Charlie Hebdo, la libertà e l'odio
- Scritto da Lorenzo Zamponi, Simona Ardito
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Hanno ucciso 12 artisti nel centro di Parigi. È difficile immaginare un colpo più preciso al cuore della cultura europea, al centro di quello spazio di libertà, dibattito e progresso che ci piace identificare con il nostro continente. AK47 contro matite, 12 uomini disarmati freddati in pochi momenti, tra i tavoli di una redazione, senza resistenza, protetti come credevano di essere dalla propria libertà, da quello scudo di carte, tradizioni e costituzioni la cui fragilità è stata rivelata, una volta di più, dalla fredda logica delle armi.
La reazione di sdegno e solidarietà a cui abbiamo assistito in queste ore è tanto inattesa quanto salutare. Per quanto ipocrisia e fariseismo non manchino, nell'improvvisa centralità che la libertà di espressione ha assunto nel nostro discorso pubblico, non possiamo negare che vedere migliaia di persone scendere in piazza con le matite in mano, in difesa del valore della parola libera e del diritto di critica, sia, una volta tanto, un'immagine che scalda il cuore.
Mentre le notizie si susseguono senza troppa affidabilità, comprese quelle su un'esplosione di violenza anti-islamica in Francia, la caccia ai responsabili di questo crimine non ha fatto che allungare una scia di sangue che ci auguriamo si esaurisca al più presto. Chiusa questa pagina, cosa resta dei fatti di questi giorni?
Mercoledì prossimo Charlie Hebdo sarà di nuovo in edicola. E con una copertina che, siamo pronti a scommetterlo, tra isolate acclamazioni al genio farà gridare allo scandalo e forse porterà molti a rimpiangere il proprio frettoloso #JeSuisCharlie. Definire quella di Charlie Hebdo satira dissacrante sarebbe un eufemismo: le loro vignette sono state spesso provocatorie, offensive, gratuite, al punto che il giornale è stato anche accusato di aver scelto una linea apertamente islamofoba solo per intercettare i più bassi umori popolari e incrementare le vendite. Le caricature di Maometto che in questi giorni sono sulle pagine di tutti i quotidiani, e che gioiosamente condividiamo sui social network sentendoci grandi difensori della libertà d’espressione, sono piuttosto simili a quelle che, nel 2006, scatenarono una polemica internazionale e, fieramente sfoggiate su una maglietta dall’allora ministro Calderoli, aprirono una crisi diplomatica tra Italia e Libia che si concluse parzialmente solo in seguito alle dimissioni del ministro. Il direttore del New York Times Dean Banquet, che andando controcorrente ha scelto di non pubblicare sul suo giornale le vignette di Charlie Hebdo all’indomani dell’attentato, ha motivato la scelta affermando che “c’è una differenza tra l’insulto gratuito e la satira. La maggior parte di quei disegni è un insulto”.
E però la raffinatezza di questo dibattito stride con la brutalità di quello che è successo. Quello di libertà d’espressione è un concetto ben più complicato del poter semplicemente dire e scrivere tutto ciò che ci passa per la testa, che merita analisi e problematizzazioni. Ma a impedirci di farlo è l'irruzione in questo contesto della violenza: una redazione giornalistica decimata brutalmente; un gesto di cui nessuna motivazione, nemmeno il più ottuso integralismo religioso, potrà mai davvero rendere conto.
Stiamo parlando di disegni. Sberleffi e boccacce con la matita. E di due ragazzi della nostra età, di 32 e 34 anni, nati, cresciuti ed educati non in mezzo ai guerriglieri afghani ma nel cuore della Francia, il paese che grazie alla satira ha formato la propria coscienza e libertà di pensiero. Due ragazzi qualunque che forse hanno sfogliato Charlie Hebdo come possono aver visto South Park, e che potrebbero aver deciso di compiere una strage in virtù di un fondamentalismo religioso che forse per gran parte della propria vita hanno conosciuto né più né meno di qualunque ragazzo costretto ad andare a messa dai suoi genitori.
