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L'antifascistismo, un'ideologia di destra

L'antifascistismo, un'ideologia di destra

L’antifascismo può diventare uno strumento per legittimare politche reazionarie. Mentre la destra berlusconiana ha per un ventennio ignorato o mistificato il ruolo della Resistenza, il Partito Democratico può invece utilizzarla per trovare un fondamento storico alla propria azione politica. Ciò è possibile perché esso è erede del Partito che più di tutti si impegnò nella lotta clandestina e militare alla dittatura. 

Il nucleo fondante di questo “antifascismo di destra” è la difesa delle istituzioni, in quanto figlie di quel processo storico, e quindi dell’autorità costituita. Questo discorso arriva al punto di fare anche dell’Unione Europea un’erede della lotta per la democrazia, quando è invece noto che la Comunità Europea nacque in chiave anticomunista e, anche per quell’imprinting iniziale, continua a soffrire un deficit di legittimità. Una conseguenza diretta di questo uso della Resistenza è la creazione di un nuovo “arco costituzionale”, di cui sono parte i gruppi che legittimano le politiche di smantellamento dello stato sociale e di vendita dei beni pubblici e di cui non fanno invece parte le forze cosiddette “populiste”, che si oppongono pertanto a tali politiche. A fronte di tutto ciò, la sinistra e i movimenti sociali devono rifiutare di condividere il 25 aprile e la memoria storica con le forze di destra costruendo, invece, un immaginario che abbia le sue radici nei contenuti più radicali e avanzati della Resistenza, da prendere come base per il progetto di una nuova trasformazione democratica politica e sociale.

Per il Partito Democratico di Matteo Renzi, il prossimo 25 aprile rappresenta una sfida e un’opportunità per legittimare sul piano storico e culturale la propria azione politica. Si tratta di una sfida, perché l’azione del governo guidato da Renzi è in completa antitesi con lo spirito, gli obiettivi e le azioni dei partigiani; si tratta di un’opportunità perché i miti fondativi di una comunità cambiano a seconda delle circostanze storiche e lo spirito iniziale svanisce nel tempo, trasformandosi spesso in qualcos’altro. Ora che la “costituzione materiale” è ai suoi ultimi giorni dopo una lunga agonia cominciata nel 1992, è chiaro che anche il senso del 25 aprile completerà la sua trasformazione in un mito che sia compatibile con l’attuale sistema politico.

Dunque non si tratta affatto di un’operazione nuova: solo due anni fa Giorgio Napolitano e Mario Monti si lanciarono in un paragone tra l’unità delle forze antifasciste e quella tra il PD e il PdL che sosteneva il governo del Professore. A fronte di ciò che è successo nei 24 mesi che ci separano da allora, non è difficile immaginare cosa ci aspetterà nei giorni precedenti e successivi a questa data. Le alte autorità e i grandi giornali parleranno del “populismo” come nuovo fascismo e della necessità di combatterlo. Si ergeranno a difesa delle istituzioni europee e della legalità e criminalizzeranno ogni protesta. Celebreranno il nuovo arco costituzionale, composto dalle forze sostenitrici del governo Renzi, come coloro le quali, come nel 1946, si sono unite per salvare l’Italia dalla crisi economica e darle le cosidette “riforme” di cui essa necessiterebbe. È evidente il carattere tutto reazionario di questa operazione, ma proprio per questo sarebbe bene riflettere sul carattere che ha avuto e ha per la “sinistra” questa data e come fare in modo che essa non muoia affogata in un mare di retorica.

“Arco costituzionale” è un concetto che nella Prima Repubblica ha identificato i partiti che condividevano i valori dell’antifascismo. In esso vi erano dunque tutti i gruppi che, dal liberale al comunista, avevano compiuto un’attività antifascista durante il ventennio, oppure che avevano fatto parte del Comitato di Liberazione Nazionale tra il ’43 e il ‘45. Nel Parlamento, al di fuori dell’arco costituzionale si collocavano solo il Movimento Sociale Italiano e poi altri gruppi di destra. Poco importava che il ruolo dei liberali e dei democristiani fosse stato ridotto e che addirittura molti dirigenti non si fossero mobilitati affatto. La cosa più importante era la legittimazione della Resistenza come “secondo Risorgimento”, un momento in cui gli italiani avrebbero preso le armi in mano per abbattere una dittatura e costruire una democrazia parlamentare.

