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Èlite, popolo, casta, gente: quel che Sergio Rizzo ancora non ha capito (?)

Èlite, popolo, casta, gente: quel che Sergio Rizzo ancora non ha capito (?)

Su Repubblica del 20 settembre c’è un editoriale di Sergio Rizzo intitolato “ma élite non è uguale a casta”.

Rizzo è il co-autore de “la casta” il libro che, raccontando i privilegi della classe politica, innescò e alimentò l’odio definito “antipolitico” nei confronti di quei parlamentari e uomini di governo che negli anni si erano sempre più sentiti liberi di usare i soldi pubblici in modi ignobili offendendo le istituzioni democratiche e minando la credibilità della democrazia.

La casta diventava una delle parole chiave del dibattito pubblico e la rabbia popolare che cresceva a causa delle diseguaglianze e della crisi si indirizzava sempre più contro le auto blu piuttosto che su pensioni da fame e tagli alla sanità. Fu una grande operazione politica e mediatica costruita ad arte.

Ne ha parlato qualche anno fa Massimo Mucchetti, ex vice direttore del Corriere della Sera e poi senatore del Partito Democratico, che in un’intervista raccontò come il libro di Rizzo e Stella e le inchieste che lo hanno accompagnato facessero parte di “una campagna politica che, mettendo in luce le debolezze reali del governo Prodi, puntava sui tecnici che avrebbero dovuto avere alla loro testa Montezemolo.” Lo stesso Mucchetti la definiva “una grande idea giornalistica, una piccola idea politica.”

L’idea che solleticando la pancia degli italiani questi si sarebbero rivolti a Montezemolo era davvero ridicola. Liberarono “il mostro” e il mostro li ha divorati.

Oggi provano a arginare la valanga “populista” provando a distinguere tra élite e casta, arrampicandosi sugli specchi in un goffo tentativo di difesa delle classi dirigenti. Ma non fanno i conti con il vero dato alla base di quel che sta succedendo.

L’argomentazione di Rizzo è che serve competenza e ritorno al merito. Contrappone l’esigenza di classi dirigenti competenti all’attuale scenario di ministri e parlamentari incompetenti e ignoranti, ma così facendo oltre a non fare altro che rafforzare la simpatia popolare nei confronti del “governo della gente”, perde di vista proprio il nodo centrale della questione: banalizzazione del governo (“tutti possono governare”) ed esaltazione della tecnica (“possono governare solo i professoroni”) sono due facce della stessa medaglia: la crisi democratica.

Il cosiddetto momento populista non è un fenomeno nazionale e ha radici un po’ più profonde di un incidente di percorso. È il frutto del sempre più evidente divorzio tra un finanzcapitalismo sempre più aggressivo e una democrazia sempre più labile.

Se l’unica argomentazione contro questo governo è quella che è fatto da incompetenti (cosa in larga parte vera) e che Conte è un fantasma non si fa altro che spianare la strada a Salvini che — in assenza di alternative forti e credibili — potrà facilmente fare appello all’esigenza di avere un uomo forte al comando finendo così di cannibalizzare i 5 stelle.

Anche in questo caso quando leggiamo un editoriale di Repubblica su come organizzare l’opposizione conviene fare l’opposto di quel che consiglia.

In Spagna i compagni di Podemos hanno introdotto il ragionamento su “la trama” ovvero hanno deciso di attaccare non la classe politica come fenomeno distorto a sé stante, ma hanno spiegato con successo a milioni di spagnoli che il problema risiede nell’intreccio di potere politico ed economico e nel sistema capitalistico che essi difendono.

Spiegare in maniera semplice un fenomeno complesso, senza banalizzare il quadro politico è un promo passo. Una lettura corretta di cos’è la casta in Italia, di cosa sono stati e cosa sono i suoi gruppi dirigenti è un primo passo utile per invertire la tendenza.