Proviamo a mettere sotto la lente d’ingrandimento i pochi fatti più o meno certi a nostra disposizione. Ci dicono i giornali che i fratelli Kouachi erano già stati individuati, arrestati e condannati come parte di una rete terroristica facente capo (pare) addirittura ad Al Qaeda. Ciò nonostante, ci dicono sempre i giornali, nei mesi passati Saïd e Chérif avrebbero compiuto numerosi viaggi in Siria o in Yemen per ricevere una formazione completa alla jihad: ci serva di lezione per ogni paio di forbicine per unghie gettato invano ai controlli di sicurezza in aeroporto.
E mentre in Francia imperversa la polemica sull’islamofobia per l’imminente uscita del nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione, che immagina il paese governato dal leader di un partito musulmano moderato, i nostri due giovani aspiranti terroristi che fanno? Non colpiscono Houellebecq, non la casa editrice Flammarion (che però vengono identificati come obiettivi sensibili e finiscono subito sotto controllo della polizia), ma un settimanale satirico da tempo oggetto di forti critiche e in perenne crisi di budget, che a Houellebecq ha dedicato la copertina. Hanno studiato bene l’obiettivo, dicono ancora i giornali: infatti i terroristi sbagliano numero civico, dimenticano le carte d'identità nell’auto che poi abbandonano, non conoscono i volti delle loro vittime prescelte, che identificano chiamandole per nome – salvo poi ferire e uccidere anche numerose altre persone che non c'entrano nulla, tra cui – fatalità – due persone di religione musulmana.
Non intendiamo qui aggregarci alle numerose ipotesi di complotto che già circolano in rete, con tanto di foto e video che proverebbero come si tratti di una messinscena organizzata da chissà chi. Non possiamo però non notare che o è falsa la rappresentazione di un gruppo di giovani isolati e pasticcioni che non fanno neanche una ricognizione prima di colpire e dimenticano i documenti in giro, o è forzata la lettura che circola in queste ore, quella di uno scontro di civiltà globale, di una guerra lanciata da un imprecisato mondo islamico a una fantomatica Europa cristiana.
Lo scontro tra civiltà è quel facile paravento che permette oggi a Hollande di chiamare a raccolta “la grande Francia in difesa dell’ideale della pace” e per “la celebrazione dello spirito di resistenza”; a Sarközy di parlare di quella che “è una guerra dichiarata alla civiltà”, per cui “di fronte alla barbarie, la civiltà ha il dovere di difendersi”; a Marine Le Pen di promuovere un referendum per il ripristino della pena di morte e chiedere la sospensione dei trattati di Schengen (e che gli attentatori fossero appunto nati in Francia poco importa); alle destre xenofobe di ogni angolo d’Europa di invocare un deciso inasprimento delle misure per il respingimento dei migranti. Mentre l’intera comunità islamica francese usa ogni momento di comunicazione pubblica per dissociarsi dall’attentato, esprimendo netta condanna del gesto e sentito cordoglio alle famiglie delle vittime. Tutto contemporaneamente. Nella stessa giornata. Un carosello che Charlie Hebdo avrebbe, pensiamo, violentemente irriso.
Non sappiamo se quello che è successo nella redazione di Charlie Hebdo, e poi a Montrouge, Vincennes e Dammartin, sia il piano isolato e folle di criminali autodidatti o se sia parte di una strategia globale, di una nuova ondata di terrorismo di matrice fondamentalista islamica volta a intimidire la libertà d'espressione e a spaventare le società europee, in particolare nelle sue componenti più progressiste (i peggiori nemici di chi vorrebbe imporre uno scontro di civiltà tra due blocchi monoliticamente reazionari). Questo, purtroppo, lo sapremo solo nei prossimi mesi.
