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L'editoriale del giorno prima

L'editoriale del giorno prima



Si chiude questa campagna elettorale, che è stata abbastanza strana, per il sottoscritto. Per una serie di ragioni, primariamente familiari, da ormai diversi mesi sono stato costretto a ridurre al minimo la militanza. Posso dare una mano in maniera molto limitata, partecipo a qualche iniziativa in giro, poco altro, sicuramente una situazione incompatibile con un impegno di militanza come sono abituato a intenderlo. Lo dico perché ho sempre odiato chi parla, giudica e non fa, e ora che, speriamo solo temporaneamente, mi trovo a poter fare ben poco, ho più di qualche remora a giudicare da spettatore quello che altri stanno facendo da protagonisti. Se quindi sono meno netto del solito, nell’analisi, è appunto perché mi mette tremendamente a disagio parlare, per una volta, dal divano e non dalla strada. Dico la mia ora, in anticipo, non perché voglia fare il figo e fingere di avere una sfera di cristallo, ma perché credo che alcuni dati politici siano già tali, a prescindere dal risultato elettorale. Ci sono cose che, al sottoscritto, sembra di aver capito, e che non cambieranno con un punto di percentuale in più o in meno a questa lista o a quest’altra. Le sintetizzo molto in breve per chi non ha voglia di arrivare in fondo: il centrosinistra è (quasi) morto, la sinistra non sta tanto bene, Potere al Popolo a prescindere dal risultato ha indicato almeno in parte la strada, Liberi e Uguali speriamo ci dia qualche buon parlamentare ma non credo ci possa dare tanto altro, il paese va a destra, il M5S resta la principale opposizione, organizziamoci strada per strada.

Il centrosinistra è (quasi) morto, ma la sinistra non sta tanto bene

Il primo di questi dati è che il centrosinistra, come alcuni di noi sostengono da un bel po’, non esiste più. Negli spazi tradizionali dell’elettorato popolare e democratico, nei luoghi del lavoro dipendente, nelle scuole, nelle università, nelle organizzazioni sociali, ecc., la quota di persone che dice “Non voto più il Pd” è gigantesca. Gigantesca, senza precedenti. Poi molti si faranno convincere all’ultimo dal voto utile, oppure voteranno la lista civetta di Emma Bonino (quella di prodiani, socialisti e verdi no, mi sa che non la vota nessuno), però tanti, tanti, tanti, mai così tanti elettori di sinistra, lavoratori, popolo, non voteranno Pd. Il divorzio del centrosinistra dal suo elettorato, avviato da tempo e reso evidentissimo dal referendum del 4 dicembre 2016, si è manifestato ancora più nettamente in questa campagna elettorale. Poco importa, da questo punto di vista, se il Pd prenderà il 20%, il 22%, o il 25%: di sicuro quella roba lì non è più, neanche materialmente e numericamente, l’erede di alcunché. Attenzione: ciò non significa affatto, come hanno scritto affrettatamente alcuni, che siamo di fronte alla “pasokizzazione” del Pd. Il Pd resterà, con ogni probabilità, il secondo partito del paese, il più votato dagli elettori che si considerano di sinistra, democratici, progressisti, e il primo candidato alla guida del prossimo governo. L’Italia non è la Grecia né la Francia, da questo punto di vista, nel bene e nel male. Il Pd non ha guidato il paese nel baratro come successo in Grecia e non ha deluso grandi speranza come in Francia, probabilmente perché non le aveva mai generate. La situazione sembra piuttosto simile a quella spagnola o tedesca: la complicità con l’austerità e la svolta neoliberista fanno perdere consenso, ma la destra fa (giustamente) paura e un pezzo significativo di popolazione non è disposto a rinunciare a ciò che considera, a torto o a ragione, un argine in difesa della stabilità economica e democratica. Detto tutto questo, il fatto resta: il centrosinistra, come ampia alleanza elettorale, espressione di un blocco sociale, che si candida credibilmente a vincere le elezioni e governare il paese, oggi, non c’è più.
Non si tratta automaticamente di una buona notizia. La debolezza del Pd, lo scontento diffuso nel suo elettorato e di conseguenza la sua permeabilità a proposte interessanti hanno aperto grandi spazi alle forze di alternativa. Ma non sembra, ad oggi, che quegli spazi siano stati occupati. L’operazione Liberi e Uguali, che doveva servire proprio a quello, non ha sfondato. Non significa che non possa avere un buon risultato, in termini elettorali, e che non possa portare in parlamento una pattuglia di deputati e senatori sicuramente utili a ottime battaglie di resistenza (mi rifiuto di credere, ad esempio, che chi conosce Claudio Riccio anche solo un centesimo di come lo conosco io pensi davvero che la sua presenza nella prossima Camera non sarebbe un’ottima notizia). Però non ha sfondato. Pur avendo costruito un programma che riprende in gran parte le idee e i contenuti dei movimenti e della sinistra radicale (imparagonabilmente più radicale di quello del centrosinistra da cui alcuni tra i promotori di Leu provengono), non è riuscita a risultare credibile a una parte importante dell’elettorato di sinistra. E pur continuando a rassicurare, a parlare di centrosinistra, a ripetere il mantra conservatore della responsabilità, è sembrata troppo simile alla solita lista della sinistra radicale per un pezzo di elettorato del centrosinistra. Senza contare che, ormai, certe distinzioni funzionano fino a un certo punto: il governo dell’austerità e il referendum del 4 dicembre hanno fatto saltare molti degli schemi tradizionali dell’appartenenza, e il M5S non appare più un’alternativa impossibile per l’elettorato di sinistra. L’idea che per parlare alla base del centrosinistra ci fosse bisogno di farlo attraverso i suoi ex vertici (Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani, Enrico Rossi, e così via) si è dimostrata falsa. Può far sorridere sentirselo dire da chi, come il sottoscritto, ha sempre combattuto questa prospettiva. Però anche chi ne era convinto, legittimamente, dovrebbe avere l’onesta, oggi, di guardare la realtà dei fatti. La proposta politica di Liberi e Uguali, pur guidata da un autorevole e moderato uomo delle istituzioni, pur sfrondata da ogni possibilità profumo di estremismo e radicalità, pur continuamente etichettata come “di centrosinistra” per parlare a chi il centrosinistra ha votato per 20 anni, non è diventata una proposta di massa. Non sappiamo quanti voti prenderà, speriamo abbastanza per mandare in parlamento quei buoni deputati e senatori di cui sopra (seppure insieme ad alcuni che, francamente, hanno ormai ben poco a che spartire con quello che dovrebbe essere un partito di sinistra del 2018), però in ogni caso non ha sfondato. Sinistra Italiana ha sbagliato, e, ancora, farà sorridere sentirselo dire da chi lo diceva anche prima, e però va detto perché purtroppo è vero: ha sbagliato a scegliere quella strada e a non scommettere sulla capacità propria e dei propri simili di costruire qualcosa che sapesse parlare direttamente agli elettori, anche a quelli del Pd, senza bisogno della mediazione della Ditta, e sull’esistenza di uno spazio politico per l’alternativa.