In realtà, una serie di fortunate coincidenze ha fatto in modo che la Costituzione italiana – talmente avanzata da aver garantito negli ultimi vent’anni una limitazione alle pretese bonapartistiche di Berlusconi – sia stata scritta e firmata poco prima che la rottura tra Unione Sovietica e Stati Uniti portasse all’isolamento dei comunisti. Fu “il vento del Nord” a determinare il carattere parlamentarista, proporzionalista e sociale della Costituzione. È certo che, se la Costituzione fosse stata redatta anche pochi mesi più tardi, il suo contenuto sarebbe stato ben diverso. E infatti non si può negare che, dietro all’apparente celebrazione dei partigiani, i tentativi per abbattere quel sistema vi siano stati regolarmente, con azioni di carattere legale e non. La legge elettorale truffa del ’53, la repressione degli scioperi, i tentativi golpisti sono tutti nati dentro le istituzioni e contro di esse, le stesse che venivano celebrate ad ogni 25 aprile. Come è noto, è anche all’interno degli apparati dello Stato che si annidano le responsabilità delle stragi compiute tra il ’69 e l’84.

Tuttavia, per un trentennio il mito fondativo della Repubblica non è stato seriamente intaccato. I comunisti e i socialisti lo rivendicavano forti del loro alto consenso, dentro la DC vi era un ampio settore sinceramente antifascista, partigiani liberalsocialisti di “Giustizia e Libertà” erano diventati tra gli intellettuali di primo piano del paese e soprattutto vi erano loro, i partigiani, vivi, che ricordavano cosa era stato il fascismo, il carcere, la lotta in montagna, le azioni militari, le rappresaglie, l’insurrezione. L’antifascismo è stato dunque un mito di sinistra iniettato in una Repubblica guidata da uomini che non avrebbero disdetto tendenze autoritarie. I comunisti non erano riusciti a prendere il potere, ma potevano rivendicare che quell’Italia l’avevano costruita anche loro con il sangue dei loro militanti e che quella Costituzione era il lascito più grande di vent’anni di resistenza. 

La difesa delle istituzioni repubblicane, però, divenne appoggio a priori – strano per un partito d’opposizione e che aveva comunque radici rivoluzionarie – come dimostra il sostegno del PCI alla repressione dei movimenti negli anni ’70. Successivamente, caduto il Muro, il gruppo dirigente del nuovo PDS sposò le inchieste del pool di Milano contro la classe politica presentandosi come un “partito dalle mani pulite”, ma l’ala migliorista capeggiata da Napolitano, allora Presidente della Camera, vide in esse azioni destabilizzanti, un’invasione di campo della magistratura contro il Parlamento. Da allora è quest’ultima tendenza che ha prevalso nella cultura politica del PDS, e poi dei DS e del PD: le istituzioni non sono più difese in quanto strumenti di cambiamento sociale, ma in quanto autorità. Questo gruppo politico ha abbandonato via via il sostegno per un sistema elettorale proporzionale e per un primato del parlamento sul governo, ha rinunciato ad applicare i contenuti sociali più avanzati della Costituzione, altri li ha di fatto violati, ma questo stesso gruppo politico usa ancora il 25 aprile come mito fondativo della Repubblica. Non è detto che questa operazione riesca – come dicevamo, è una sfida – ma l’operazione è in corso, perché un mito può sempre essere utile.

Berlusconi ha fondamentalmente ignorato il 25 aprile per evitare di manifestare apertamente la sua simpatia verso il fascismo. Tuttavia, nel 2009, nella cosiddetta fase del “dialogo” tra lui e il PD, Berlusconi provò a usare la Resistenza per legittimarsi in quanto “riformatore” e “pacificatore” a fronte della presunta “guerra” della magistratura contro di lui. Si ricorderà in proposito un discorso nella cittadina di Onna, vicino L’Aquila, dove l’ex Presidente del Consiglio, con fazzoletto tricolore al collo, si espresse in ricordo della lotta partigiana ma cercando di voler rendere tale data come una festa di tutti, anche di chi combattè al fianco dei nazisti. Nonostante ciò, il tentativo non andò a buon fine e così la destra tornò a denunciare i cosiddetti “crimini” dei partigiani, le rappresaglie successive alla Liberazione, le finalità sovversive dei comunisti, e a dar voce ai repubblichini di Salò. È importante comunque capire che quel tentativo di Berlusconi a Onna non era affatto campato in aria: il modo con cui la destra gollista francese rivendica tanto la Rivoluzione quanto la Resistenza spiega come miti alla radice progressisti possano essere usati per finalità reazionarie. E anche in Italia Mussolini ha costantemente rimarcato il ruolo del Risorgimento, così come vi furono partigiani di destra, come Sogno e Pacciardi, che erano antifascisti almeno quanto anticomunisti.

