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Che fare dopo il voto del 4 marzo?

  • Scritto da  Danilo Lampis e Riccardo Laterza
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Che fare dopo il voto del 4 marzo?

La miseria di questa campagna elettorale è il palcoscenico su cui si sta esibendo, in tutta la sua drammaticità, un’insufficiente offerta elettorale “d’alternativa” alle destre e alle politiche neoliberiste. Assistiamo a processi elettorali che, al netto di candidature singole generose, sono incapaci di esprimere una giusta radicalità e discontinuità su temi, valori e pratiche, o riproducono proposte esclusivamente rivolte agli affezionati, al cerchio ristretto del “popolo” che lotta e che partecipa costantemente, da sinistra e in diverse forme, alla vita pubblica del Paese.

Nei giorni scorsi Marta Fana e Giacomo Gabbuti hanno risposto all’appello per “l’unico voto possibile” - quello al PD, nel pensiero di Francesco Costa - scrivendo, tra le altre cose: “Qui ed ora, se esiste un meno peggio, ci sembra fare di tutto perché nel parlamento ci sia un nucleo di opposizione, alla destra quanto alla riproposizione di larghe intese e governi tecnici, che sappia mettersi non a capo, ma a servizio, di un meglio che deve essere costruito giorno per giorno, dal 5 marzo, fuori da questa logica tossica del meno peggio”. Christian Raimo ha aggiunto che “giocare con il fuoco è quello che spesso non soltanto si può fare, ma quello che bisogna fare, anche se sembra pericoloso e folle”.

Pubblichiamo queste righe prima del 4 marzo proprio perché siano lette, discusse, criticate e perché possano essere la base di azioni concrete dal 5 marzo in poi, indipendentemente da ciò ognuno di noi avrà scelto di fare il giorno del voto. Non ci possiamo lasciar scoraggiare dal quadro che si delineerà in queste elezioni, perché la costruzione di un’alternativa della e per la maggioranza delle persone è materia di anni di lavoro politico e accumulo di forze. E senza una strategia di lungo periodo non può esistere un’efficace tattica sul presente.

Prima premessa: la campagna dell’Interregno

Il quadro elettorale ci racconta un Pd sofferente e a pezzi e che paga le ultime conseguenze della sconfitta del referendum sulla Costituzione. Renzi non riesce più a rappresentare la novità che gli aveva consentito di diventare non solo un leader populista di centro - anticipatore in qualche modo del modello Macron - ma di essere altresì un riferimento per il grosso dei poteri forti. Da Cesare si è trasformato in un Cadorna al ritorno da Caporetto. La renzizzazione del partito, manifesta anche dai profili dei candidati per le politiche, certifica paradossalmente la crisi di Renzi. Lo spazio elettorale del Pd continuerà ad essere rilevante nell’immediato futuro, ma molto diverso dalla scommessa maggioritaria veltroniana: sarà più simile ad una Ciudadanos o En Marche! italiana già sverginata sul “governo” e dunque con meno appeal dei fratelli europei. L’indebolimento del PD favorirà la probabile formazione di un soggetto alla sua sinistra, oggi in nuce nella lista di LeU, di profilo liberal e socialdemocratico.

Il centro-destra, nonostante le percentuali elevate, paga la sostanziale divergenza di strategia tra Berlusconi e Salvini, tra ipotesi di governo del Presidente e un approccio marcatamente anti-establishment e populista, nonché ormai senza traccia di regionalismi.

Il Movimento 5 Stelle invece cambia pelle e programma, dismettendo l’apparente etica politica dei “principi” per una più rassicurante e trasformista etica della “responsabilità”. Timidi progressisti sulla gran parte delle questioni sociali, conservatori sui diritti civili, continuisti sull’architettura istituzionale, sulla politica monetaria e sull’Europa: un perfetto mix, ora abilmente istituzionalizzato in vista della competizione elettorale, che però non riesce a sfondare sul lato del consenso al punto da poter aspirare a un governo monocolore.

Dai diversi schieramenti si prova, con meno certezze rispetto al passato, a lanciare una sfida disperata verso la crisi di fiducia della cittadinanza nei confronti della politica classica. All’orizzonte inizia a profilarsi un momento destituente che potrà avere forme contraddittorie e pericolose, qualora non si esprimesse una forte azione di una nuova politica di massa dei subalterni. Le elezioni non certificheranno - semmai fosse possibile stabilire un momento preciso - la definitiva crisi della rappresentanza e dei meccanismi della democrazia liberale, ma forse saranno l’ultima tappa di questo processo. L’architettura politico-istituzionale attuale non potrà continuare a controllare il consenso senza un ulteriore inasprimento del controllo sociale. È in questa futura congiuntura storica, nella crisi delle rivoluzioni passive, che si darà una duplice alternativa: o un’irruzione di una forza politica d’alternativa degli oppressi, o la barbarie.

