ce n'est qu'un debut: pensierini referendari per una primavera di lotta
- Scritto da Rocco Albanese
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Riflessioni a caldo dopo il referendum del 17 aprile.
La semplicità del referendum del 17 aprile
Scrivere “a caldo” significa avventurarsi su un terreno assai scivoloso: puoi prendere cantonate, puoi trascurare elementi di fatto, puoi lasciarti andare a giudizi istintivi. Però ci sono situazioni che davvero lo impongono, di esprimersi in modo netto. Così è all'indomani di questo 17 aprile, alla chiusura delle urne che erano state aperte alle 7 del mattino per il referendum “sulle trivelle”.
I numeri dicono che è andato a votare il 31,2 % degli aventi diritto. Il referendum non è valido e l'art. 6 comma 17 del codice dell'ambiente resta intatto: in altri termini, per le grandi compagnie “i titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”. Resta quindi in vigore l'estensione gratuita e a tempo indeterminato delle concessioni di estrazione già esistenti, il regalo che il governo Renzi aveva fatto ai poteri del settore energetico con lo Sblocca Italia.
Il punto, però, è che oltre la freddezza dei numeri ci sono la passione, le ragioni e la fatica delle persone. Vista da questa angolatura, la giornata del 17 aprile ci racconta di oltre tredici milioni (13.334.764) di persone che considerano sbagliate le scelte di Governo e Parlamento. Persone che, letteralmente, non vogliono fare sconti a chi ancora investe sui combustibili fossili. Persone che usano uno strumento tecnicamente limitato, quale naturalmente è il referendum abrogativo, per fare a voce alta domande semplici: è possibile, oltre gli slogan da televendita, riaprire una seria discussione pubblica in Italia? Quali sono i luoghi in cui si decide del futuro del Paese? Come immaginiamo – cioè: quanto si finanza la ricerca pubblica; quali strategie normative e fiscali si adottano – le politiche energetiche per i prossimi trent'anni?
È da questo piccolo insegnamento che si può ripartire: la semplicità, quando non è semplificazione demagogica, è radicale. Ne dovrebbe tenere conto chi, per mesi nel 2014, ha fondato la propria legittimazione politica su una mitologica “unzione” ricevuta da undici milioni di italiani alle elezioni europee.
La democrazia violata dal governo e da Napolitano
In questo senso, oggi Renzi non vince affatto: a perdere è la democrazia. Il governo ha infatti boicottato con tutti gli strumenti a propria disposizione la tornata referendaria, con l'obiettivo di evitare il più possibile che il dibattito pubblico riguardasse il merito delle scelte politiche compiute. Solo per fare tre esempi. Si è fissata la data del voto al 17 aprile, due giorni dopo l'inizio del periodo referendario ai sensi della legge 352/1970, con il risultato di negare un election day e con un grande spreco di risorse pubbliche. Si è imposto il voto nella sola giornata di domenica, non permettendo l'estensione delle operazioni di voto, ormai consolidata, al lunedì mattina. Soprattutto, con la legge di stabilità si è fatta una frettolosa marcia indietro su cinque dei sei quesiti (quelli relativi alle norme che privavano le Regioni di voce istituzionale, in materia di nuove concessioni di estrazione) su cui ci saremmo dovuti pronunciare.
Ostacolare in questi termini una forma di democrazia diretta è gravissimo. Ma la scelta non può sorprendere, dal momento che essa si colloca perfettamente nel contesto di sempre più esplicito “superamento” della democrazia in Italia e in Europa. A questo proposito, la migliore chiave di lettura della fase politica che si apre con il 17 aprile l'ha offerta – consapevole o meno che fosse – l'impresentabile Giorgio Napolitano. Nell'intervista rilasciata a Repubblica da quello che, non ci stanchiamo di ripeterlo, sarà ricordato come il peggior presidente della Repubblica di sempre, si segnalano infatti alcuni elementi: un capo dello Stato emerito può serenamente invitare all'astensione, ossia negare il ruolo politico della partecipazione democratica espressa con l'esercizio del voto; tra il referendum del 17 aprile e il voto di ottobre sulla revisione cd. Renzi-Boschi della Costituzione corre un filo rosso; il discorso politico si polarizza, e da una parte stanno coloro che difendono a priori – senza alcuna discussione sul merito di problemi – la stabilità e il governo.
#ciaone. La natura “tecnicamente” fascista del Partito Democratico renziano
Tali elementi di riflessione si collocano in un quadro sociale allarmante. Il governo Renzi sta letteralmente smantellando l'Italia in un contesto di (apparente) unanimismo servile, che fa sembrare mosche bianche le voci critiche. Inutile fare l'elenco dei provvedimenti senza precedenti promossi dal governo. Qui basterà ricordare che come il bluff del Jobs Act sta iniziando a sgonfiarsi, così emerge sempre più chiaro il collateralismo tra governanti e maggiori poteri economici del Paese. Nel mentre, il ministro Poletti rilancia su parole d'ordine come “alternanza scuola-lavoro”, o su un'idea di welfare che impone lavoro gratuito di pubblica utilità ai percettori di ammortizzatori sociali.
Ecco il punto. Il problema non è solo la completa mancanza di strategie politiche credibili. Il problema vero è che le ricette messe in campo dal governo, da un lato irridono la partecipazione diffusa delle persone, dall'altro lato esprimono una visione organicista, paternalistica e violenta delle relazioni sociali. Nella storia italiana un modo simile di concepire la dimensione della politica è già esistito: era il fascismo.