 

Pap, almeno in parte, ha indicato la strada; Leu, al massimo, ci darà qualche buon parlamentare

Quello spazio, e anche qui è sgradevole darsi ragione da soli ma un po’ tocca, esisteva ed esiste. Non so quanto prenderà Potere al Popolo, ma è ragionevole sostenere che non prenderà una percentuale da prefisso telefonico. È una forza piccola, vedremo quanto piccola, ma è una forza, che è riuscita a condurre una campagna elettorale più che dignitosa, a convincere delle persone, e a giocarsela per entrare in parlamento. Anche solo l’esistenza di questa piccola ma significativa forza politica dimostra che lo spazio per l’alternativa c’era, che non è mai stato vero che Liberi e Uguali era l’unica proposta politica possibile a sinistra, che si poteva (e si doveva) provare a fare qualcosa di diverso, di più coraggioso, di più incisivo. E se alla fine la distanza tra Liberi e Uguali e Potere al Popolo, nelle urne, non sarà poi così enorme (magari lo sarà, lo vedremo, ma magari no), vorrà dire che si poteva fare la differenza e ribaltare i rapporti di forza. In quanto a “Potere al Popolo”, mi sono permesso di definirlo, fin dall’inizio, il coraggioso tentativo di fare la cosa giusta nei tempi sbagliati. In molti ripetiamo quasi ossessivamente da anni che c’è bisogno di azzerare le rendite di posizione dei soggetti autoreferenziali della sinistra in un processo di partecipazione popolare che si rivolga direttamente alle maggioranze sociali che, in questo paese, vogliono un lavoro, una casa e una pensione. La sinistra è stata sconfitta nei suoi simboli e nei suoi apparati, non nei suoi contenuti, e se si riesce a superare quei simboli e quegli apparati, c’è assolutamente lo spazio per parlare direttamente alle persone e convincerle. Se qualcuno, come in questo caso, prova a fare esattamente questo, anche se si tratta di chi nel tempo si è più volte rifiutato di farlo, perché teneva troppo al proprio simbolo, va comunque apprezzato, perché resta la cosa giusta. Chiaramente restano le perplessità sulla possibilità di farla in 4 mesi di campagna elettorale. Tant’è che ora Potere al Popolo si pone l’obiettivo di passare lo sbarramento, esattamente come tutte le liste della sinistra radicale che l’hanno preceduta, segno che le ambizioni maggioritarie sono rimandate al futuro. È evidente che se, come sembra dai dati dell’astensione, si può arrivare al 3% anche con gli 800 mila voti che prese l’impresentabile Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia 5 anni fa, l’obiettivo di essere una forza popolare e di massa è ben lontano. E però, per quanto per forza limitata, l’avventura di Potere al Popolo dimostra comunque una serie di cose. Primo, come si diceva, che lo spazio per l’alternativa c’è. Secondo, che la rinuncia all’ossessione identitaria per la parola “sinistra” che tanto ha caratterizzato alcuni in passato (fa un po’ sorridere che sia Rifondazione Comunista sia Sinistra Italiana, partiti storicamente caratterizzati da un feticismo per la parola sinistra che rendeva per loro intollerabile non averla in un simbolo, oggi siano parte di liste, Potere al Popolo e Liberi e Uguali, che non si chiamano “sinistra”), apre oggi molti più spazi di quanti ne chiuda, così come la scelta di un linguaggio diretto, di parole d’ordine concrete, di facce nuove. Terzo, che pratiche spesso liquidate come “da assemblea studentesca”, a sinistra, come la partecipazione diretta delle persone alla scelta dei candidati, oggi forniscono una quota di credibilità che è un capitale preziosissimo, non tanto direttamente in termini elettorali, ma in termini di coinvolgimento, entusiasmo e orgoglio della militanza sì. E infatti il quarto punto è la militanza: piccola, limitata, invecchiata, incarognita, piena di rancori, con tutti i suoi limiti, non migliore della dirigenza, ma l’esperienza di Potere al Popolo dimostra che esiste ancora in questo paese una riserva di militanza, nei partiti, nel sindacato, nelle associazioni, nei movimenti, e che è disposta a farsi richiamare in servizio se si mettono un attimo da parte apparati e cautele e le si promette una battaglia a viso aperto. Chiaramente c’è anche l’altra faccia della medaglia: quella militanza è il mio mondo, ma non è il mondo. Ciò che funziona dentro quel recinto non funziona automaticamente fuori, anzi, altrimenti non saremmo qui a parlare del 3% ma del 30%. Spesso ciò che aiuta a raggiungere il 3% diventa un ostacolo per il raggiungimento del 30%, e innamorarsi delle ricette che entusiasmano la militanza è spesso una cattiva idea nel medio termine. La lezione del populismo è, prima di tutto, obbligarsi a dubitare dei propri istinti di militante e a metterli continuamente a verifica nel rapporto diretto con le persone, senza chiaramente rinunciarvi. In questo c’è ancora tanto da lavorare. Tra evocare il popolo e organizzarlo c'è un abisso di lavoro politico che evidentemente non può essere una campagna elettorale a colmare. Potere al Popolo ha provato contemporaneamente a essere la lista popolare e populista delle maggioranze sociali e la lista militante delle lotte e della sinistra radicale, ed è stata spesso forzata dalle contingenze della campagna elettorale a far prevalere il secondo aspetto, che paga più nel breve termine, al primo, che è più strategico per il futuro. Però, intanto, una militanza entusiasta è una risorsa, soprattutto nel vuoto di partecipazione di questa insipida campagna elettorale. Certo, sarebbe paradossale se domenica notte, a sinistra, facessimo i caroselli in strada per aver preso gli stessi 800 mila voti che 5 anni fa, all’epoca di Rivoluzione Civile, erano il segno di una sconfitta storica. Soprattutto se contemporaneamente Liberi e Uguali non dovesse prendere molto più del milione e 100 mila voti che prese Sel 5 anni fa. Sarebbe il segnale che, in 5 anni, a sinistra, mentre il Pd crollava, non si muoveva una foglia, e che le percentuali crescono solo perché sempre meno gente, purtroppo, vota. E quando la sinistra fa il tifo per la bassa affluenza, cioè ormai sempre più spesso, vuol dire che davvero c’è qualcosa che non va.