Seconda premessa: una società in movimento dentro una crisi senza fine

 

Da anni, d’altronde, provano a raccontarci che siamo fuori dalla crisi; più o meno da quando la crisi è iniziata, ormai un decennio fa. La verità è che la crisi non è affatto finita, e che siamo ancora in mezzo al guado, tra il vecchio che muore e il nuovo che non può ancora nascere. In mezzo a un mondo in guerra permanente, travolto dal cambiamento climatico e dalle migrazioni forzate, dove la trasformazione del lavoro si traduce in una concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani di sempre meno persone. La crisi non è affatto finita, perché è stata ed è tuttora innanzitutto una grande fase di ristrutturazione del sistema politico ed economico volta a mantenere saldamente al potere chi ha di più a scapito di quelli che hanno sempre meno. Dieci anni fa nelle piazze di tutta Italia cantavamo “noi la crisi non la paghiamo”, sottolineando la natura innanzitutto distributiva della crisi; cantavamo anche “non ci rappresenta nessuno”, denunciando un sistema politico sempre più lontano e sconnesso dagli interessi della maggioranza delle persone. Avevamo ragione su entrambi i fronti, ma la crisi l’abbiamo pagata e nel frattempo qualcuno ha occupato quello spazio di non rappresentanza e ribellione. Lungi dal creare nuove istituzioni o quantomeno gettare le basi per una sfida politico-elettorale radicale e maggioritaria, il movimento - e la sua fine repentina, nel 2011 - ha creato le condizioni per l’occupazione, da parte del Movimento 5 Stelle, della sfiducia verso le élite politiche ed economiche. Così la questione sociale e politica è stata risolta in una grossolana questione morale, delineando una nuova rivoluzione passiva che si sta celebrando in tutta la sua forza proprio ora con il volto pulito di Di Maio.

Verrebbe da pensare che la crisi della democrazia liberale non stia sfociando in nulla di buono e che bisogna rassegnarsi a giocare una partita di rimessa, provando a spostare il quadro politico esistente soltanto dall’interno. Fare questo però significa giocare sul campo che consideriamo più sicuro, quello rappresentativo di poco più della metà della popolazione che ancora, nonostante tutto, sente il dovere civico di partecipare alla vita democratica nelle forme classiche, e nella parte che più ci è familiare, quella della "sinistra" variamente (dis)organizzata nel campo istituzionale. Facendo così, tuttavia, non si risponderebbe alla scommessa di costruire un soggetto dell’alternativa dei subalterni: il succo del discorso è che non è possibile ridurre l’azione politica al campo di coloro che votano, né tanto meno al campo di quelli che si considerano di "sinistra" e che hanno un'interpretazione del termine assimilabile alla nostra. È invece nel resto nell’altra metà del campo che si gioca la sfida più grande per una democratizzazione del Paese e un miglioramento delle condizioni materiali delle persone.

Esiste infatti una parte multiforme di società, attraversata dai peggiori sentimenti ma anche da forme di attivismo nuovo, non inquadrabili all’interno delle forme canoniche della politica, che probabilmente si ingrosserà parecchio nei prossimi anni per le cose affermate in precedenza. È una compagine variegata, che non vede l’utilità della politica, dei partiti, talvolta dei sindacati. Sono i figli della crisi economica, sociale, politica e morale cresciuti da Tangentopoli in poi che non rispondono più alle chiamate alla responsabilità provenienti dall’alto. Molti di loro magari votano per vendetta nei confronti dei governanti, ma si disinteressano alla vita politica organizzata nei partiti o nei sindacati.

Nel Paese c’è voglia di partecipare, di dire la propria, non soltanto di sentirsi sicuri e protetti con più militari e polizia, come vorrebbero convincerci i mass media. Lo dimostrano diversi momenti: il referendum del 4 dicembre, che ha espresso un forte rifiuto delle politiche economiche e sociali degli ultimi anni; il moltiplicarsi delle lotte territoriali particolarmente di carattere ambientalista; la presenza di centinaia di vertenze sul lavoro che iniziano a costituire un disturbo anche per i settori con la più alta intensità dello sfruttamento; il successo del movimento Non una di Meno; le varie forme di autorganizzazione e di solidarietà che, pur respingendo molto spesso qualsiasi connotazione "politica", sono di fatto forme potenti di aggregazione e mobilitazione.

