Il peggiore di sempre, ovvero "Del triennio eversivo di Giorgio Napolitano"
- Scritto da Rocco Albanese
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“Quando il sole è al tramonto anche le ombre dei nani sembrano giganti”
È proprio vero che al peggio non c'è mai fine, che “il problema non è la caduta, ma l'atterraggio”: già queste “banali” considerazioni dovrebbero consigliare cautela in qualsiasi analisi della fase politica e sociale che si è aperta in Italia nell'ottobre del 2011, con l'avvitarsi della crisi del governo Berlusconi e con gli spauracchi dello spread e del default, che monopolizzavano il discorso mediatico diventando un argomento oggettivamente terroristico per la popolazione del Paese.
E tuttavia, credo sia possibile affermare che Giorgio Napolitano sarà ricordato come “il peggiore di sempre”: ritengo cioè che tra cinquanta, cento anni, i libri di storia parleranno di Re Giorgio come del Capo dello Stato più dannoso della storia repubblicana; ancora più di quel Cossiga di cui tutti ricordano le gesta e le enormi responsabilità storiche e politiche.
Napolitano è il “peggiore di sempre” perché, a cominciare da quei giorni di ottobre del 2011 e sino ad oggi, ha agito e agisce non come “custode e garante” della Costituzione (artt. 87.1 e 74.1 Cost.), ma come attore politico di parte. Meglio ancora: Napolitano è stato negli ultimi tre anni il principale custode e garante della gestione autoritaria e tecnocratica della Crisi, supportando attivamente le fantomatiche riforme strutturali compiute dai governi Monti, Letta e Renzi e contribuendo in modo decisivo alla sterilizzazione di ogni dibattito e dissenso pubblico, tanto sulle folli scelte di macelleria sociale che hanno (sempre più) messo in ginocchio il Paese, quanto sulle inquietanti torsioni a-democratiche del nostro sistema istituzionale.
Si potrebbe obiettare suggerendo che sempre – nella storia repubblicana – il ruolo istituzionale del Presidente della Repubblica è stato incisivo, nei momenti in cui la sfera politica, partitica e parlamentare risultava in difficoltà o in crisi. Questo argomento, secondo chi scrive, è assolutamente infondato e consolatorio: può servire tuttalpiù a voltarsi dall'altra parte, a non (voler) vedere quel che è sotto gli occhi di tutti.
Ovvero un “salto di qualità” storico nel modo di esercitare le funzioni di Capo dello Stato, concretizzato in un'aggressione progressiva e sempre più profonda – non solo simbolica, come ben sanno le nostre vite – ad alcuni dei pilastri dell'ordinamento costituzionale.
Su Napolitano si è detto e scritto molto negli ultimi mesi, quasi in modo feticistico: anche in base a questo, per dare argomenti al titolo di questo articolo sarà sufficiente limitarsi a mettere a fuoco alcuni “eventi”, alcune tappe significative del triennale percorso “eversivo” del Presidente della Repubblica.
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31 Dicembre 2011, un inedito discorso di fine anno
La fine del 2011 arriva già “dopo”. Sei mesi prima, 27 milioni di italiani avevano bocciato la privatizzazione dei servizi pubblici locali e l'idea che sull'acqua fossero ammissibili profitti. Per tutta risposta, l'agonizzante governo Berlusconi aveva, con la “manovra di ferragosto” (d.l. 138/2011), reintrodotto le norme abrogate dal referendum – da lì a poco, colpite dalla sentenza n. 199/2012 della Corte Costituzionale – e soprattutto creato la possibilità che accordi aziendali deroghino a contratti collettivi nazionali e leggi.
Il 15 ottobre 2011, con l'infame sabotaggio della grandissima manifestazione romana contro l'austerità e il neoliberismo – qualcuno ebbe il coraggio di vantarsene, affermando che “doveva finire con qualche comizio...” – terminava, anche simbolicamente, un triennio eccezionale di lotta generale. Nel giro di pochi giorni, Berlusconi è comunque “costretto” a salire al Colle per rassegnare le dimissioni e Giorgio Napolitano – nonostante il Parlamento sia quello uscito dalle elezioni del 2008 – non scioglie le Camere per indire le elezioni.
Non lo fa perché ha un piano e per realizzarlo qualche giorno prima ha onorato Mario Monti della nomina a senatore a vita. Ed ecco la prima di quelle che saranno tante forzature mai viste prima: con paternalismo sfacciato, quasi ingenuo, Napolitano pensa – introducendo Monti in Parlamento – di precostituirsi una qualche legittimazione pubblica per la propria strategia. Tutti noi dovremmo ancor oggi chiederci cosa abbia potuto dire Re Giorgio a Pier Luigi Bersani, per convincerlo a non chiedere nuove elezioni: fatto sta che Napolitano inventa il governo Monti e ne diventa il primo sponsor e tutore.
