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Forma partito e riforma della politica alla fine della Seconda Repubblica

Forma partito e riforma della politica alla fine della Seconda Repubblica

Questo articolo è tratto dal 3° numero dei Quaderni Corsari. SCARICA LA TUA COPIA

Di crisi dei partiti si parla da almeno trent’anni. Il mondo è cambiato, la politica è cambiata, esistono tanti modi per partecipare alle decisioni collettive senza avere una tessera in tasca, e questa è stata ed è anche l’esperienza individuale di chi scrive. Allora perché la crisi dei partiti è un problema, per la sinistra, per i movimenti, per chi in generale è interessato al cambiamento?

Non è questa la sede per un’approfondita rassegna della questione del partito da Lenin all’operaismo italiano passando attraverso Michels e la socialdemocrazia tedesca. Ma una cosa va detta: dal 1944 in poi, i partiti, nel sistema politico italiano, sono stati il principale strumento necessario a far partecipare masse di cittadini a un gioco, quello del parlamentarismo liberale, che era stato costruito per tenerli fuori. Attraverso i partiti, la partecipazione di massa organizzata dalla politica forzava le regole del gioco senza farle saltare, salvaguardando il compromesso tra le forze antifasciste e le compatibilità della guerra fredda, ma allo stesso tempo fornendo ai cittadini degli strumenti reali attraverso cui determinare un cambiamento sulle politiche del governo, così come sull’economia o sull’amministrazione locale. Insomma, come recita l’art. 49 della Costituzione, «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

Una crisi globale di rappresentanza e governabilità

Questo meccanismo è saltato da tempo. E non solo in Italia. La crisi della democrazia rappresentativa è un dato ormai di assoluta evidenza, nell’Europa della troika. L’adozione delle politiche di austerity nell’eurozona, decisa a livello sovranazionale da organismi come la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale, ha accelerato e reso visibili al grande pubblico le tendenze di lungo periodo di «trasformazione verticale della democrazia» che si erano andate sviluppando negli ultimi decenni: «la denazionalizzazione delle interazioni sociali e gli evidenti limiti dell’azione unilaterale da parte di uno Stato; la svolta verso politiche regolatorie e l’integrazione verticale in spazi politici sovranazionali»[1]. «I recenti problemi nell’eurozona illustrano perfettamente questo punto: i governi degli Stati dell’Europa meridionale sono messi sotto pressione dai propri colleghi di altri Stati membri perché prendano le misure necessarie a salvare la moneta comune. […] Nel caso greco, il governo non solo ha ceduto alla pressione internazionale ed è stato sostituito da un governo tecnocratico nel 2011. Ma ha anche dovuto affrontare la troika – i rappresentanti di CE, BCE e FMI – presente per sincerarsi del fatto che le condizioni domestiche per il sostegno internazionale fossero davvero rispettate»[2].

È difficile comprendere la reazione popolare alla crisi e il diffuso sentimento anti-rappresentanza in settori della società tradizionalmente integrati in dinamiche moderate e liberal-democratiche senza fare riferimento a questi processi come l’accelerazione di una tendenza di lungo periodo, in cui «i partiti sono passati da rappresentare gli interessi dei cittadini nei confronti dello Stato a rappresentare gli interessi dello Stato nei confronti dei cittadini»[3] e «i governi si trovano ogni giorno di più vincolati da agenzie e istituzioni, e la serie di principi che obbligano i governi a comportarsi in un determinato modo e che definiscono i punti di riferimento della responsabilità si è enormemente ampliata»[4]. La crisi dei partiti e la crisi della democrazia rappresentativa coincidono, essendo stati i partiti di massa il principale strumento, nel XX secolo, attraverso il quale la partecipazione popolare poteva entrare nei meccanismi rappresentativi del parlamentarismo liberale, che non era di certo stato progettato per la democrazia e il suffragio universale. La funzione di mediazione tra rappresentanza della volontà popolare e governabilità che i partiti ricoprivano oggi è messa fortemente in discussione: «i vincoli all’attività di governo sono diventati molto più grandi, l’abilità di rispondere agli elettori è stata molto ridotta, e la capacità dei partiti di usare le proprie risorse politiche e organizzative per colmare o almeno gestire il conseguente gap è stata fortemente limitata. Le conseguenze per il sistema di governo rappresentativo saranno probabilmente molto gravi»[5].

