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Primo Maggio tutto l’anno

  • Scritto da  Roberto Iovino
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portella della ginestraÈ stato forse il Primo Maggio più teso degli ultimi anni. Servono, ma non bastano, lunghe elaborazioni, speculazioni e riflessioni. È il tempo dell’azione, non certo dei fiumi di parole. Abbiamo bisogno di pensieri lunghi, ma di risposte e azioni immediate, di praticare cambiamento più che predicarlo, un esercizio fin troppo abusato negli ultimi anni da una politica che non perde occasione di offrire spettacoli indecorosi.

Sono tempi di crisi economica, finanziaria, ma anche democratica e politica. Personalmente non penso che l’Italia se la passasse molto meglio prima che i grandi centri finanziari, i media mainstream, le commissioni ministeriali certificassero l’inizio della recessione. Abbiamo subìto negli ultimi quindici anni la precarietà come cavie da laboratorio, la scomparsa di qualsiasi risposta politica a un capitalismo che fagocita se stesso. Ci confrontiamo da decenni con una disoccupazione cronica come tara dello stato d’arretratezza del nostro mezzogiorno, con la progressiva affermazione bipartisan di politiche che hanno eroso qualsiasi forma di stato sociale e tutela dei diritti universali. Siamo nella lunga parabola discendente dell’occidente, della sua arrogante supremazia sul mondo, è un ridimensionamento che viene da lontano che vede nell’attuale crisi economica solo il suo apice, ma non il suo inizio e (purtroppo) nemmeno la sua fine. 

Torniamo al concreto, la gente deve mettere il piatto a tavola. Il grado di esasperazione, di tutti e di ciascuno, cui si è arrivati è sotto gli occhi di tutti. Coinvolge larghissime fasce della popolazione, un processo d’impoverimento collettivo che non ha precedenti dal dopoguerra a oggi. Allora giustamente ci si chiede che senso ha chiamarla ancora “Festa dei lavoratori”, cosa c’è ancora da festeggiare? Un’osservazione giusta, direi proprio nulla. Intollerabile, però, che questa campagna, che ha senso se posta nell’interesse dei più deboli, sia rilanciata con forza da chi fa l’interesse dei più forti; Corriere della Sera, Sole 24 Ore, Europa, Il Giornale e Libero. Carta stampata che rappresenta centri di potere ben precisi. Da un lato la polemica relativa ai concerti (non solo quello di Roma), dall’altro l’esaltazione della presenza di alcuni imprenditori sul palco di Bologna. Personalmente penso che una data come quella del Primo Maggio non lasci spazi a fraintendimenti e ipocrisie, deve rimanere la giornata dei lavoratori e delle lavoratrici. La questione dei concerti, invece, meriterebbe un punto di vista più approfondito. La musica è da sempre una delle forme più alte di produzione culturale di massa, i suoi messaggi sono capaci di arrivare a milioni di persone, è una forma di espressione popolare, emozionale, collettiva. In un periodo di crisi economica, promuovere l’accesso gratuito a un concerto di musica live (per altro di buon livello) non è assolutamente una cosa da condannare, anzi. Certo siamo in tempi di crisi e serve sobrietà,  soprattutto evitare gli sprechi, però attenzione alle ipocrisie.  Non è indecoroso chi ogni anno spende centinaia d’euro per sbatterci con violenza lo sfarzo borghese della prima alla Scala? Preferiamo produzioni musicali di concerti live dove per un singolo spettacolo siamo disposti a spendere 50, 60 o addirittura 80 euro? Francamente penso di no. Ovviamente dobbiamo fare una riflessione sui risvolti commerciali di un concerto come quello del Primo Maggio (in qualunque città si tenga), ma questa riflessione va estesa a tutta la produzione culturale e musicale, nonché a tutte le sue forme d’accesso, anche quando spendiamo 15 euro per andare ad un concerto in un centro sociale, dove una birra costa 5 euro. Insomma se dobbiamo fare questa riflessione, facciamola davvero, non lasciamola a Sallusti o a Belpietro. 

