interessano, in quanto totem simbolici del cleavage sinistra-destra degli ultimi anno? Semplice: agli elettori di destra.

Non c'è ragionamento del segretario del Pd, infatti, che non parta dal famoso 40% preso alle europee del 25 maggio, ottenuto soprattutto saccheggiando l'area degli elettori di centro-destra che non considerano più credibile (in quanto non più vincente) Berlusconi, che si sono già stufati di Mario Monti e che non hanno neanche mai preso seriamente in considerazione Angelino Alfano. Come disse efficacemente Ilvo Diamanti, quel risultato non fu ottenuto dal Pd, ma dal PdR, il Partito di Renzi, un'area di consenso ben più vasta di quella del Partito Democratico e soprattutto caratterizzata da un asse politico ben più spostato verso destra.

Raggiunto quell'obiettivo, ora il problema di Renzi è consolidarlo, in vista di elezioni politiche la cui data, in Italia, non è mai davvero prevedibile. E in mancanza di una competizione seriamente minacciosa a sinistra, con le innegabili difficoltà post-elettorali de L'Altra Europa con Tsipras e la complessa transizione che sta vivendo Sinistra Ecologia Libertà, il campo strategico da presidiare per il segretario del Pd resta quello del centro-destra. Un campo su cui per 20 anni ha regnato indiscusso Silvio Berlusconi, la cui presenza è stata tanto ingombrante da non lasciare eredi, se non un se stesso invecchiato e indebolito, anche se ancora non convinto a farsi da parte. Paradossalmente, ma neanche tanto, il più accreditato per ereditare quel ruolo, oggi, è proprio il leader dello schieramento avversario, Matteo Renzi. Ed ecco quindi che Renzi costruisce la sua agende politica del 2013 proprio sui due nodi simbolici più tipici della retorica berlusconiana: prima la questione fiscale, con i famosi 80 euro di detrazione Irpef; ora, la libertà di licenziamento, con l'attacco all'articolo 18. Una battaglia puramente simbolica, come del resto lo stesso Renzi ha esplicitamente detto nel suo discorso al Council on Foreign Relantions, priva di risultati reali da portare ai propri referenti italiani e stranieri, che infatti attendono ben altro sul piano dei conti pubblici, ma che rafforza il consenso di Renzi nell'elettorato post-berlusconiano, toglie il terreno sotto ai piedi a chi pensa di ricostruire una destra (da Alfano allo stesso Berlusconi) e restituisce a Renzi la possibilità di scontrarsi con i suoi nemici preferiti, quelli contro cui ha costruito simbolicamente tutto il suo successo politico: la Cgil e l'ala socialdemocratica del Pd. Niente esalta Renzi, in particolare agli occhi di chi per 20 anni ha votato Berlusconi, più di vederlo scontrarsi con l'odiato Massimo D'Alema, coi suoi eredi più o meno bersaniani e soprattutto con la Confederazione Italiana Generale del Lavoro, la punching bag preferita del pugile fiorentino fin dagli esordi. Un capolavoro di illusionismo: niente mette in difficoltà più l'avversario più di costringerlo a difendere qualcosa che praticamente non c'è più, come appunto l'articolo 18.

Ma sarebbe sbagliato pensare che la sinistra del suo partito sia il vero avversario contro cui Renzi ha scatenato quest'offensiva: si tratta appunto di punching bag, di un obiettivo dimostrativo per mostrarsi forte e aggressivo, nel confronto con quelli che sono i veri concorrenti di Renzi oggi, e cioè tutti i soggetti interessati a ricostruire la destra italiana e a concorrere con Renzi per l'eredità berlusconiana.

Ed è qui che entra in ballo l'asse con Marchionne: perché, dopo aver esaltato l'amministratore delegato della Fiat ai tempi della vertenza su Pomigliano, nel 2010, e averlo poi pubblicamente scaricato in occasione delle primarie del centrosinistra, nel 2012, ora Renzi torna a fare asse con lui? Perché Marchionne rappresenta quel pezzo di establishment italiano che ha identificato nell'ex sindaco di Firenze l'erede di Berlusconi, ed è entrato in guerra contro chi invece, da Luca Cordero di Montezemolo (recentemente silurato da Marchionne in Ferrari) a Diego Della Valle (ieri sera violentissimo in tv contro Renzi e Marchionne, nonché possibilista su un impegno in politica) a Corrado Passera (già in campo col suo Italia Unica) pensa a nuovi soggetti politici per catalizzare l'area degli orfani di Berlusconi e Monti.

Renzi può quindi utilizzare Marchionne, altro simbolo pesantemente divisivo sul cleavage destra-sinistra (odiato a sinistra, amato a destra), tanto quanto l'articolo 18 (che polarizza in senso opposto), per apparire più berlusconiano di tutti, più impegnato di tutti nella battaglia contro il sindacato, più accreditato di tutti per essere il riferimento politico di tutti gli italiani che hanno creduto a Silvio Berlusconi e Mario Monti.

Insomma: dell'articolo 18 non interessa niente né a Renzi né all'Europa né a Confindustria, dato che la riforma che volevano l'hanno già avuta due anni fa. L'obiettivo di Renzi è semplicemente prendere di mira un simbolo della sinistra e del sindacato in modo da ingaggiare una battaglia contro la sinistra e il sindacato, che vede indeboliti, e da guadagnare consenso a destra. Allo stesso modo, fare asse con Marchionne rafforza la legittimità di Renzi tra gli elettori di destra che lo considerano ancora troppo “politico” e troppo poco “imprenditore”, e che potrebbero essere tentati di seguire le sirene di Montezemolo, Della Valle e Passera.

Un azzardo spregiudicato, di quelli che piacciono a Renzi, che lo scopre pesantemente sul fianco sinistro e si basa sul presupposto che non ci sia nessuno, a sinistra, in grado di vedere il suo bluff e mettere in contraddizione la sua retorica progressista e innovatrice con questi attacchi reazionari ai diritti sociali. Un'opportunità allettante, per chi volesse seriamente lavorare a un'alternativa di sinistra al neoliberismo cialtrone del presidente del consiglio, sottraendosi alla trappola dialettica della divisione tra innovatori e conservatori (un cinico sfruttamento retorico del dramma della precarietà, come abbiamo già avuto modo di dire) e sfidandolo con proposte davvero innovative per un nuovo patto sociale e generazionale, un nuovo statuto dei lavoratori, un nuovo welfare universale.

 

Ultima modifica ilLunedì, 29 Settembre 2014 07:18
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