Ora, sbaglierebbe del tutto chi pensasse che definire fascista la natura del PD renziano significa “spararla grossa”. In Italia, come scriveva Pasolini nel famoso “articolo delle lucciole”, ci sono più fascismi: e non soltanto quello coatto, pericoloso e folkloristico di Salvini e Meloni. È bene, allora, riconoscere il prima possibile gli avversari con cui si ha a che fare: e così chiamarli con il loro nome.
Come interpretare, se non nel senso del fascismo, l'uscita del deputato Ernesto Carbone? “Prima dicevano quorum. Poi il 40. Poi il 35. Adesso, per loro, l'importante è partecipare #ciaone”. Con questo tweet, “rettificato” in modo tardivo e assai poco credibile, un componente della segreteria nazionale del PD ha sbeffeggiato il voto popolare in modo davvero inedito. Sembra quasi di poterlo vedere, un Ernesto Carbone camicia nera nel 1925. Il Capo gode di consenso massiccio e ha carta bianca su ogni aspetto della vita pubblica italiana. E chi sta sotto al Capo ne imita le pose, ne sfrutta in modo tronfio e arrogante il potere. Ecco allora gli Ernesto Carbone, le camicie nere del XXI secolo, mettere in scena lo squadrismo 2.0. Chi dissente è irriso, ridicolizzato, offeso: è un “gufo” a cui, in fondo, velatamente si promettono emarginazione politica e sonore lezioni.
Nulla di diverso, naturalmente, si può cogliere nel discorso tenuto da Renzi ad urne appena chiuse. Il presidente del Consiglio ha pronunciato parole gravissime perché, con questo suo intervento, è ormai definitivamente maturato il carattere orwelliano del linguaggio renziano. E così, “la libertà è schiavitù”: il governo non si arruola tra i vincitori del referendum, ma il primo ministro può attaccare frontalmente chi il voto l'ha voluto sino al punto di ribaltare la realtà (i referendari ci hanno fatto spendere inutilmente soldi pubblici). Parimenti, “l'ignoranza è forza”: ad esempio quando parlando delle condizioni dei pendolari Renzi non trova di meglio che vantarsi delle Frecce di Trenitalia (che nulla c'entrano con la vita quotidiana dei pendolari).
Renzi il pacificatore e l'urgenza dei conflitti
Ma non è il populismo l'aspetto peggiore del discorso di Matteo Renzi. Accusare gli altri di essere demagogici e di “prendere in ostaggio i social network” (!) è – verrebbe da dire – “fisiologico”. Ben più inquietante è l'invito insistito alla “pacificazione”, alla fine dei conflitti, all'armonia sociale, alla fine della “guerra civile ideologica”: così testualmente Renzi.
Anche questo è fascismo. Nel Ventennio, infatti, era l'ordine della società corporativa – non il “disordine dei conflitti sociali” – a garantire l'evolvere “armonioso” dei rapporti sociali e del sistema-Paese. E allora, lo si può dire senza timore. In questi appelli di Renzi. Negli inviti di Napolitano a “non disturbare il manovratore”. Nel discorso mainstream tutto teso a negare perfino la possibilità di criticare i dogmi dell'austerità, così come la riforma Renzi-Boschi che di questa ideologia a-democratica è la traduzione istituzionale. In tutto ciò emerge fascismo.
Per questi motivi il referendum del 17 aprile è stato solamente l'inizio. Nei prossimi mesi in Italia capiremo se l'organizzazione fascista della vita associata si consoliderà, oppure se gli anticorpi della democrazia avranno la forza per riaprire una partita che sembra persa in partenza. In tal senso, non c'è più tempo per gli intellettualismi, o per ridicole discussioni su politicismo e equilibri(smi) tra addetti ai lavori. Occorre semplificare al massimo i luoghi di discussione. È necessario concentrarsi sulla concretezza dei contenuti e non su miopi ipotesi di “anti-renzismo”, che sarebbe degno erede dell'inutile stagione dell'anti-berlusconismo. Avremo bisogno di una organica piattaforma ri-costituente, che sulla base di alcuni paletti ben fermi sia aperta alla partecipazione e all'apporto di tutti e tutte. Avremo bisogno di costruire “democrazia permanente” accanto e oltre il rito del voto a suffragio universale, con forti campagne politiche che attraversino l'Italia, individuando obiettivi precisi per i quali valga la pena lottare in prima persona.
Ed ecco, infine: avremo bisogno delle lotte. Mettere in discussione noi stessi e i nostri schematismi sarà stato utile solo se servirà a ri-politicizzare davvero i problemi della vita quotidiana. Ciò significa smascherare fino in fondo le scelte bipartisan di gestione della crisi: mostrare quanto la nostra dignità e la nostra possibilità di vivere sereni e felici sono calpestate dai governanti, a cominciare dal Partito Democratico.
Oggi in Italia e in Europa vale il proverbiale così è se vi pare. I fascismi sono la realtà che viviamo e ha poco senso nascondere la testa sotto la sabbia. Politicizzare la rabbia e il disincanto è una priorità assoluta se vogliamo evitare che la guerra tra poveri e oppressi si avviti su sé stessa: se vogliamo sperare che una miccia si accenda e le lotte accadano, rendendo impossibile la vita di chi ci governa e ri-cominciando a cacciare i fascisti nelle fogne.
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