Lo ribadiamo: aumentano prepotentemente anche fenomeni di carattere regressivo, violentemente conservatore e xenofobo, e si delinea in maniera sempre più chiara una strategia che contrappone all’emergere di una generica “violenza politica” un’altrettanto vuota retorica dell’”unità della Nazione” e del delirio securitario, rappresentando queste due tensioni come opposti quando invece sono complementari nel tentativo di pacificare il Paese e disperdere il conflitto. È nei terreni sui quali razzismo e fascismo nascono e si sviluppano che si dovrebbe ripensare l’azione concreta delle forze dell’alternativa; perché le più grandi conquiste della storia si sono fatte quando si è superato il limes, addentrandosi fra le terre sconosciute dove imperversano i fenomeni più morbosi.

In definitiva, è bene sfatare una convinzione che rischia di assuefarci: non è vero che nel Paese non c’è conflittualità e tantomeno che non ci sia voglia di partecipare; piuttosto, come sottolineano diversi studiosi, le forme della partecipazione politica sono cambiate in relazione ai mutamenti del lavoro e ai conseguenti cambiamenti sociali e antropologici. Il vero tema è a nostro avviso che le forme classiche del partito, del sociale e del sindacato vivono da decenni una crisi strutturale e non riescono a incanalare queste nuove spinte. Questo è altresì uno dei motivi per cui larga parte di queste spinte conflittuali si frammentano, diventano autoreferenziali o, ancora peggio, si dirigono in orizzontale, verso altri segmenti di quella larga parte di società degli oppressi. Pensiamo dunque sia importante formulare alcune ipotesi, insieme di riflessione e di lavoro, nella prospettiva della costruzione di una forza d’alternativa capace di superare questi limiti.

Prima ipotesi: praticare e organizzare la democrazia ad alta intensità

 

Non siamo - ancora - all’interno del momento conclusivo di questa lunga crisi sistemica, con forti spinte destituenti. Per questo non sembra convincente, hic et nunc, una strategia populista di sinistra fondata su un tentativo artificiale di allineamento delle domande sociali presenti nella società da verticalizzare senza passare da un momento di fuoco delle domande stesse. Non basta soltanto insistere su un buon lavoro politico-comunicativo dai tratti populisti, perché il “popolo” si costruisce giocando anche su altri piani di pratica e proposta. In altre parole, quando si decide di puntare sulla costruzione di un "discorso" bisogna essere consapevoli che esso non è fatto solo di parole, linguaggi, proposte, ma anche e soprattutto di posture, azioni, movimenti. Il discorso è anche - e soprattutto - discorso pratico. Serve una nuova fase di movimento, o risulta difficile immaginare una strategia populista di natura progressista che sappia trasformare la futura (ma non certa) indignazione anti-establishment in irruzione politica da parte dei subalterni.

Come si sarà compreso, non consideriamo fruttuosa un’ipotesi di solo lavoro sociale di lungo periodo; così come consideriamo infruttifera una strategia che metta al centro dell’attenzione la partecipazione a campagne elettorali e in generale la contesa del campo istituzionale come fine e non come mezzo da utilizzare tatticamente al servizio di un ragionamento più complessivo.

Tutte e tre le strategie, oggi attivate da diversi attori di quella che potremmo definire “sinistra” partitica, sociale o di movimento, sono manchevoli. La prima e la terza producono una passivizzazione del popolo e un riprodursi di rapporti di dominio, la seconda è autistica perché non si pone il problema della conquista del potere istituzionale.

La nostra prima ipotesi, dunque, è che la costruzione di un nuovo blocco storico non possa che avvenire con una democrazia ad alta intensità da praticare e organizzare. Occorre cioè trovare il modo per far esprimere in tutta la sua potenza la compagine variegata di domande sociali e politiche che intaccano e mettono in discussione l’attuale assetto politico ed economico. Il nostro grande punto di domanda non sono i contenuti o i programmi, quanto il metodo, la forma e lo stile di una nuova politica di massa dei subalterni. Su questi dobbiamo ragionare il nostro “che fare?”, dismettendo finalmente gli strumenti consunti della vecchia politica.