Il PD però ha lo straordinario vantaggio di essere una forza politica che rivendica ancora oggi, a 70 anni dalla fine della guerra, un collegamento storico e finanche filiale con chi prese le armi contro il fascismo. Per questo motivo il quasi 90enne Napolitano può permettersi di dettare la linea su cosa vuol dire essere antifascisti oggi. È il “populismo” il nemico principale e contro di esso si devono unire tutte le forze garanti della stabilità e della cornice di decisioni europee. La penosa scena in cui i deputati del PD, del PdL e purtroppo anche di SeL cantano “Bella Ciao” in parlamento contro quelli del Movimento 5 Stelle è una chiara dimostrazione di uno stravolgimento culturale del senso di una giornata nata per ricordare di chi si batteva per la libertà, la stessa che oggi chi ci governa si mette sotto i piedi.

Il 25 aprile rischia di diventare una festa della retorica, una penosa esaltazione della stabilità e del presente, un inno alla repressione contro tutti coloro i quali lottano per una democrazia reale. La mutazione genetica colpisce tutti, finanche l’ANPI, soggetto ormai appendice del PD, che è arrivata a chiedere ai partiti di escludere condannati dalle liste – una scelta che difficilmente avrebbe visto il consenso di Sandro Pertini e Antonio Gramsci. Da parte dei movimenti e della sinistra, però, il 25 aprile e l’antifascismo non vanno abbandonati, ma anzi bisogna ricominciare a portare avanti una battaglia di riappropriazione del suo senso più radicale, proprio per marcare la differenza con chi oggi la usa con i peggiori fini. Questa azione si può suddividere in tre principi.

In primo luogo, bisognerebbe smetterla di condividere lo stesso luogo con i soggetti che lavorano per manomettere la Costituzione Italiana. Non c’è più spazio per la “foto di famiglia” della sinistra italiana, da riscattare ad ogni aprile in nome degli ideali democratici. Il fatto che i nonni o i bisnonni dei militanti del PD abbiano fatto la Resistenza non ha più alcun valore.

In secondo luogo, è necessario respingere la loro dicotomia “democratici vs populisti”. Il primo nemico dei veri oggi democratici è la devastazione dello stato sociale, la disoccupazione giovanile al 42%, la vendita di beni pubblici, il dominio delle banche e delle grandi imprese nei processi decisionali. Senza ignorare affatto l’avanzare del neofascismo, bisogna denunciare che sono state proprio le politiche neoliberiste a permettere il loro avanzamento e che non c’è nessuna democrazia se non vi sono diritti sociali garantiti.

Infine, occorre rivendicare il carattere radicale della Resistenza. Per anni ci si è sforzati nel voler dimostrare che esso è stato un processo che ha visto la presenza di comunisti e socialisti quanto di cattolici, liberali e monarchici. Pur senza negare i meriti di quest’ultimi, ha alla fine ragione Gianpaolo Pansa quando, nei suoi infami libri, fa emergere chiaramente che la Resistenza l’hanno fatta principalmente i comunisti, che avevano imparato a combattere in Spagna e Unione Sovietica, che erano parte di una struttura efficiente e disciplinata, che volevano costruire il socialismo. Sì, migliaia di donne e uomini presero un fucile e andarono in montagna. Non si accontentavano di rimettere al suo posto il Re d’Italia e non avevano fiducia nelle liberaldemocrazie che avevano favorito il fascismo e avevano causato una crisi peggiore di quella attuale. Volevano una società diversa, dove ogni uomo e donna potessero attraverso il proprio lavoro trovare una liberazione fisica, intellettuale e umana. La chiamavano socialismo e non c’era nulla di cui vergognarsi. Abbandonando la retorica possiamo ancora imparare molto da loro.

Ultima modifica ilSabato, 18 Aprile 2015 18:52
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