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Trent’anni dopo, Palombella Rossa ci spiega come si è passati dal comunismo a Renzi

Trent’anni dopo, Palombella Rossa ci spiega come si è passati dal comunismo a Renzi

La qualità migliore del cinema di Nanni Moretti è quella di saper catturare nei suoi film lo spirito e i tic di un’epoca. La comitiva di apatici di Ecce Bombo, il rampante socialista ne Il Portaborse, addirittura un Papa che si sente inadeguato in Habemus Papam sono personaggi che non possono invecchiare perché immortalano temi e linguaggi degli anni ’70, 90 e 2000. Palombella Rossa, la cui versione restaurata è stata presentata nei giorni scorsi al Torino Film Festival, è il film in cui Nanni Moretti è riuscito al meglio a rappresentare non solo i suoi tormenti, ma quelli di un collettivo di milioni di persone sul finire di un’epoca: i comunisti italiani. Lo ha fatto in una maniera talmente incisiva e originale che a quasi trent’anni dalla sua realizzazione non solo è capace di raccontarci cosa ha significato emotivamente la fine del Partito Comunista Italiano, ma, messo in fila coi due lavori seguenti – Caro Diario e Aprile – di raffigurare il destino di una parte dei suoi militanti negli anni ’90.

C’è un Muro che sta per cadere e il decennio che sta per concludersi è stato per i comunisti un doloroso percorso in cui hanno visto svanire le proprie speranze. Il mondo è cambiato, ma non come essi desideravano: il blocco socialista è in crisi, l’individualismo ha preso il sopravvento all’ideale collettivo, la classe operaia ha subito dure sconfitte. Prima che il PCI cominci il percorso che lo porterà allo scioglimento, Nanni Moretti ci regala un film sulla sconfitta dei comunisti e sul rampantismo diffuso, ma da un’ottica tutta particolare: quella del sogno di un dirigente del PCI che si trova a giocare una infinita partita di pallanuoto e che, nel corso della giornata, fa i conti coi suoi fantasmi, con suo passato e le sue illusioni di militante piegato.

Non era la prima volta che Moretti affrontava temi simili: uno dei suoi primissimi film, La Sconfitta, seppur girato nel pieno delle lotte operaie, quando la disfatta della sinistra non sembrava affatto alle porte, era già pervaso di dubbi e incertezze sull’avvenire del comunismo. Con Palombella Rossa Moretti torna sull’argomento, tra l’altro facendo uso anche di immagini del film realizzato quindici anni prima, e si tratta di un’opera straordinaria, che con sottigliezza affronta tutta una serie di dilemmi politico-umani di chi si sente sconfitto dalla Storia: il senso di inadeguatezza, la mancanza di vera convinzione, l’incapacità di saper spiegare né a se stessi né agli altri perché vale la pena lottare per un mondo migliore. Vi è la ricerca di una soluzione a una crisi che è sia politica che personale e così Moretti alterna il sogno a ricordi di un passato innocente e ad altri che rifiuta e di cui si vergogna. Il suo desiderio, come quello del PCI occhettiano è di essere «diversi», ma «come tutti gli altri», una contraddizione in termini che fino alla fine del film il protagonista non riesce a risolvere, una metafora politica del processo politico che vive il PCI a pochi mesi dalla Bolognina e dal suo scioglimento.

Michele Apicella, il protagonista, è seduto su un letto e legge un testo su un foglio di carta. Non ricorda chi egli sia, ma poi rammenta, è un articolo dedicato alla morte di un compagno. «Io sono un comunista», esclama sorpreso tra sé e sé. Lo ritroviamo in una squadra di pallanuoto e di giorno comincia una partita che si concluderà soltanto la notte, davanti a un pubblico tutto avverso al protagonista. («Pubblico di merda», aveva esclamato lo stesso Michele anni prima nel film Sogni d’oro).

Sappiamo che il giorno dopo ci saranno le elezioni e che qualche giorno prima ha fatto qualcosa di eclatante. Vi è stato un dibattito elettorale e il dirigente del PCI trasmette istintivamente sconforto. Davanti a sé vi sono giornalisti arroganti e pungenti, che citano Giovanni Paolo II, riferimento culturale alla moda, e sbeffeggiano il funzionario comunista: «Come ci si sente in un partito ormai al tramonto?». Michele risponde con poca convinzione, sente mancarsi la terra sotto i piedi, rivendica l’alterità della propria forza politica mentre ne riconosce l’adesione dell’Italia alla NATO, si appella alle lotte del passato generando nient’altro che l’ilarità dei presenti.

La partita in piscina è intermezzata da degli incontri con personaggi che egli non cerca, ma che sembrano desiderosi di voler indicare a Michele una via d’uscita alla sua crisi politica personale. Vi è un sindacalista – interpretato dal padre di Moretti – che offre una soluzione tutta politica e organizzativa. Ma il marxismo è in crisi e così Michele rifugge e incontra fautori di ideologie spirituali. Il cattolicesimo guidato dal Papa polacco è in ascesa e un entusiasta e molesto evangelizzatore prova a convincere Michele. «Io sono ateo e materialista» gli risponde, ma l’altro non desiste: «Tu la pensi come noi!». Ognuno pare alla ricerca di una guida: c’è chi si rivolge a psicanalisti, chi a guru, chi al maestro di yoga, tutti dediti a offrire soluzioni e a dare un senso alle cose. Michele ascolta, in silenzio, cerca sostegno nella famiglia, ma anche il rapporto con la figlia è conflittuale.