Seconda ipotesi: tessere la tela del ragno

 

Non ci basta abbandonare un immaginario e dei simboli di sinistra per arrivare a fette di popolazione più ampie. Sicuramente sarebbe una buona base di partenza, ma esperienze come Podemos o Momentum non hanno attivato migliaia di persone, soprattutto giovani, esclusivamente per i loro colori o parole innovative. Serve invece tornare sui punti accennati poco sopra: in una società informatizzata, reticolare, le strutture verticali e pesanti non funzionano, come non funziona la presunzione di essere automaticamente avanguardia che parla di lotta alle disuguaglianze ma che non si organizza in modo di far esprimere direttamente chi le subisce. Se l’attuale modo di produzione capitalistico si fa sempre più logistico e di piattaforma, determinando modelli di vita, produzione e riproduzione, una proposta politica non può non interrogarsi su una forma organizzativa a rete, con i relativi nodi di aggregazione e mutualismo in grado di raccogliere le plurime identità sociali prodotte e assoggettate dal capitale. Una forma organizzativa a ragnatela, dove ognuno può dare il suo contributo secondo i suoi interessi e bisogni, producendo vibrazioni solo apparentemente ininfluenti che, viaggiando lungo i fili, vengono percepite anche dall’altra parte della rete e dal ragno che si muove su di essa. Dobbiamo superare definitivamente l’idea per la quale contino soltanto, o contino di più, le persone che militano h24. Tutte e tutti, entrando all’interno della ragnatela, possono produrre una vibrazione in grado di produrre movimento. D’altro canto, dobbiamo superare l’idea che le organizzazioni si possano costruire dal centro e dall’alto: soprattutto in questa fase, e in assenza di grandi risorse, innanzitutto economiche, non c’è nessuna scorciatoia percorribile che sostituisca il lavoro territoriale, inevitabilmente caratterizzato da ritmi, priorità e centralità differenti.

Serve un’organizzazione in grado di farsi carico della dimensione deliberante, ovvero della connessione delle persone e del confronto fra le stesse, accompagnata alla lotta contingente di posizione sul terreno del potere, incluse le fasi elettorali che dovrebbero essere viste come momento per consolidare le conquiste sociali e spostare il resto dell’arco politico. Un’organizzazione che sappia affrontare l’incertezza senza essere avanguardia paternalista, per convincere le persone della necessità del cambiamento, contro ogni attesa improduttiva dettata dalla presunzione per cui il popolo non ha ancora “capito” il nostro messaggio salvifico.

Terza ipotesi: esplorare le nuove faglie della contemporaneità

 

Risulta imprescindibile cambiare metodo e forma, ma anche ingaggiare nuove battaglie sopra le faglie politiche più calde della contemporaneità.

Non possiamo pensare, infatti, che i cicli di politicizzazione ed espressione del dissenso si possano riprodurre uguali a loro stessi, decade dopo decade. Dobbiamo interrogarci su quali siano le nuove domande e i nuovi bisogni provenienti da una società che sta cambiando, su quali possano essere le battaglie capaci di comporre fronti ampi e maggioritari di carattere progressista.

Elenchiamo, a puro titolo di esempio, quattro faglie che ci sembrano tra le più evidenti:

  1. Lavoro. Flessibilità occupazionale e della prestazione, incapacità di controllare i processi di produzione, scarse garanzie salariali, sindacali e previdenziali, poca propensione alla conflittualità, soggiogamento all’etica della prestazione e della auto-responsabilizzazione che talvolta conducono anche alla depressione, alla percezione di essere dei losers, stanno diventando il minimo comune denominatore del mondo del lavoro. Il livello di specializzazione e istruzione può variare, ma nella situazione attuale non determina uno scarto decisivo rispetto ai fattori di base. Tuttavia, sta emergendo una nuova conflittualità proprio nei settori dove il livello di sfruttamento raggiunge i suoi peggiori apici: logistica, grande distribuzione, ristorazione, alcuni settori del pubblico e del privato che si reggono sul “volontariato” o sul lavoro gratuito mascherato da esperienza formativa. Il miglior modo per indurre le sempre più necessarie trasformazioni delle strutture sindacali - che dovrebbero essere in grado di produrre alleanze sociali fra le vertenze e le associazioni, movimenti, partiti - e per far uscire il conflitto capitale/lavoro dalla frammentazione o settorializzazione, è lavorare su un duplice binario: da un lato contribuire ad organizzare i lavoratori dei settori più deboli e sfruttati del mercato del lavoro, dall’altro costruire spazi pubblici delle vertenze, aperti a tutta la cittadinanza, in grado di supportare il lungo lavoro di tessitura e costruzione di alleanze sociali col fine di avviare campagne sul lavoro trasversali ai settori, e sostenute dai diversi soggetti sociali, sindacali e politici.
  2. Ecologia. Le centinaia di conflitti ambientali che hanno solcato il Paese negli ultimi anni hanno superato la loro caratteristica di single issue, contenendo sottotraccia battaglie per la difesa dei territori, per il diritto alla salute, all’autodeterminazione, alla partecipazione, per il rifiuto del ricatto tra lavoro e vita, per la salvaguardia dei beni comuni. Battaglie di democrazia e partecipazione di immediato respiro globale e generale, che intercettano una delle dimensioni fondanti della crisi e allo stesso tempo ridisegnano la spazialità dell’azione politica. Si affermano lotte su scala “ristretta” che producono moti situati di partecipazione e coscientizzazione politica. Come è avvenuto per Non una di Meno, è possibile immaginare e contribuire ad un’azione di ricomposizione che riesca a far entrare la questione ecologica al centro del dibattito politico?
  3. Territorio e comunità. Le parole chiave della “modernizzazione” e dello “sviluppo” sono sempre state accompagnate implicitamente o esplicitamente da politiche rivolte a concentrare la produzione e i benefici della crescita sulle grandi città, fattesi via via globali. Il progetto europeo oggi subisce i maggiori stress non dalle classiche battaglie contro l’austerità, che hanno segnato gli anni immediatamente successivi alla crisi del 2008, bensì da una prepotente riattivazione del cleavage centro-periferia. Nel nostro Paese le asimmetrie di sviluppo e vivibilità non hanno soltanto avuto come protagonisti il conflitto fra città e campagna, fra centro e periferia, ma anche scalarità differenti più ampie, come la storica questione meridionale o quella sarda. È possibile ragionare sul ritorno al luogo come un’opportunità per orientare una nuova fase di partecipazione, di contrasto ad un capitalismo sempre più in divorzio con la democrazia, e di redistribuzione del potere dall’alto verso il basso, verso comunità aperte e inclusive? Secondo noi sì, si tratta di un campo non solo di contesa ma anche di sperimentazione di modelli economici e dispositivi giuridici alternativi. Il terreno contingente ci impone di fare i conti con lo stato nazionale, ma è finito il tempo di difenderne la sua unità e il suo modello centralista, privilegiando progetti di partecipazione territoriali o regionali in grado di consolidare comunità con delle proprie specificità, ma al tempo stesso aperte e in connessione tra loro.
  4. Mobilità. Oggi la mobilità, lungi dall’essere un’opportunità e un esercizio di libertà come dipinta dalla retorica neoliberista, si traduce in un’opzione forzata dai fenomeni stessi che hanno prodotto la crisi. Guerre, disastri ambientali, disuguaglianze nei fattori produttivi e nella distribuzione del reddito crescenti tra diverse aree del mondo sono le cause per cui milioni di persone sono costrette a muoversi da una parte all’altra del globo, mentre molte altre, appena al di sotto della soglia economica e culturale che rende possibile l’opzione della mobilità, rimangono imprigionate nella propria condizione stanziale. L’esperienza italiana è solo uno spaccato di una condizione che accomuna dunque, con diverse intensità, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Oggi la questione è sempre più inquadrata dalla prospettiva dell’”invasione” - ovvero l’arrivo dei migranti in Italia come problema di ordine pubblico e sociale, o addirittura di sostituzione etnica - e sempre meno dalla prospettiva dell’”evasione” - un Paese che perde progressivamente una porzione della propria cittadinanza, non semplicemente della propria forza lavoro ma soprattutto delle proprie energie vitali. L’obiettivo dunque dovrebbe essere quello di provare a superare una solo apparente contraddizione tra questi due fenomeni, l’arrivo di migranti in Italia e la partenza di migranti per altri Paesi, e invece considerare la questione della mobilità innanzitutto come una questione di democrazia, ovvero di riacquisizione della capacità collettiva di decidere del proprio futuro e di quello del posto dove si sceglie, liberamente, di vivere.

Scommettere sui fatti

Viviamo tempi difficili, ma non possiamo permetterci di disperare. Una nuova politica di massa dei subalterni è sempre più necessaria, pena il consegnarsi prima alla testimonianza, poi alla definitiva sconfitta. Come abbiamo provato a scrivere, crediamo che tale nuova politica debba affrontare nuove sfide su diversi terreni: da quello ideologico a quello della produzione, da quello sociale a quello elettorale. La storia ci insegna che non esistono possibilità di vittoria se non si guerreggia su tutti i fronti, coltivando lo spirito di scissione di gramsciana memoria, «il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica».

A poco servono queste riflessioni, e quelle che si faranno post voto, se non si produrrà uno scarto sull’azione politica. In tal senso concludiamo facendo nostro l’ottimismo delle parole con le quali proprio Gramsci commentava sull’Avanti, poco più di cento anni fa, la rivoluzione bolscevica:

“I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così feroci come si potrebbe pensare e come si è pensato”.

Anche per noi la rivoluzione sarà materia dei fatti che riusciremo a far accadere.

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