 

Il caso italiano: la Seconda Repubblica tra bipolarismo e plebiscitarismo

La crescente insufficienza dei partiti nel colmare la distanza tra le istituzioni rappresentative di governo e la partecipazione popolare è particolarmente accentuata nell’Italia della Seconda Repubblica. Ormai da vent’anni vediamo il susseguirsi di tentativi sempre più plebiscitari di reazione alla crisi del sistema dei partiti: leggi elettorali sempre più distorsive del voto popolare, formazioni politiche sempre più personalistiche, calo costante degli iscritti, scissioni e fusioni sempre più frequenti, proposte programmatiche sempre più tecniciste e post-politiche, nella speranza di forzare attraverso la popolarità trasversale di un leader, attraverso proposte in grado di solleticare paure universali o interessi particolari o attraverso il combinato disposto di premi di maggioranza e sbarramenti differenziati, la formazione di maggioranze parlamentari stabili.

Il fallimento della cosiddetta Seconda Repubblica, per essere correttamente compreso, dev’essere interpretato alla luce della sua origine, e cioè del crollo del modello precedente: la democrazia dei partiti uscita dalla Resistenza e dalla Costituente. Un sistema che era già visibilmente pericolante, quando, tra il 1992 e il 1993, finì sotto i colpi di Tangentopoli e della riforma elettorale.

La diagnosi fu effettuata, con una lucidità e una preveggenza che probabilmente superano le sue stesse intenzioni, da Enrico Berlinguer, nella celebre intervista concessa a Eugenio Scalfari nel 1981. Un testo divenuto famoso per la denuncia della questione morale e non, purtroppo, per quello che Lucio Magri ne Il sarto di Ulm definisce «lo spunto per un nuovo sviluppo della riflessione comunista sul tema della democrazia, sul binario di Marx e Gramsci»: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la Dc: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...»[6].

La sua analisi è talmente impietosa da rendere evidente il carattere debole e propagandistico della soluzione che propone, cioè la «diversità comunista». Un dato soggettivo sicuramente reale, fatto di buona amministrazione e passione militante, ma non certo sufficiente a resistere alla forza di un processo storico e strutturale come quello descritto da Berlinguer, cioè la professionalizzazione dei partiti come macchine per la gestione dell’esistente, privi di quel dato di partecipazione di massa che allo stesso tempo li vincolava nelle scelte e nei comportamenti e ne legittimava la centralità nella democrazia italiana.

Oggi riesce quasi impossibile pensarlo, ma chi aveva bisogno di preferenze o di primarie, in un’epoca in cui il partito comunista aveva due milioni di iscritti e Dc e Psi stavano rispettivamente poco sopra e poco sotto il milione? Quella che Berlinguer identificava nel 1981 non era semplicemente una crisi etica, ma una crisi di legittimità e di forza: partiti svuotati e non più capaci di riempire il vuoto di partecipazione democratica che è connaturato alla rappresentanza parlamentare, interpretando correnti culturali e intrecciando bisogni sociali, fornendo all’individuo atomizzato della società occidentale strumenti cognitivi per comprendere la realtà e strumenti materiali per cambiarla.

Nel 1981, Berlinguer stava denunciando la fine di quella fase, esattamente come, negli stessi mesi, constatava l’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre. I partiti di massa, costruiti sull’Italia degli anni ‘40 e ‘50, non avevano resistito ai potenti cambiamenti prodotti dal boom economico degli anni ‘60, dalla rivoluzione culturale del ‘68 e dalla successiva crisi. Non erano più in grado di tenere insieme rappresentanti e rappresentati, amministrazione e cambiamento, e questo era tanto più grave per un partito come il Pci, che dagli anni ‘40 viveva nella costante tensione tra parlamentarismo e rivoluzione, sintetizzata nella difficile formula della "via italiana al socialismo". Una situazione resa ancora più grave dalla disgregazione dei soggetti sociali dovuta alla ristrutturazione capitalista e dalla riduzione dei margini di manovra dei poteri pubblici in seguito al taglio dello stato sociale e all’egemonia del mercato.