Il dialogo a più riprese con una cronista invadente, simbolo forse del rampantismo di quell’epoca, è probabilmente il più importante. Lei vuole un’intervista dal dirigente comunista ma le sue domande sono superficiali, e il suo linguaggio vuoto.  Michele glielo grida, si lamenta, ma lei gli ricorda che è stato proprio lui a usare la politica spettacolo con il non meglio precisato gesto eclatante di martedì, forse l’unica maniera per farsi ascoltare in un’epoca restia all’analisi e all’approfondimento. I riferimenti con la politica attuale si sprecano. I giudizi della giornalista sono stereotipi, frasi fatte, e quando Michele prova a parlare del passato, ad approfondire le ragioni di quegli anni, lei lo riporta o su temi estetici o personali. «Sa, io mi occupo di sport», si giustifica. Il linguaggio della cronista, frivolo e pieno di anglicismi inutili, genera l’esplosione di rabbia di Michele. L’apice del film è la risposta di Michele-Nanni, attuale allora come oggi: «Chi parla male, pensa male, e vive male. Le parole sono importanti!».

Vi è poi l’incontro con due soggetti indignati per ragioni che non vengono chiarite. Sono sdegnati, si presentano come «gli unici puri», vogliono «nomi e cognomi» e hanno qualcosa di molto importante da dire, che però non verrà mai detto. Michele li guarda, ascolta ma ne sembra spaventato. Con chi ce l’hanno i due indignati, che non esprimono concetti politici ma solo rabbia generica? A distanza di anni sentirli gridare ci rammenta un’altra uscita alla crisi politica di Michele, oggi purtroppo chiara ma che incredibilmente Moretti aveva intuito: quella del nichilismo, della rabbia generica, di parole senza idee.

La cosa più sorprendente è che questo film venne realizzato nel 1989 prima della caduta del Muro. Non è quindi un’opera di memoria, un racconto del passato a giochi fatti, ma è un’espressione sincera dell’angoscia di un comunista che avverte che un’epoca, quella della lotta per «l’umanità, quella vera» – come diceva il giovane Moretti ne La Sconfitta dieci anni prima – sta finendo.

Era vano allora come oggi cercare una guida per il futuro in Palombella Rossa, in questo Moretti è inutile. In lui non c’è una morale su ciò che andrebbe fatto ma solo l’espressione di tensioni individuali, e quando esprime la sua adesione all’ideologia marxista, gridando da solo, nella piscina, il suo è più un tentativo di attaccamento romantico alla storia che un indirizzo per il futuro. Non a caso davanti agli interlocutori che sbeffeggiano il suo impegno politico o che gli presentano un’alternativa spirituale o metafisica, Michele risponde con mutismo o con imbarazzo. Ha «un problema di silenzio», gli svela un teologo incontrato al bordo della piscina, lo stesso che mostrerà anni dopo quando ne Il Caimano rifiuterà in prima istanza di interpretare i panni di Berlusconi adducendo che «è stato detto tutto», lo stesso ancora che, nella vita reale, lo porta oggigiorno a ad un mutismo completo sulle tematiche politiche dopo un breve e intenso periodo di attiva partecipazione. La scena della pizza in spogliatoio coi compagni di gioco, sul finire del film, è quasi un commiato al comunismo: le idee cambiano, resta lo spirito di gruppo e la vicinanza umana tra persone che hanno condiviso un percorso assieme.

I film di Nanni Moretti successivi, soprattutto Caro Diario e Aprile,ci spiegheranno dove sono finiti i comunisti italiani. Il dirigente comunista tormentato di Palombella Rossa diventerà un pasciuto liberale progressista, «uno splendido quarantenne». Il suo famoso «Dì qualcosa di sinistra!» gridato verso un D’Alema tiepidamente impegnato in un duello televisivo con Berlusconi, è una delle sue frasi peggio invecchiate perché non si sa davvero più che cosa significasse all’epoca per lui né cosa significhi oggi, visto che la sua generazione è passata dal ’68 a Renzi quasi senza colpo ferire, un percorso che si addice adeguatamente a uomini di cultura come Francesco Piccolo, Francesco De Gregori e Michele Serra, che hanno anche scritto in proposito o elaborato in interviste questo passaggio intellettuale. In tutto ciò Moretti non è affatto diverso dai dirigenti che poi ha contestato dieci anni dopo durante il suo periodo di attivismo politico nei Girotondi: dal marxismo è passato a una visione liberale, proprio come D’Alema e Veltroni, e ha sposato appieno le posizioni – anche se non i comportamenti – di quegli stessi giornalisti che in Palombella Rossa deridevano il povero Apicella nella tribuna stampa.

Moretti resta colui che meglio di altri ha raccontato cosa è stata la Bolognina, lo scioglimento del Partito Comunista Italiano, la messa in soffitta di un sogno per vari milioni di persone. C’è riuscito due volte, in un’opera di fantasia come Palombella Rossa, e in un documentario con La Cosa. Poi, senza volerlo, è riuscito a raccontare cosa ne è stato di chi ha abbandonato il comunismo. Ha avuto la sensibilità per capire il carattere di un’epoca, e osservando il Michele Apicella del 1989 e il Nanni degli anni ‘90 sappiamo oggi che la riluttanza del primo nell’accettare lo spirito dei fatali anni ’80 non era affatto sbagliata.

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