Ma sarebbe fuorviante, per come la vedo io, utilizzare i risultati di domenica come cartina di tornasole delle varie proposte politiche. Non sto dicendo, ovviamente, che i numeri non contino: è chiaro che se Potere al Popolo avrà preso solo gli 800 mila che votarono perfino Antonio Ingroia vorrà dire che avrà avuto meno capacità di rivolgersi, appunto, al popolo, rispetto al caso in cui ne prenda il doppio, per non parlare della malaugurata ipotesi che ne prenda la metà. Ma non credo che sia questo il punto principale da analizzare. Credo che esistano dati politici che vanno oltre il risultato elettorale. Quando dicevo, prima, che di Potere al Popolo, quando nacque, non mi convincevano i tempi, lo dicevo perché sono talmente convinto della necessità della svolta populista, a sinistra, che sono terrorizzato dal fatto che, fatta in maniera affrettata e con le forzature che una campagna elettorale impone, possa andar male e quindi venire considerata sbagliata e fallimentare. Ecco, fatemelo dire ora, prima delle elezioni: anche se Potere al Popolo dovesse essere sconfitta, cioè non superare lo sbarramento (perché quando ti candidi al parlamento e non ci entri, hai perso, purtroppo), le lezioni che citavo prima resterebbero validissime al 100%. Vorrebbe solo dire che non c’è stato abbastanza tempo perché dessero i frutti, o che sono stati comprensibilmente commessi degli errori, o che la fretta e le contingenze della campagna elettorale non hanno permesso di svilupparle nella maniera giusta. Ma quelle lezioni restano, e sono centrali, perché non sono il frutto estemporaneo di una campagna elettorale più o meno fortunata, ma sono la linea di tendenza di tutto ciò che lavora in maniera proficua nella società italiana: quella di coniugare radicalità e pragmatismo, nettezza comunicativa e partecipazione democratica integrale, creazione di comunità e capacità di aggregare le persone oltre le appartenenze precostituite. Una linea di tendenza che è visibile nelle mille esperienze di mutualismo che caratterizzano questo paese, nei conflitti che lo attraversano, nelle coalizioni civiche che governano importanti città, in ciò che resta delle organizzazioni sociali e dell’associazionismo. Non sarebbe il mancato raggiungimento di uno sbarramento a cancellare tutto questo. E chiaramente questo vale anche se Potere al Popolo dovesse andare molto bene, perché quando ti poni l’obiettivo di unire e organizzare la maggioranza di questo paese che vive in basso, e ti fermi a una quota di testimonianza del 3% o poco più, magari entrando in parlamento grazie alla bassa affluenza, significa che sei ben lontano dall’aver unito ciò che il neoliberismo ha diviso, che hai ancora tanto da camminare domandando, per dirla alla zapatista, prima di ricostruire davvero l’unità popolare di cui c’è bisogno, e che devi essere pronto a rimetterti completamente in discussione, di fronte al popolo di cui parli, mettendo al centro della tua chi ancora non c’è, chi manca, chi dev’essere coinvolto.
La stessa attenzione a concentrarsi sull’analisi politica e non solo sui dati elettorali dovrebbe valere, beninteso, anche per “Liberi e Uguali”. Anche qui, è evidente che i numeri contano: se Leu arrivasse, a un risultato che va ben oltre il milione e centomila voti di Sel, in corrispondenza di un calo dell’affluenza, vorrebbe dire che l’operazione di recuperare a sinistra un pezzo dell’elettorato del Pd sarebbe riuscita. E non si tratta di un dato irrilevante, perché sottrarre le persone, in continuità con la battaglia referendaria del 4 dicembre 2016, una per una, dal giogo di un Pd ormai strutturalmente neoliberista, è un'operazione di portata storica e assolutamente meritoria. Ma sarebbe riuscita in maniera estremamente parziale e limitata, rispetto allo scotto pagato all’ingombrante leadership del centrosinistra che fu. E, personalmente, mi lascerebbe l’impressione che quel risultato si sarebbe comunque potuto raggiungere anche senza caricarsi personaggi e pratiche di un mondo che, piaccia o non piaccia, non esiste più. Poi magari nel frattempo si sarebbero eletti dei buoni deputati e senatori, chiaramente, dettaglio non certo secondario trattandosi di elezioni per il parlamento, e per un parlamento che si annuncia tra i più a destra della storia del paese. Non credo di essere l'unico che ha qualche brivido a pensare allo scenario in cui, mentre noi ci dividiamo tra chi è più rivoluzionario di chi, Salvini diventa ministro dell'interno e non c'è nessuna voce democratica a fargli opposizione in parlamento. Però fatico a immaginare che quei deputati e senatori sarebbero sorretti da un progetto politico coeso e credibile e che non risorgerebbe presto, fisiologicamente, la frattura tra chi fa politica per cambiare il mondo e chi per governare l’esistente. Se il programma di Liberi e Uguali è un programma ineccepibilmente di sinistra, a mancare è la prospettiva a medio termine: dove si vuole andare a parare? L’obiettivo è costruire una forza di governo indipendente o andare a giocare le proprie carte in un rinnovato rapporto col Pd una volta silurato Renzi? È evidente come in Leu ci sia chi risponderebbe in un modo e chi nell’altro, e questa contraddizione di fondo ha attraversato tutta la campagna elettorale, rendendo difficile dare un messaggio chiaro e comprensibile agli elettori. L’ambiguità costa cara, in questa fase politica, in particolare se non c’è un capitale di credibilità preesistente a cui attingere. Difficile pensare che si possa andare avanti tanto, dopo le elezioni, senza sciogliere questa contraddizione.
Si tratta, del resto, di una condizione che riguarda tutto il campo dell’alternativa. I nodi politici su cui Leu mantiene ambiguità, in Pap vengono spesso nascosti sotto il tappeto della radicalità. Quando non si sa bene come affrontare una questione, aggirarla con il posizionamento più radicale possibile è probabilmente una soluzione migliore che aggirarla in maniera contraddittoria. Ma, purtroppo, sempre di aggiramento si tratta. La necessità della ripresa di un lavoro di elaborazione e della costruzione di un pensiero che sappia affrontare i nodi politici, invece di limitarsi a schivarli o a costruirci sopra un posizionamento radicale, resta centrale per tutti.