Una cosa però la sappiamo: che esista o meno la grande guerra globale, ci sono due trincee, sempre più profonde, nel nostro mondo. La prima è quella che attraversa e divide gran parte dei paesi a maggioranza islamica, all'interno e all'esterno del mondo arabo. Il giorno dopo la strage di Charlie Hebdo un'intera città di 10 mila abitanti è stata rasa al suolo in Nigeria, con centinaia di vittime civili; il giorno prima, mentre si consumava il massacro di Parigi una bomba faceva 30 morti su un minibus, in Yemen; a dicembre un attacco terroristico ha ucciso 141 persone, di cui 130 bambini, in una scuola di Peshawar, Pakistan. È normale che quello che è successo a Parigi ci faccia più impressione: a Parigi ci siamo stati, la conosciamo, quel giornale qualche volta magari l'avevamo anche sfogliato, mentre queste altre notizie ci arrivano da luoghi che per noi significano poco, e neanche le capiamo bene. Però uno sforzo va fatto, se intendiamo veramente capire. Perché il terrorismo islamico sta facendo moltissimi morti, e sono prima di tutto morti musulmani. Perché non c'è nessuno scontro di civiltà, ma ci sono alcuni che stanno usando metodi barbari per crearlo, per impadronirsi prima di tutto dei paesi e dei popoli dell'Islam, con le buone o con le cattive. Lì c'è uno scontro, c'è un conflitto, per la difesa dei pakistani, dei nigeriani, degli yemeniti, da questi criminali che pretendono prima di soggiogarli e poi di mobilitarli contro di noi.
La seconda trincea è quella che attraversa l'Europa, e in particolare le periferie delle grandi città. Se quello che ci raccontano è vero, gli autori di questo crimine sono nati e cresciuti nel cuore dell'Occidente, nella Parigi culla della civiltà, dell'illuminismo e della rivoluzione. Com'è possibile che francesi di origine algerina vadano a imparare come si muore e si uccide in Siria, terra con la quale non hanno alcuna relazione? Quanto odio ha seminato, in loro, la loro vita in Francia? Un sistema economico ingiusto, decadente e corrotto continua a produrre contraddizioni e violenza, facendo di tutto per nasconderlo tra le proprie pieghe, negli angoli più reconditi delle nostre metropoli, o delocalizzandolo dall'altra parte del mondo sotto forma di guerra. Cos'hanno fatto, la Francia e l'Europa, per farsi odiare così tanto dai propri figli? Lo sappiamo bene, anche se spesso ci giriamo dall'altra parte: l'ingiustizia, lo sfruttamento e la mancanza di opportunità che affliggono fette crescenti della popolazione europea, in particolare giovanile e in particolare nell'epoca della crisi economica, sono moltiplicati per mille delle differenze etniche e religiose. Esiste una segregazione etnica, sociale ed economica nelle periferie delle nostra città, la stessa di cui si nutre il crescente consenso dell'estrema destra e che fornisce linfa vitale anche al fondamentalismo armato. È l'odio che la nostra società produce in quantità colossali a sfornare carne da cannone per il terrorismo.
Se veramente “siamo Charlie”, oltre le frasi fatte svuotate di senso, gli hashtag buoni per un’onda emozionale che va già spegnendosi in attesa della prossima tragedia, allora dobbiamo avere a cuore la nostra libertà d'espressione, difenderla, ma anche e soprattutto usarla.
Se per noi la libertà d'espressione non è licenza d’insulto e vuota formalità, ma sostanza della democrazia, allora usiamola per riempire di terra queste due trincee, per costruire ponti verso chi soffre tutti i giorni la violenza del terrorismo fondamentalista, e cioè gran parte dei paesi a maggioranza islamica, e verso chi è segregato, escluso, sfruttato, allevato all'odio nelle periferie delle nostre stesse città.
Andiamo in piazza con le nostre matite in mano, ma quando torniamo a casa non rimettiamole in un cassetto: teniamole in mano, e scriviamo parole di pace e di giustizia.
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