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Da Togliatti a Napolitano, il realismo subalterno della sinistra

giorgio napolitano gianni agnelliLa scelta del gruppo dirigente del PD di siglare un patto di governo con il PDL ha lasciato interdetti tanto i militanti quanto gli osservatori indipendenti. Ci si è chiesti come sia stato possibile disattendere in maniera tanto evidente il mandato assegnatogli dagli elettori al punto da allearsi con colui che veniva tacciato come un pericolo per la democrazia. Vi è chi, citando Hannah Arendt , ha sottolineato il disprezzo che le classi politiche nutrono verso i propri elettori. Altri hanno correttamente ricondotto le alleanze tra gli schieramenti principali a un sintomo della governance europea al tempo della crisi: così come in Grecia, dove governano assieme socialisti e conservatori, anche in Italia sarebbe nato un esecutivo costituito dalle forze disposte ad attuare pedissequamente le politiche imposte dalla BCE e dal capitale internazionale lasciando alle forze anti-sistema il ruolo dell’opposizione. Vi è poi chi, nel tentativo di giustificare la decisione dei vertici del PD, si è appellato a Palmiro Togliatti. In un’intervista al Corriere della Sera Giuliano Amato, criticando i deputati che hanno contestato l’accordo, ha affermato che ciò che manca “è un po’ di togliattismo”. Michele Prospero, sull’Unità, ha rincarato la dose : “Dallo straordinario edificio barocco che era il Pci, con le sue cerimonie, i suoi riti, i suoi selettivi percorsi di carriera, le sue sorveglianze e promozioni si è precipitati alla selezione della (anti) classe politica con curricula, provini, autopromozioni.” E ancora: “senza il paradigma togliattiano niente Repubblica dei partiti, [...] e niente classi dirigenti costruite con un elevato senso dello Stato ma solo incompetenza abissale in nome però dell’etica dell’anti-inciucio".

 


Quest’ultimo punto di vista merita attenzione perché focalizza l’influenza che la cultura togliattiana ha ancora oggi all’interno del Partito Democratico, dei dirigenti come dei militanti. Alla base vi è l’esaltazione del compromesso al ribasso, del primato del Partito sulla società, della prevalenza della forma sui contenuti. Poco importano le leggi da approvare: la parola d’ordine è che oggi “al Paese serve un Governo” e dunque via all’accordo con coloro i quali fino al giorno prima rappresentavano un pericolo per la democrazia.
È una visione del mondo e della politica che forse ebbe senso nel 1944, quando Palmiro Togliatti giunto a Salerno dopo vent’anni trascorsi a Mosca, patteggiò con la Monarchia morente gettandogli un’ancora di salvezza in nome della comune lotta contro il nazifascismo. Gli andò bene, il referendum del 1946 fu vinto di un soffio dai repubblicani, ma fu l’unica volta in cui il tatticismo della sinistra venne premiato.
Già nel 1947 Togliatti, sempre lui, aveva dato una prova di realismo perdente, votando a favore della ratifica dei Patti Lateranensi nella Costituzione Italiana. Il suo fu un voltafaccia che sconcertò i laici e i socialisti dell’Assemblea Costituente e che venne giustificato nel tentativo di garantire la “pace religiosa”. Credeva, il dirigente del Pci, che con quel voto avrebbe rafforzato il rapporto con la Democrazia Cristiana, avrebbe fortificato la presenza del Pci nel Governo, avrebbe affossato l’immagine di un partito “anticlericale”. Inoltre vi era in quella scelta un altro leitmotiv ricorrente, ovvero la necessità di non consentire al centro di allearsi con la destra, pur al costo di collocarsi sulla sua posizione.
Togliatti è il vero simbolo di quella mentalità, confermata anche dalla sua esperienza come Ministro della Giustizia. L’ex numero due del Comintern, l’Ercoli di Spagna fu il responsabile di quell’amnistia che salvò dal carcere migliaia di fascisti. Lo fece lui, si disse, perché prima o poi lo avrebbe fatto qualcun altro. Una prova di realismo o di arrendevolezza? La risposta potrebbe essere trovata nelle parole del successore di Togliatti alla guida del Pci, Luigi Longo, che nel suo libro del 1975 "Chi ha tradito la Resistenza" ritenne che dopo il 1945 il Pci avrebbe potuto dar vita "a un movimento di massa più all'attacco, a un'iniziativa più tenace e incisiva, di quanto realmente non ci siano stati, per realizzare alcune conquiste, sia sul terreno delle riforme economico sociali, sia su quello istituzionale".
Il punto fondamentale è che, a parte nella parentesi del Fronte Popolare del 1948, quello dell’accordo con l’avversario è un fatto costitutivo dell' identità costitutiva della sinistra erede del Pci. Il discorso auto-celebrativo che esso e suoi eredi hanno generato dalla fine degli anni ’80 ad oggi in cui si presentano come “forza d’alternativa” è in realtà un trucco che nasconde un approccio consociativista. Nel Pci e nei partiti che gli sono susseguiti ha vinto il peggio della cultura togliattiana che degenerò nell'interpretazione apportata da Giorgio Amendola, il mentore di Giorgio Napolitano. Secondo questa impostazione, la politica è vista come una somma di poteri e compito del Partito è quello di accordarsi con essi per non rimanere ai margini delle decisioni. Per giungere a ciò, esso deve spegnere le pulsioni di cambiamento radicale provenienti dalla società e dai movimenti, anche a costo di ribaltare le proprie convinzioni. E se c'è un Muro che cade, basta spostarsi a destra e dichiararsi socialista. La sostanza è nella continuità dell'apparato.