 

Il paese va a destra, il M5S è l’opposizione di sistema

Tutto questo, chiaramente, avviene nel contesto di un’elezione che molto probabilmente non avrà un vincitore netto, che vedrà un netto spostamento a destra dell’asse del dibattito e della composizione parlamentare, e in cui il Movimento Cinque Stelle manterrà, per la seconda legislatura consecutiva, il ruolo di principale opposizione e alternativa al quadro di governo. Nel decimo anno della crisi, a quasi 7 anni dalla cacciata di B., la sinistra di questo paese si presenterà nel nuovo parlamento, nella migliore delle ipotesi, forte di poco più di due milioni di voti, con scarsissime se non nulle possibilità di condizionare l’evoluzione del quadro politico. Schiacciata dal dilemma tra la sfida populista che provi a contendere al M5S il campo dell’opposizione e dell’alternativa e il recupero “nel bosco”, come direbbe Bersani, degli elettori delusi del centrosinistra, la sinistra di questo paese non è riuscita, in questa legislatura, a fare né una cosa né l’altra, provando a recuperare in campagna elettorale con due operazioni nate a poche settimane dalle elezioni, una per fronte. Nel frattempo, nel paese, qualcosa si muove: il movimento delle donne, i sussulti intorno al referendum costituzionale, la ripresa dei conflitti del lavoro (sia nelle forme tradizionali sia in quelle nuove), l’ondata di reazione antifascista che ha seguito i fatti di Macerata segnalano che è la politica italiana a essere immobile, non certo la società. E segnalano che il tempo della delega dell’opposizione al Movimento Cinque Stelle ha le ore contate: la rappresentazione mediatica del conflitto sociale che i grillini hanno offerto, finalmente, inizia non bastare più. Il ruolo anestetizzante ricoperto dal M5S non è eterno. Ma, attenzione, ciò non vale solo a sinistra, ma anche e soprattutto a destra. Se ci possiamo aspettare una ripresa del conflitto sociale, nei prossimi mesi, dobbiamo anche mettere in conto che la destra radicale più o meno neofascista, per quanto le sue rappresentazioni elettorali restino risibili, è destinata a diventare un attore sociale la cui presenza non può essere ignorata. Si apre una fase in cui si dovranno fare tante cose insieme: ci sarà da costruire politicamente, provando a mettere a frutto ciò che è avvenuto in questi mesi, ma ci sarà anche e soprattutto da dare battaglia nella società, per contendere ai due grandi mostri che avanzano inesorabilmente (la destra e la rassegnazione) ogni singolo metro, ogni singolo voto, ogni singolo cuore. Ci sarà da organizzarsi, strada per strada.