L'ex commissario europeo devasta il Paese: riforma delle pensioni e questione “esodati”, tagli impressionanti allo Stato sociale, introduzione del pareggio in bilancio in Costituzione con i voti determinanti del Partito Democratico, legge Fornero con lo scalpo dell'art. 18, austerità ed esplosione del debito pubblico.
Le lacrime della Fornero si perdono, in quei mesi, nel mare di sofferenza imposta al Paese.
A volte si ha la memoria corta, e per questo è bene fissare alcuni appunti. Nel discorso per la fine dell'anno 2011, Napolitano si presenta al Paese non come Capo dello Stato, ma come vero e proprio “ministro per i rapporti con la cittadinanza con delega all'imbonimento”, e arriva addirittura ad usare la prima persona plurale – un “noi” che non è plurale majestatis, ma lapsus rivelatore – quando evidenzia le azioni del governo Monti.
Inoltre, Napolitano è uno degli inventori della retorica “dopo di me il diluvio”, presentando il governo Monti e l'austerità – ricordate il trio rigore-equità-crescita? – come scelte necessarie e senza alternativa.
“Con questi chiari di luna...”, sottolinea un'espressione "economica" di estrazione popolare le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
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“Non vedo nessun boom”
È l'8 maggio 2012 e Giorgio Napolitano commenta brevemente i risultati delle elezioni amministrative: si tratta della tornata elettorale che rivela al Paese la presenza del Movimento 5 Stelle, con la vittoria di Pizzarotti a Parma. In un solo minuto, il Capo dello Stato condensa quasi tutto un modo di interpretare il proprio ruolo politico e istituzionale nella gestione della Crisi.
Innanzitutto, il mantra della governabilità: Napolitano insiste su questo concetto, contribuendo in modo decisivo, in quei mesi, a porre le basi di un dibattito pubblico i cui esiti attuali sono noti. In nome della governabilità si può accettare quella che senza troppa fatica – lo vedremo dopo – si può definire una torsione neofascista dell'ordinamento costituzionale (particolarmente odioso e simbolico l'attacco agli istituti di democrazia diretta come il referendum abrogativo e la legge di iniziativa popolare).
Ciò che in quel commento Napolitano non vuole né può dire, poiché è meglio resti implicito, è che la governabilità risulta fondamentale perché è un dispositivo, da un lato di controllo dell'indirizzo politico, dall'altro di repressione del dissenso. Nel bel mezzo del 2012, infatti, siamo ben oltre la favola – sarebbe meglio definirla la menzogna – della democrazia dell'alternanza, e le larghe intese del Governo dei Tecnici hanno gettato la maschera. Il 18 aprile è diventata realtà la folle modifica dell'art. 81 della Costituzione, con l'introduzione nella Carta del principio del pareggio di bilancio: dicevano che lo chiedeva l'Europa, ma non era vero. E Monti, senza farsi scrupoli, dichiara pubblicamente l'obiettivo di “cambiare il modo di vivere degli italiani” per mezzo della distruzione dei diritti e dell'imposizione del neoliberismo.
In questo contesto, Napolitano difende con le unghie e con i denti il proprio governo, mettendo in campo due nuovi argomenti. Primo: la retorica della continua emergenza per legittimare uno stato di eccezione, una sospensione della democrazia che è sempre più evidente. Secondo: la polemica in favore della “responsabilità” e contro quella che – con termine incredibilmente miope – è definita “antipolitica”.
In sostanza, dopo essere stato il creatore di uno dei governi più autoreferenziali e dannosi della storia repubblicana, Napolitano si arrocca e nega, nei fatti, il diritto di esistenza alla disillusione e alla rabbia sociale, così contribuendo a polarizzare in modo demagogico il discorso pubblico e offrendo una prateria a Beppe Grillo. Un'operazione strumentale e astuta, quella della falsa contrapposizione tra responsabili e antipolitici, che nelle metodologie potrebbe paragonarsi al gioco degli “opposti estremismi” messo in scena negli anni '70.
Di lì a qualche mese, il M5S farà alle politiche il risultato che tutti sappiamo. È dunque esagerato affermare che Napolitano è uno dei principali artefici e promotori – insieme a Grillo e Casaleggio – del fenomeno pentastellato e di quelle che sono state descritte come le genetiche tensioni reazionarie del movimento grillino?
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Primavera 2013, si getta la maschera: tra saggi e larghe intese
Le elezioni politiche sono dunque un cataclisma. Il centro-sinistra, con una campagna elettorale ridicolmente ambigua, tutta giocata sulle lusinghe a Mario Monti, perde clamorosamente. Bersani ricorda fuori tempo massimo i suoi trascorsi socialdemocratici e propone gli “otto punti” al Parlamento, per cercare una maggioranza PD-SEL-M5S. Beppe Grillo, di contro, ci mette del suo e ghigliottina il segretario del Partito Democratico, spianando la strada che porta dritti alle larghe intese e alla continuazione delle politiche di austerità.