La questione morale, insomma, fin dall’epoca si poneva come una questione democratica: se i partiti non funzionavano più come pilastri della democrazia, che fare? Una domanda a cui il sistema politico italiano nella sua complessità non diede risposta per un intero decennio, autocondannandosi al suicidio collettivo del 1992-93. Allora, le scelte furono diverse: Dc e Psi si arroccarono nella strenua difesa del sistema dei partiti, considerando la corruzione un effetto collaterale inevitabile e denunciando la mancanza di alternative a quel sistema, pena la distruzione della rappresentanza democratica; il Pds, invece, scelse di cavalcare la tigre dell’americanizzazione, allineandosi alla battaglia contro il sistema dei partiti lanciata da Segni, dalla destra neofascista e dalla grande stampa. Maggioritario, bipartitismo e personalizzazione della politica come pilastri di un nuovo sistema di rappresentanza basato sull’alternanza, in cui il problema della partecipazione democratica è, semplicemente, rimosso. E fu questa linea a prevalere.

In questo modo, il male denunciato da Berlinguer fu curato con una dose più massiccia dello stesso veleno. E non solo in Italia, se prendiamo sul serio la tesi sui cartel party proposta nel 1995 dai politologi Richard Katz e Peter Mair[7], che questo termine identificavano i sistemi di collusione e dipendenza dalle risorse statali attraverso i quali i partiti, nella democrazie avanzate dell’Europa occidentale, supplivano al declino di partecipazione e militanza.

I nodi chiave identificati da Katz e Mair descrivono alla perfezione l’Italia degli ultimi trent’anni: compenetrazione crescente tra partito e Stato; collusione tra partiti; obiettivi politici che diventano talmente autoreferenziali, professionali e tecnocratici che la competizione politica si concentra solo sull’efficienza della gestione amministrativa; campagne elettorali costose, professionali e centralizzate; forte dipendenza dallo Stato per il finanziamento della politica e per benefit e privilegi; tentativo di supplire al calo degli iscritti attraverso strumenti come le primarie; spoliticizzazione di fondo della società.

Da questo punto di vista, il dibattito tra i fautori di un modello bipartitico, maggioritario, personalistico e plebiscitario e i sostenitori dalla democrazia dei partiti e del proporzionale, che attraversa in varie forme la sinistra italiana ormai da 20 anni senza mai schiodarsi da queste due polarità (D’Alema contro Veltroni, Bersani contro Franceschini, Cuperlo contro Renzi), è privo di senso. Non è stata la crisi del 1992-93, con il corollario della riforma elettorale, a cancellare il sistema dei partiti di massa. La democrazia dei partiti in senso tradizionale era già finita all’inizio degli anni ‘80, e basta pensare a quanto Bettino Craxi possa essere facilmente considerato il modello politico di Silvio Berlusconi per capire come la seconda repubblica non sia stata altro che l’evoluzione diretta dell’ultima parte della prima, cioè degli anni ‘80.

Insomma, chi rimpiange i partiti della prima repubblica sta in realtà rimpiangendo le stesse forze politiche che, a partire dagli anni ‘80, con la fine della partecipazione di massa, costruirono il sistema spoliticizzato e tecnocratico in cui ci troviamo ora.

 

L’alba della Terza Repubblica e il dibattito sul finanziamento pubblico

A vent’anni dal crollo della Prima Repubblica e a trenta dalla denuncia di Berlinguer, non è cambiato praticamente nulla. I partiti sono ben lontani dall’aver recuperato il radicamento e la capacità rappresentativa degli anni ‘50 e ‘60, e si trovano, strutturalmente e irrevocabilmente, in una condizione di subalternità totale sia ai poteri economici (vedi governo tecnico), sia ai media (vedi caso Unipol), sia ai loro stessi signorotti (vedi casi di corruzione che si susseguono uno dopo l’altro, o vedi voto dei 101 contro Prodi). Il tentativo di Pierluigi Bersani e dei suoi sostenitori di restaurare un potere del partito nel campo del centrosinistra, emancipando il Pd dalla tutela di «Repubblica» che ne aveva pesantemente condizionato la nascita, è fallito esattamente come fallì la stessa operazione a Dc e Psi nel 1992: salvare i partiti come unico strumento di democrazia possibile, quando in realtà i partiti sono ridotti a macchine elettorali con poche decine di migliaia di iscritti e nessun radicamento reale. Una linea assolutamente inefficace di fronte all’offensiva che, con la scusa della corruzione e dei costi della politica, mira semplicemente ad abbattere il potere pubblico in quanto tale e quindi la possibilità di una gestione democratica della società e dell’economia, conquistando nuovi spazi all’autoritarismo del mercato.