Il centrosinistra è (quasi) morto, ma la sinistra non sta tanto bene

Il primo di questi dati è che il centrosinistra, come alcuni di noi sostengono da un bel po’, non esiste più. Negli spazi tradizionali dell’elettorato popolare e democratico, nei luoghi del lavoro dipendente, nelle scuole, nelle università, nelle organizzazioni sociali, ecc., la quota di persone che dice “Non voto più il Pd” è gigantesca. Gigantesca, senza precedenti. Poi molti si faranno convincere all’ultimo dal voto utile, oppure voteranno la lista civetta di Emma Bonino (quella di prodiani, socialisti e verdi no, mi sa che non la vota nessuno), però tanti, tanti, tanti, mai così tanti elettori di sinistra, lavoratori, popolo, non voteranno Pd. Il divorzio del centrosinistra dal suo elettorato, avviato da tempo e reso evidentissimo dal referendum del 4 dicembre 2016, si è manifestato ancora più nettamente in questa campagna elettorale. Poco importa, da questo punto di vista, se il Pd prenderà il 20%, il 22%, o il 25%: di sicuro quella roba lì non è più, neanche materialmente e numericamente, l’erede di alcunché. Attenzione: ciò non significa affatto, come hanno scritto affrettatamente alcuni, che siamo di fronte alla “pasokizzazione” del Pd. Il Pd resterà, con ogni probabilità, il secondo partito del paese, il più votato dagli elettori che si considerano di sinistra, democratici, progressisti, e il primo candidato alla guida del prossimo governo. L’Italia non è la Grecia né la Francia, da questo punto di vista, nel bene e nel male. Il Pd non ha guidato il paese nel baratro come successo in Grecia e non ha deluso grandi speranza come in Francia, probabilmente perché non le aveva mai generate. La situazione sembra piuttosto simile a quella spagnola o tedesca: la complicità con l’austerità e la svolta neoliberista fanno perdere consenso, ma la destra fa (giustamente) paura e un pezzo significativo di popolazione non è disposto a rinunciare a ciò che considera, a torto o a ragione, un argine in difesa della stabilità economica e democratica. Detto tutto questo, il fatto resta: il centrosinistra, come ampia alleanza elettorale, espressione di un blocco sociale, che si candida credibilmente a vincere le elezioni e governare il paese, oggi, non c’è più.

Non si tratta automaticamente di una buona notizia. La debolezza del Pd, lo scontento diffuso nel suo elettorato e di conseguenza la sua permeabilità a proposte interessanti hanno aperto grandi spazi alle forze di alternativa. Ma non sembra, ad oggi, che quegli spazi siano stati occupati. L’operazione Liberi e Uguali, che doveva servire proprio a quello, non ha sfondato. Non significa che non possa avere un buon risultato, in termini elettorali, e che non possa portare in parlamento una pattuglia di deputati e senatori sicuramente utili a ottime battaglie di resistenza (mi rifiuto di credere, ad esempio, che chi conosce Claudio Riccio anche solo un centesimo di come lo conosco io pensi davvero che la sua presenza nella prossima Camera non sarebbe un’ottima notizia). Però non ha sfondato. Pur avendo costruito un programma che riprende in gran parte le idee e i contenuti dei movimenti e della sinistra radicale (imparagonabilmente più radicale di quello del centrosinistra da cui alcuni tra i promotori di Leu provengono), non è riuscita a risultare credibile a una parte importante dell’elettorato di sinistra. E pur continuando a rassicurare, a parlare di centrosinistra, a ripetere il mantra conservatore della responsabilità, è sembrata troppo simile alla solita lista della sinistra radicale per un pezzo di elettorato del centrosinistra. Senza contare che, ormai, certe distinzioni, funzionano fino a un certo punto: il governo dell’austerità e il referendum del 4 dicembre hanno fatto saltare molti degli schemi tradizionali dell’appartenenza, e il M5S non appare più un’alternativa impossibile per l’elettorato di sinistra. L’idea che per parlare alla base del centrosinistra ci fosse bisogno di farlo attraverso i suoi ex vertici (Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani, Enrico Rossi, e così via) si è dimostrata falsa. Può far sorridere sentirselo dire da chi, come il sottoscritto, ha sempre combattuto questa prospettiva. Però anche chi ne era convinto, legittimamente, dovrebbe avere l’onesta, oggi, di guardare la realtà dei fatti. La proposta politica di Liberi e Uguali, pur guidata da un autorevole e moderato uomo delle istituzioni, pur sfrondata da ogni possibilità profumo di estremismo e radicalità, pur continuamente etichettata come “di centrosinistra” per parlare a chi il centrosinistra ha votato per 20 anni, non è diventata una proposta di massa. Non sappiamo quanti voti prenderà, speriamo abbastanza per mandare in parlamento quei buoni deputati e senatori di cui sopra (seppure insieme ad alcuni che, francamente, hanno ormai ben poco a che spartire con quello che dovrebbe essere un partito di sinistra del 2018), però in ogni caso non ha sfondato. Sinistra Italiana ha sbagliato, e, ancora, farà sorridere sentirselo dire da chi lo diceva anche prima, e però va detto perché purtroppo è vero: ha sbagliato a scegliere quella strada e a non scommettere sulla capacità propria e dei propri simili di costruire qualcosa che sapesse parlare direttamente agli elettori, anche a quelli del Pd, senza bisogno della mediazione della Ditta, e sull’esistenza di uno spazio politico per l’alternativa.