La situazione, in quel momento, era confusa e difficilmente gestibile: non c'è dubbio. Tuttavia, è proprio nel febbraio 2013 che Giorgio Napolitano “getta la maschera”, assumendo in modo esplicito un ruolo istituzionale invasivo e capace perfino di contribuire – in modo determinante – alla definizione dell'indirizzo politico del Paese. Un salto di qualità, questo, che si registra in due circostanze significative.
La prima è il conferimento a Bersani dell'incarico di formare una maggioranza di governo. Già nel discorso pronunciato in quel 22 marzo 2013, Napolitano lascia trasparire tutta la sua distanza dalle prospettive politiche ipotizzate e volute da Bersani: si parla di “soluzione difficile”, si invoca la “stabilità istituzionale” come valore supremo per il Paese, per l'Europa, per i Mercati. Peraltro, è di dominio pubblico, in quei giorni, la preferenza del Capo dello Stato uscente per un'opzione di larghe intese.
La seconda circostanza è invece la costituzione del comitato dei Dieci Saggi, esplicitamente incaricati da Napolitano – dopo il fallimento di Bersani – affinché propongano riforme economiche e istituzionali per il Paese. La vicenda dei Saggi del Presidente rappresenta probabilmente la più grave forzatura dell'ordinamento costituzionale, vissuta negli ultimi anni in Italia: tanto da portare un commentatore pacato come Ilvo Diamanti a parlare di “presidenzialismo preterintenzionale”.
In quei giorni Napolitano, che dovrebbe garantire super partes la tenuta costituzionale della vita politica, assume un'iniziativa tecnicamente incostituzionale – poiché la Carta non attribuisce in alcun modo un simile potere al Presidente della Repubblica – e nomina una commissione con il compito di formulare proposte legislative e dare concretizzazione alla funzione di indirizzo politico. Dunque, il Capo dello Stato si auto-attribuisce nei fatti le funzioni costituzionali spettanti al Parlamento (potere legislativo) e al Governo (potere esecutivo): va da sé che l'inettitudine del ceto politico italiano non può in alcun modo considerarsi la giustificazione per una deriva che, vista nell'ottica della tradizionale teoria della separazione dei poteri, farebbe rabbrividire Montesquieu. Ci siamo chiesti allora: chi custodirà il custode?
Ma nel frattempo è già aprile, il governo non è ancora formato e il settennato è terminato.
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La rielezione e quel discorso surreale
Stefano Rodotà poteva essere un meraviglioso Presidente della Repubblica, “costituzionalmente orientato”, ossia attentissimo ai principi supremi di solidarietà ed uguaglianza del nostro ordinamento. Ma quell'elezione non s'aveva da fare.
La storia è nota: Pier Luigi Bersani, ormai sconfitto e costretto a ricercare le larghe intese, mette a disposizione di Silvio Berlusconi una rosa di nomi; ne esce fuori Franco Marini, che non diventa Capo dello Stato e si tira fuori dalla contesa. Il PD è ormai allo sbando – sembra già in fase avanzata la transizione genetica verso l'approdo renziano – e cambia strategia in modo schizofrenico: Romano Prodi è candidato autorevole ma divisivo rispetto alla prospettiva delle larghe intese.
Si consuma in questo clima il colpo di mano dei Centouno, che fa saltare in aria il PD e porta il Parlamento – con poche eccezioni, tra le quali quelle di SEL e M5S – a negare se stesso, consegnandosi ad una nuova, incredibile rottura della prassi repubblicana: il 20 aprile 2013 Giorgio Napolitano è rieletto al Quirinale.
Il 22 aprile Re Giorgio pronuncia davanti al Parlamento in seduta comune un discorso surreale e drammatico. Spesso commosso e ripetutamente interrotto dagli applausi di un Parlamento in grado soltanto di plaudire alla propria incapacità, Napolitano, da un lato certificava con le proprie stesse parole la costituzione di uno stato di eccezione permanente, dall'altro lato dettava le condizioni chiedendo nuove larghe intese e richiamando espressamente il lavoro dei Dieci Saggi, quale indicazione programmatica per le riforme strutturali in ambito istituzionale ed economico. E come se non bastasse, “se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese”.