Infine mi permetto una riflessione sul valore della “festa” e della “lotta” in una giornata come quella del Primo Maggio. Sono dell’idea che la lotta si faccia ogni giorno, non una volta all’anno. So benissimo che siamo in una fase delicata dove servono risposte concrete alle tante questioni aperte: disoccupazione giovanile e non, cassa integrazione, tensione sociale, crisi economica e di relazioni, gesti mossi da esasperazione estrema che riempiono le pagine dei giornali da anni, non solo quando il dramma si consuma davanti ai palazzi del potere come a Palazzo Chigi. 

In tante piazze del Primo Maggio abbiamo visto una vera e propria guerra tra poveri; lavoratori contro i pensionati, vertenze aziendali contro sindacati confederali, presunti giovani contro giovani vecchi. È il gioco che ingrassa il padrone, che rafforza il potere costituito, che indebolisce solo i più deboli, chi soffre davvero. Ovviamente le responsabilità del sindacato confederale sono evidenti, si prova in queste ore (con un accordo sulla rappresentanza che prevede il voto dei lavoratori) a recuperare anni di ritardo nella necessaria opera d’inclusione e democratizzazione del fare sindacato. Sul tema della frammentazione del mondo del lavoro, del precariato e del nuovo sfruttamento si è ancora troppo indietro, ma penso che la mia generazione non possa delegare a chi ha fatto sindacato nel secolo scorso la difficile sfida di cogliere la complessità del nostro tempo. Il sindacato è uno strumento non un fine. A modo nostro, parlo alla mia generazione, servirebbe appropriarsi della pratica sindacale (dal greco: fare giustizia insieme) come strumento di emancipazione per tutti e per ciascuno. Nessuno lo farà per noi, uscire dalla condizione di minorità in cui siamo costretti a vivere, tra disoccupazione e precariato dilagante, significa condividere un nuovo alfabeto di pratiche e obiettivi mirati alla trasformazione della società. 

In fondo le controparti sono sempre i padroni (si ancora e proprio loro) che sulle nostre divisioni continuano a godere, a sfruttare la prole (che oggi più che mai ha sempre più forme immateriali di produzione e accumulazione di capitale). Niente di nuovo; è l’eterno conflitto tra capitale e lavoro che ricorre, in forme nuove, sempre più subdole e feroci. Quest’anno il primo Maggio l’ho passato a Portella della Ginestra, dove la mafia sparò nel ’47 ammazzando indiscriminatamente donne, uomini e bambini. Tra quelle pietre di Portella mi sono chiesto: perché nel ’47, nell’immediato dopoguerra, con i contadini e i braccianti ridotti alla fame dalla mafia del Feudo, si decise comunque di festeggiare qui con musica popolare condividendo perfino quell’unico pezzo di pane? Perché dopo i drammatici e sanguinolenti fatti di Chicago nel 1886 il movimento internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici decise di indire una giornata di “festa” e di astensione dal lavoro? 

Forse perché quella giornata è divenuta il simbolo della dignità del lavoro, nonché di chi un lavoro non ce l’aveva, di chi era sfruttato e mal pagato, di chi era costretto a confrontarsi con la fame e guardava nella solidarietà tra i più deboli una possibilità di riscatto collettivo. Forse perché c’era un senso comune del “fare insieme giustizia”, forse perché di là dalle strumentalizzazioni e degli estetismi, la lotta era un orizzonte d’impegno quotidiano, concreto, mobilitante e solidale, non un cerimoniale da ripetere a memoria dove ognuno ha la sua parte in commedia. O si ricostruisce questo orizzonte, o il padrone sarà sempre più grasso e noi invece sempre più divisi, deboli e ininfluenti. 

Ultima modifica ilLunedì, 21 Ottobre 2013 15:41
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