 

Pap, almeno in parte, ha indicato la strada; Leu, al massimo, ci darà qualche buon parlamentare

Quello spazio, e anche qui è sgradevole darsi ragione da soli ma un po’ tocca, esisteva ed esiste. Non so quanto prenderà Potere al Popolo, ma è ragionevole sostenere che non prenderà una percentuale da prefisso telefonico. È una forza piccola, vedremo quanto piccola, ma è una forza, che è riuscita a condurre una campagna elettorale più che dignitosa, a convincere delle persone, e a giocarsela per entrare in parlamento. Anche solo l’esistenza di questa piccola ma significativa forza politica dimostra che lo spazio per l’alternativa c’era, che non è mai stato vero che Liberi e Uguali era l’unica proposta politica possibile a sinistra, che si poteva (e si doveva) provare a fare qualcosa di diverso, di più coraggioso, di più incisivo. E se alla fine la distanza tra Liberi e Uguali e Potere al Popolo, nelle urne, non sarà poi così enorme (magari lo sarà, lo vedremo, ma magari no), vorrà dire che si poteva fare la differenza e ribaltare i rapporti di forza. In quanto a “Potere al Popolo”, mi sono permesso di definirlo, fin dall’inizio, il coraggioso tentativo di fare la cosa giusta nei tempi sbagliati. In molti ripetiamo quasi ossessivamente da anni che c’è bisogno di azzerare le rendite di posizione dei soggetti autoreferenziali della sinistra in un processo di partecipazione popolare che si rivolga direttamente alle maggioranze sociali che, in questo paese, vogliono un lavoro, una casa e una pensione. La sinistra è stata sconfitta nei suoi simboli e nei suoi apparati, non nei suoi contenuti, e se si riesce a superare quei simboli e quegli apparati, c’è assolutamente lo spazio per parlare direttamente alle persone e convincerle. Se qualcuno, come in questo caso, prova a fare esattamente questo, anche se si tratta di chi nel tempo si è più volte rifiutato di farlo, perché teneva troppo al proprio simbolo, va comunque apprezzato, perché resta la cosa giusta. Chiaramente restano le perplessità sulla possibilità di farla in 4 mesi di campagna elettorale. Tant’è che ora Potere al Popolo si pone l’obiettivo di passare lo sbarramento, esattamente come tutte le liste della sinistra radicale che l’hanno preceduta, segno che le ambizioni maggioritarie sono rimandate al futuro. È evidente che se, come sembra dai dati dell’astensione, si può arrivare al 3% anche con gli 800 mila voti che prese l’impresentabile Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia 5 anni fa, l’obiettivo di essere una forza popolare e di massa è ben lontano. E però, per quanto per forza limitata, l’avventura di Potere al Popolo dimostra comunque una serie di cose. Primo, come si diceva, che lo spazio per l’alternativa c’è. Secondo, che la rinuncia all’ossessione identitaria per la parola “sinistra” che tanto ha caratterizzato alcuni in passato (fa un po’ sorridere che sia Rifondazione Comunista sia Sinistra Italiana, partiti storicamente caratterizzati da un feticismo per la parola sinistra che rendeva per loro intollerabile non averla in un simbolo, oggi siano parte di liste, Potere al Popolo e Liberi e Uguali, che non si chiamano “sinistra”), apre oggi molti più spazi di quanti ne chiuda, così come la scelta di un linguaggio diretto, di parole d’ordine concrete, di facce nuove. Terzo, che pratiche spesso liquidate come “da assemblea studentesca”, a sinistra, come la partecipazione diretta delle persone alla scelta dei candidati, oggi forniscono una quota di credibilità che è un capitale preziosissimo, non tanto direttamente in termini elettorali, ma in termini di coinvolgimento, entusiasmo e orgoglio della militanza sì. E infatti il quarto punto è la militanza: piccola, limitata, invecchiata, incarognita, piena di rancori, con tutti i suoi limiti, non migliore della dirigenza, ma l’esperienza di Potere al Popolo dimostra che esiste ancora in questo paese una riserva di militanza, nei partiti, nel sindacato, nelle associazioni, nei movimenti, e che è disposta a farsi richiamare in servizio se si mettono un attimo da parte apparati e cautele e le si promette una battaglia a viso aperto. Chiaramente c’è anche l’altra faccia della medaglia: quella militanza è il mio mondo, ma non è il mondo. Ciò che funziona dentro quel recinto non funziona automaticamente fuori, anzi, altrimenti non saremmo qui a parlare del 3% ma del 30%. Spesso ciò che aiuta a raggiungere il 3% diventa un ostacolo per il raggiungimento del 30%, e innamorarsi delle ricette che entusiasmano la militanza è spesso una cattiva idea nel medio termine. La lezione del populismo è, prima di tutto, obbligarsi a dubitare dei propri istinti di militante e a metterli continuamente a verifica nel rapporto diretto con le persone, senza chiaramente rinunciarvi. In questo c’è ancora tanto da lavorare. Potere al Popolo ha provato contemporaneamente a essere la lista popolare e populista delle maggioranze sociali e la lista militante delle lotte e della sinistra radicale, ed è stata spesso forzata dalle contingenze della campagna elettorale a far prevalere il secondo aspetto, che paga più nel breve termine, al primo, che è più strategico per il futuro. Però, intanto, una militanza entusiasta è una risorsa, soprattutto nel vuoto di partecipazione di questa insipida campagna elettorale. Certo, sarebbe paradossale se domenica notte, a sinistra, facessimo i caroselli in strada per aver preso gli stessi 800 mila voti che 5 anni fa, all’epoca di Rivoluzione Civile, erano il segno di una sconfitta storica. Soprattutto se contemporaneamente Liberi e Uguali non dovesse prendere molto più del milione e 100 mila voti che prese Sel 5 anni fa. Sarebbe il segnale che, in 5 anni, a sinistra, mentre il Pd crollava, non si muoveva una foglia, e che le percentuali crescono solo perché sempre meno gente, purtroppo, vota. E quando la sinistra fa il tifo per la bassa affluenza, cioè ormai sempre più spesso, vuol dire che davvero c’è qualcosa che non va.