Si arriva al 28 aprile: Enrico Letta giura per assumere le funzioni di Presidente del Consiglio: il governo di larghe intese nasce come vera e propria emanazione della volontà politica del Quirinale, tanto da acquisire – come auspicato una settimana prima da Napolitano stesso – le relazioni dei Saggi come principale asse programmatico. Insomma si rivela e si consuma, nello spazio di due mesi, uno svuotamento senza precedenti del sistema democratico e costituzionale: l'organo di garanzia, il Capo dello Stato, è ormai diventato il principale promotore dell'indirizzo politico. E tale indirizzo politico – al di là delle declamazioni retoriche – parla la lingua dell'austerità e della gestione autoritaria della crisi.
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Oggi: il discorso alla “cerimonia del Ventaglio”
Il resto è storia degli ultimi mesi, fino a giungere a una settimana fa. All'iperattivismo politico, messo in campo con l'obiettivo di legittimare quotidianamente le politiche del governo Letta, Napolitano ha fatto seguire un periodo di “ritirata”. Matteo Renzi, sul piano politico e mediatico, è un cavallo di razza e degno erede dello spettacolarismo berlusconiano: è un valido motivo che consente al Capo dello Stato di rifiatare.
Ciononostante anche oggi, al tempo del “partito della nazione” e di un assordante conformismo mediatico nei confronti del governo Renzi, Napolitano non perde l'occasione per mettere il silenziatore al dissenso e “spingere” le riforme strutturali. Così è successo, ad esempio, nel discorso pronunciato il 22 luglio in occasione della cerimonia per la consegna del Ventaglio. Da un lato, un'esibizione di dis-umano equilibrismo con riguardo alla pur complessa tragedia di Gaza.
Dall'altro lato, una vuota evocazione della ripresa dell'occupazione, in particolare giovanile, e un pressante richiamo al Parlamento sul fronte delle “riforme strutturali”, economiche ed istituzionali. In particolare, Napolitano difende la riforma costituzionale attualmente in discussione al Senato, denunciando come “pregiudiziale diffidenza” verso il confronto politico ogni espressione di critica o dissenso.
C'è lo spazio anche per una excusatio non petita. Re Giorgio chiede che “non si agitino spettri di insidie e macchinazioni autoritarie”, ma non si accorge del carattere paradossale di questo monito: infatti, pur volendo togliere a ogni costo le esternazioni pentastellate, nel gruppo degli agitatori dovrebbero ricomprendersi personalità come Gustavo Zagrebelsky, Lorenza Carlassarre, Stefano Rodotà. Questo atteggiamento difensivo, d'altra parte, è rivelatore di un ulteriore salto di qualità nell'azione di Napolitano: ormai il Capo dello Stato chiede “riforme purché siano”, ed elimina sostanzialmente ogni riferimento ai fini costituzionali dell'agire politico (mentre simili richiami erano ancora presenti nel discorso di fine anno del 2011).
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Flash back e finale: Spaventa e lo SME
Si può dire, insomma, che Giorgio Napolitano è uno dei principali responsabili del disastro italiano degli ultimi anni. Ciò in quanto il Capo dello Stato, attraverso forzature progressive e via via più gravi dell'ordinamento e della prassi costituzionali, non solo ha giocato un ruolo politico vero e proprio in violazione del dettato della Carta, ma ha anche concorso ad imporre scelte di politica economica precise e fallimentari, nonché un disegno di revisione costituzionale chiaramente autoritario e volto ad accentrare la gestione del potere per meglio controllare il dissenso al tempo della crisi.
Si potrebbe proseguire soffermandosi sul rapporto tra Giorgio Napolitano e il processo Stato-mafia, o anche del Napolitano ministro degli Interni che non poteva non essere a conoscenza, nel biennio 1996/97, della situazione ambientale nella Terra dei Fuochi. Ma questa riflessione non vuole mettere in discussione a 360 gradi – come peraltro sarebbe anche giusto – la figura di Napolitano in quanto uomo politico, e sceglie di limitarsi a mettere in luce il ruolo “tecnicamente eversivo” dell'ordinamento costituzionale, giocato anche dal nostro Capo dello Stato negli ultimi tre anni.
Ad altri ben più titolati, quindi, il compito di riflettere su una figura comunque centrale nella storia dell'Italia repubblicana, su un uomo che, alla soglia dei novant'anni, vive la contraddizione di avere, da un lato il potere di determinare e garantire l'avanzamento delle politiche di austerity nel nostro Paese, dall'altro lato la fragilità di piangere ricordando Luigi Spaventa.
E se questo non elimina il giudizio per cui Napolitano è il “peggiore di sempre”, viene comunque da chiedersi cosa avrebbe commentato – vedendo le scelte socio-economiche sponsorizzate oggi da Re Giorgio – proprio quel Luigi Spaventa che, nel 1978, fornì solidi argomenti per la relazione dell'on. Giorgio Napolitano, la quale annunciava la contrarietà del PCI al (poco sostenibile) Sistema Monetario Europeo che veniva profilandosi nel dibattito europeo.