Il ruolo del Partito come stabilizzatore sociale era condiviso anche da Berlinguer. Non si spiega altrimenti la riottosità che i comunisti ebbero nel sostenere con forza la sfida referendaria sul divorzio. Pur di non schierarsi con nettezza per l’Italia laica e moderna il Pci era disponibile a una riforma peggiorativa della legge. E d’altronde Berlinguer lo disse chiaramente: il Pci – disse il segretario comunista – intende tenersi lontano da “storture, esasperazioni settarie, irresponsabili provocazioni di gruppi anticlericali. [Lo scontro aperto con il Vaticano comporterebbe] “l’apertura di un conflitto di religione e la rottura del quadro democratico”. E Amendola aggiunse successivamente: “La nostra opera laica andava fatta lentamente [...]. La famiglia italiana era già travagliata: non poteva essere condotta su posizioni moderne attraverso una nuova guerra interna. A capire il divorzio bisognava ci arrivasse da sola, con una presa di coscienza”. A 40 anni di distanza chi potrebbe convenire sulla realisticità dei rischi paventati dai leader comunisti? Possiamo dire oggi che più che a quelle dei cattolici, la necessità di andare incontro alla necessità del Vaticano è stata la costante preoccupazione della mentalità della dirigenza del Partito. Una conferma si ebbe nel 2005, quando il referendum sulla fecondazione assistita vide un approccio tra il timido e l'imbarazzato da parte del segretario dei DS, Piero Fassino, impensierito più dal tenere saldi i rapporti con le gerarchie ecclesiastiche che dalla cancellazione delle norme.


La preoccupazione dell'apparato comunista, diessino e piddino è stata quella di amministrare il Paese di fatto assieme alla destra, di buttare acqua sul fuoco del conflitto, di superare la conventio ad excludendum che la teneva fuori dal Governo attraverso accordi che pur disorientavano la propria base e portavano alla rinuncia dei propri valori e programmi. Governare per governare, gestire il potere “senza chiedersi il perché”, come ha scritto, questa volta giustamente, Piero Sansonetti. E che si chiami "pacificazione nazionale", "compromesso storico" o "dialogo per le riforme" cambia poco, soprattutto nei risultati fallimentari. Come si può valutare diversamente il "governo della non sfiducia" retto da Andreotti e che venne sostenuto dai comunisti per due anni con il risultato di imporre le prime misure di austerità? Il risultato fu una disoccupazione strisciante, l'esplosione del debito pubblico e il declino elettorale del Pci. E cosa dire, invece, del "patto della crostata" siglato da Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi nel 1997 con il quale il leader del Pds si impegnò a non fare andare in porto una legge delle frequenze televisive? Finanche quando la vittoria è stata ad un passo o si è persino concretizzata la sinistra ha preferito costruire ponti con la destra: piuttosto che giocare per vincere nel 1996 fece di tutto per costituire un governo - molto simile a quello attuale- che avrebbe visto Antonio Maccanico come Presidente in una coalizione assieme al Polo delle Libertà. E che dire della Bicamerale, con il quale il leader pidiessino invece si prodigò per fare di Berlusconi un "padre costituzionale"? Dalla Chiesa si era passati a Mediaset ma la cultura politica era la stessa che conduceva le scelte di Togliatti 50 anni prima, quella del realismo subalterno.


Le vittime di questa logica politica sono state la preservazione dei propri valori e di un programma di cambiamento radicale. Solo così si spiegano la continuità di una classe dirigente e della simbologia di sinistra. Il legame che esiste tra i militanti del Partito Democratico – anche dei più giovani – verso la storia del Partito Comunista e dei suoi eredi è possibile perché esiste un cemento comune su cui si sono fondati il Pci, il Pds, i Ds e il Pd costituito, purtroppo, da conformismo, tatticismo e realismo subalterno. Così si spiega anche la nascita del Governo Letta e i fiumi di ragionamenti contorti che sono stati portati avanti da intellettuali come Prospero. Il momento del cambiamento si sposta in un avanti indefinito, del quale ne vedono le forme solo i dirigenti più preparati, mentre ai militanti fedeli resterà il compito di obbedire e di applaudire i nuovi "padri costituenti" Alfano e Quagliarello alla prossima Festa dell'Unità.

Ultima modifica ilLunedì, 21 Ottobre 2013 15:42
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