Ma sarebbe fuorviante, per come la vedo io, utilizzare i risultati di domenica come cartina di tornasole delle varie proposte politiche. Non sto dicendo, ovviamente, che i numeri non contino: è chiaro che se Potere al Popolo avrà preso solo gli 800 mila che votarono perfino Antonio Ingroia vorrà dire che avrà avuto meno capacità di rivolgersi, appunto, al popolo, rispetto al caso in cui ne prenda il doppio, per non parlare della malaugurata ipotesi che ne prenda la metà. Ma non credo che sia questo il punto principale da analizzare. Credo che esistano dati politici che vanno oltre il risultato elettorale. Quando dicevo, prima, che di Potere al Popolo, quando nacque, non mi convincevano i tempi, lo dicevo perché sono talmente convinto della necessità della svolta populista, a sinistra, che sono terrorizzato dal fatto che, fatta in maniera affrettata e con le forzature che una campagna elettorale impone, possa andar male e quindi venire considerata sbagliata e fallimentare. Ecco, fatemelo dire ora, prima delle elezioni: anche se Potere al Popolo dovesse essere sconfitta, cioè non superare lo sbarramento (perché quando ti candidi al parlamento e non ci entri, hai perso, purtroppo), le lezioni che citavo prima resterebbero validissime al 100%. Vorrebbe solo dire che non c’è stato abbastanza tempo perché dessero i frutti, o che la fretta e le contingenze della campagna elettorale non hanno permesso di svilupparle nella maniera giusta. Ma quelle lezioni restano, e sono centrali, perché non sono il frutto estemporaneo di una campagna elettorale più o meno fortunata, ma sono la linea di tendenza di tutto ciò che lavora in maniera proficua nella società italiana: quella di coniugare radicalità e pragmatismo, nettezza comunicativa e partecipazione democratica integrale, creazione di comunità e capacità di aggregare le persone oltre le appartenenze precostituite. Una linea di tendenza che è visibile nelle mille esperienze di mutualismo che caratterizzano questo paese, nei conflitti che lo attraversano, nelle coalizioni civiche che governano importanti città, in ciò che resta delle organizzazioni sociali e dell’associazionismo. Non sarebbe il mancato raggiungimento di uno sbarramento a cancellare tutto questo. E chiaramente questo vale anche se Potere al Popolo dovesse andare molto bene, perché quando ti poni l’obiettivo di unire e organizzare la maggioranza di questo paese che vive in basso, e ti fermi a una quota di testimonianza del 3% o poco più, magari entrando in parlamento grazie alla bassa affluenza, significa che sei ben lontano dall’aver unito ciò che il neoliberismo ha diviso, che hai ancora tanto da camminare domandando, per dirla alla zapatista, prima di ricostruire davvero l’unità popolare di cui c’è bisogno, e che devi essere pronto a rimetterti completamente in discussione, di fronte al popolo di cui parli, mettendo al centro della tua chi ancora non c’è, chi manca, chi dev’essere coinvolto.