Ma l’unico modo per fermare questo governo è mettere in campo un’opposizione che — pur restando intransigente sui diritti civili e l’accoglienza — concentri le proprie energie sull’agenda economica e sociale: lavoro e welfare, scuola pubblica, sanità per tutti, redistribuzione e fisco.

Tenendo insieme imprenditori del nord est che chiedono meno diritti per i lavoratori e più possibilità di eludere le tasse e i disoccupati giovani e meno giovani del sud il blocco di governo è il vero partito della nazione cui puntava Renzi.

Per sconfiggerlo bisogna spaccare il blocco sociale di questo governo, separare gli elettorati dei due partiti di governo, sempre più intrecciati tra loro, sempre più uniti nel lessico e negli obiettivi.

Lo si può fare solo facendo esplodere le contraddizioni tra gli interessi tra fasce così differenti della società, battagliando sulla flat tax e sull’autonomia regionale che regalano soldi ai più ricchi, sulle pensioni e sul finto reddito di cittadinanza, sulle nazionalizzazioni, sulla redistribuzione della ricchezza con un’opposizione severa, inflessibile, nelle piazze, capace di sorprendere e spiazzare e che stia ben lontana da banalizzazioni spocchiose ed elitarie e personaggi non credibili e incoerenti e nello specifico dai gruppi dirigenti del partito democratico e dalle loro cene.

Possiamo combattere la guerra tra poveri e l’avanzata della destra sociale nazionalista solo con la lotta di classe. Dalla parte dei più deboli, contro chi ha troppo, sostituendo i capri espiatori con i nemici veri e reindirizzando la rabbia legittima di milioni di persone.

Al contempo serve organizzare in tempi rapidi una proposta che sia anche elettorale, radicale e di rottura e al tempo stesso non minoritaria.

Il 4 marzo milioni di italiani, spinti dalla voglia e dal bisogno di un cambiamento profondo hanno usato il voto come una clava, scegliendo le forze politiche che apparentemente erano più in grado di fare male al sistema, ignorando totalmente le forze politiche più piccole o troppo compatibili.

Scrivevo dopo le elezioni in un lungo articolo su questo tema (http://bit.ly/voto-conflittuale) che chi sceglie un uso conflittuale del voto vuole dare battaglia, o vuole che qualcuno lo faccia per lui inevitabilmente, infatti, finirà per ignorare i soggetti politici deboli. Gli elettori, infatti, chiedono “forza politica”, un peso specifico che consenta di giocare la partita vera. La forza, ovviamente, non deriva solo dal numero di voti, ma anche dal ruolo che si ricopre nel gioco politico e da come si partecipa. Ma è evidente che un problema di numeri esiste ed è ineludibile. E il modo con cui dalle nostre parti a sinistra si liquida il problema di costruire fronti ampi e credibili è una sottovalutazione davvero preoccupante.

Rifiutare gli accrocchi elettorali improponibili che impediscono di contendere il voto popolare estare nello scontro della cosiddetta democrazia agonistica non può voler dire rinchiudersi in rassicuranti bolle chiuse e omogenee di una sinistra radicale che festeggia nella gara tra chi è più forte in dei sondaggi che danno qualunque lista di sinistra nettamente sotto lo sbarramento. Da questo punto di vista la disponibilità del sindaco di Napoli Luigi De Magistris a lavorare anche per una proposta politica ed elettorale unitaria, ma rinnovata e credibile alle prossime elezioni europee è una buona notizia.

Di certo bisogna sapere che il ciclo che si è aperto non sarà breve. Magari i suoi insulsi protagonisti avranno vita breve, magari i leader del momento passeranno dal 65% di consenso al 2% come è successo a Mario Monti pochi anni fa, ma di certo le condizioni del gioco politico sono cambiate strutturalmente e non si potrà rimettere nel vaso quel che è uscito fuori in questi anni.

Siamo in un mondo nuovo e anche per questo siamo alla ricerca di strumenti e mappe per navigare in questo mare.

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