È in questo contesto che va inserita, per essere compresa, la questione del finanziamento pubblico ai partiti. Ovviamente chi scrive è lontanissimo dalla retorica antipartito di Beppe Grillo o dalla demagogia interessata dei liberisti alla Matteo Renzi, che attaccano il finanziamento pubblico per attaccare la democrazia organizzata e aprire la strada alla totale dipendenza della politica dal potere economico. Ma sostenere, come fa gran parte del centrosinistra, che il finanziamento pubblico sia necessario per mantenere i partiti autonomi dai grandi poteri economici, per disincentivare la corruzione e per impedire che siano i miliardari a farla da padrone in politica, è oltre i limiti del ridicolo, in un paese in cui, nonostante un ingente finanziamento pubblico ai partiti, la subalternità al potere economico è trasversale (vedi caso Cancellieri-Ligresti, ma anche la connessione tra gli ingenti finanziamenti versati dalla famiglia Riva a Pd e Pdl e le politiche messe in campo sull’Ilva di Taranto), la corruzione è tutt’altro che debellata e un miliardario domina la politica italiana da decenni.

Insomma: esattamente come non si può, nella critica della Seconda Repubblica, rimpiangere la Prima che la partorì, allo stesso modo è insensato difendere il finanziamento pubblico ai partiti in nome di obiettivi che, oggi, il finanziamento pubblico non raggiunge. Chi ha a veramente a cuore il rilancio di una stagione di partecipazione democratica dovrebbe avere il coraggio di riconoscere che, così com’è, il sistema dei partiti non ha il tasso di credibilità e legittimità necessari a giustificare un sostanzioso finanziamento pubblico, che oggi non limita né la corruzione né la subalternità ai poteri economici, bensì di fatto riempie i conti in banca di partiti in gran parte corrotti e subalterni ai poteri economici.

Ciò non significa, chiaramente, che non ci si debba opporre alle campagne demagogiche contro il finanziamento pubblico condotte da miliardari come Beppe Grillo o amici di miliardari come Matteo Renzi. Ma farlo in nome del sistema dei partiti oggi esistente significa semplicemente andare incontro a una sconfitta inevitabile. Qualsiasi proposta in quest’ambito, dal finanziamento pubblico alla legge elettorale, passando per le riforme istituzionali o per eventuali processi ricostituenti a sinistra, deve basarsi su un progetto di radicale riforma dell’organizzazione politica. Per quanto sia malintenzionato chi vuole buttare a mare il sistema dei partiti, non si capisce cosa ci dovrebbe convincere a salvarlo così com’è.

Se non si vuole che solo la demagogia plebiscitaria, autoritaria e reazionaria di Berlusconi o dei suoi epigoni genovesi o fiorentini resti in campo, bisogna che, da sinistra e dal basso, arrivi una proposta nuova. Un nuovo patto per la democrazia. La riscrittura di meccanismi e strumenti di partecipazione e organizzazione che siano in grado di mettere in campo un nuovo modello.

 

I movimenti, il cambiamento e il problema del soggetto generale

A trent’anni dalla denuncia di Enrico Berlinguer, il problema della rappresentanza democratica resta apertissimo, e i partiti sono, come allora, e forse più di allora, strumenti assolutamente insufficienti a rispondere alla diffusa e crescente domanda di partecipazione e di cambiamento. La Seconda Repubblica sta finendo con la stessa alternativa che chiuse la prima, quella tra la difesa del sistema dei partiti e il suo superamento in senso plebiscitario e anglosassone. La storia ha dimostrato l’insufficienza di entrambe queste prospettive, e sarebbe forse il caso di ripartire se non dalle risposte da Berlinguer, quantomeno dalle sue domande: come si esprime la partecipazione democratica sul piano sociale e su quello della rappresentanza politica, in una società complessa? Come possono i soggetti sociali, oggi articolati in maniera ben più frammentata e complessa di qualche decennio fa, trovare un’espressione all’interno e all’esterno del quadro politico parlamentare? Quali strumenti di organizzazione possono tenere insieme soggetti sociali e politici, partiti e movimenti, associazioni e collettivi, cooperazione e mutualismo, in coalizioni pragmatiche ed efficienti?