La stessa attenzione a concentrarsi sull’analisi politica e non solo sui dati elettorali dovrebbe valere, beninteso, anche per “Liberi e Uguali”. Anche qui, è evidente che i numeri contano: se Leu arrivasse, a un risultato che va ben oltre il milione e centomila voti di Sel, in corrispondenza di un calo dell’affluenza, vorrebbe dire che l’operazione di recuperare a sinistra un pezzo dell’elettorato del Pd sarebbe riuscita. Ma sarebbe riuscita in maniera estremamente parziale e limitata, rispetto allo scotto pagato all’ingombrante leadership del centrosinistra che fu. E, personalmente, mi lascerebbe l’impressione che quel risultato si sarebbe comunque potuto raggiungere anche senza caricarsi personaggi e pratiche di un mondo che, piaccia o non piaccia, non esiste più. Poi magari nel frattempo si sarebbero eletti dei buoni deputati e senatori, chiaramente, dettaglio non certo secondario trattandosi di elezioni per il parlamento, e per un parlamento che si annuncia tra i più a destra della storia del paese. Però fatico a immaginare che quei deputati e senatori sarebbero sorretti da un progetto politico coeso e credibile e che non risorgerebbe presto, fisiologicamente, la frattura tra chi fa politica per cambiare il mondo e chi per governare l’esistente. Se il programma di Liberi e Uguali è un programma ineccepibilmente di sinistra, a mancare è la prospettiva a medio termine: dove si vuole andare a parare? L’obiettivo è costruire una forza di governo indipendente o andare a giocare le proprie carte in un rinnovato rapporto col Pd una volta silurato Renzi? È evidente come in Leu ci sia chi risponderebbe in un modo e chi nell’altro, e questa contraddizione di fondo ha attraversato tutta la campagna elettorale, rendendo difficile dare un messaggio chiaro e comprensibile agli elettori. L’ambiguità costa cara, in questa fase politica, in particolare se non c’è un capitale di credibilità preesistente a cui attingere. Difficile pensare che si possa andare avanti tanto, dopo le elezioni, senza sciogliere questa contraddizione.

Si tratta, del resto, di una condizione che riguarda tutto il campo dell’alternativa. I nodi politici su cui Leu mantiene ambiguità, in Pap vengono spesso nascosti sotto il tappeto della radicalità. Quando non si sa bene come affrontare una questione, aggirarla con il posizionamento più radicale possibile è probabilmente una soluzione migliore che aggirarla in maniera contraddittoria. Ma, purtroppo, sempre di aggiramento si tratta. La necessità della ripresa di un lavoro di elaborazione e della costruzione di un pensiero che sappia affrontare i nodi politici, invece di limitarsi a schivarli o a costruirci sopra un posizionamento radicale, resta centrale per tutti.


Il paese va a destra, il M5S è l’opposizione di sistema

Tutto questo, chiaramente, avviene nel contesto di un’elezione che molto probabilmente non avrà un vincitore netto, che vedrà un netto spostamento a destra dell’asse del dibattito e della composizione parlamentare, e in cui il Movimento Cinque Stelle manterrà, per la seconda legislatura consecutiva, il ruolo di principale opposizione e alternativa al quadro di governo. Nel decimo anno della crisi, a quasi 7 anni dalla cacciata di B., la sinistra di questo paese si presenterà nel nuovo parlamento, nella migliore delle ipotesi, forte di poco più di due milioni di voti, con scarsissime se non nulle possibilità di condizionare l’evoluzione del quadro politico. Schiacciata dal dilemma tra la sfida populista che provi a contendere al M5S il campo dell’opposizione e dell’alternativa e il recupero “nel bosco”, come direbbe Bersani, degli elettori delusi del centrosinistra, la sinistra di questo paese non è riuscita, in questa legislatura, a fare né una cosa né l’altra, provando a recuperare in campagna elettorale con due operazioni nate a poche settimane dalle elezioni, una per fronte. Nel frattempo, nel paese, qualcosa si muove: il movimento delle donne, i sussulti intorno al referendum costituzionale, la ripresa dei conflitti del lavoro (sia nelle forme tradizionali sia in quelle nuove), l’ondata di reazione antifascista che ha seguito i fatti di Macerata segnalano che è la politica italiana a essere immobile, non certo la società. E segnalano che il tempo della delega dell’opposizione al Movimento Cinque Stelle ha le ore contate: la rappresentazione mediatica del conflitto sociale che i grillini hanno offerto, finalmente, inizia non bastare più. Il ruolo anestetizzante ricoperto dal M5S non è eterno. Ma, attenzione, ciò non vale solo a sinistra, ma anche e soprattutto a destra. Se ci possiamo aspettare una ripresa del conflitto sociale, nei prossimi mesi, dobbiamo anche mettere in conto che la destra radicale più o meno neofascista, per quanto le sue rappresentazioni elettorali restino risibili, è destinata a diventare un attore sociale la cui presenza non può essere ignorata. Si apre una fase in cui si dovranno fare tante cose insieme: ci sarà da costruire politicamente, provando a mettere a frutto ciò che è avvenuto in questi mesi, ma ci sarà anche e soprattutto da dare battaglia nella società, per contendere ai due grandi mostri che avanzano inesorabilmente (la destra e la rassegnazione) ogni singolo metro, ogni singolo voto, ogni singolo cuore. Ci
Ultima modifica ilSabato, 03 Marzo 2018 12:25
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