Questioni come queste, per tornare alla domanda che ci ponevamo all’inizio, non riguardano solo i dirigenti e militanti dei partiti, ma anche e soprattutto chi fa politica in maniera diversa. Il tema del rapporto tra movimenti e partiti, tra conflitto e rappresentanza, non è affrontabile se non assumendolo come una tensione irrisolvibile tra due poli, all’interno della quale un sistema complesso di attori in relazione tra loro trova una propria configurazione fatta di avanzamenti, ripiegamenti, cooperazioni virtuose e devastanti rotture, tentando però di mantenere un quadro generale di compatibilità prodotto da un orizzonte comune e condiviso, quello del cambiamento di questo sistema sociale e politico. Oggi questo quadro di compatibilità e questo orizzonte, pur nella differenza dei percorsi, non esistono.

Negli ultimi cinque anni i movimenti hanno evitato la questione, in parte con buone ragioni (l’effettiva delegittimazione della rappresentanza politica), in parte per opportunismo (criticare "la politica" nel suo complesso toglie molte castagne dal fuoco, tra le quali il difficile lavoro di discernimento tra il buono e il cattivo delle varie opzioni in campo, che può essere facilmente tacciato di collateralismo), in parte perché le strutture organizzate sono state superate su questo terreno da un sentimento diffuso nella società, e hanno assunto il paradigma del «non ci rappresenta nessuno». Intendiamoci: chi scrive ha strillato quello slogan più volte, nell’autunno del 2008, e non se ne vergogna assolutamente: dietro quelle parole ci sono, come si diceva prima, ottime ragioni. Il problema è che quel paradigma tiene insieme livelli di significato molto diversi: in parte, si riferiva alla ristrutturazione del quadro politico post-governo Prodi, con la virata verso un bipartitismo costruito sull’asse Berlusconi-Veltroni, che pretendeva di limitare il campo della rappresentanza a due sole opzioni, entrambe variazioni sullo stesso tema neoliberista, escludendo ogni proposta radicale o alternativa al sistema dominante; in parte, sottintendeva un discorso più ampio sulla crisi della rappresentanza, sullo svuotamento di potere e di rappresentatività delle istituzioni della cosiddetta Seconda Repubblica, sulla necessità di assumere obiettivi nella società e in livelli politici diversi, come quello europeo; in parte, alludeva a un ragionamento di fondo, alla critica della delega e al bisogno di partecipazione diretta e senza intermediari che è patrimonio dei movimenti sociali almeno dagli anni ‘70, o addirittura alle proposte di democrazia partecipata di cui tanto si discuteva nei social forum dei primi anni 2000; in parte, riportava l’odio per le forme partitiche, che alcuni avrebbero voluto sostituire con un’autorappresentanza dei movimenti; in parte, testimoniava la critica contro "la casta" dei corrotti; in parte, era solo incazzatura; in parte, si proponeva di cambiare la politica ricostruendola su basi più democratiche e partecipate, ma senza mai mettersi seriamente a discutere di quali fossero queste basi, tanto da alimentare il sospetto per alcuni si trattasse solo di sostituirsi, in termini generazionali, alla "casta" per poter approfittare degli stessi privilegi; in parte, non si poneva proprio il problema di come costruire, in alcuni per gusto del nichilismo e del "deve bruciare tutto", in altri per mancanza degli strumenti culturali necessari ad affrontare questo dibattito. Cavalcare l’onda della spoliticizzazione è più comodo che scovare nuovi e originali percorsi di ripoliticizzazione. E così abbiamo fatto finta di non vedere che per molti il grido "non ci rappresenta nessuno" era più vicino alle campagne contro gli indagati in parlamento che al rifiuto della delega e del parlamentarismo borghese.

Chiaramente c’è una grossa differenza tra il «que se vayan todos» delle proteste argentine del 2001 e quello del V-Day di Beppe Grillo. Mettere ogni protesta contro il sistema politico sotto l’etichetta comoda di "populismo" o di "antipolitica" è un vecchio trucco ideologico dell’establishment per delegittimare la critica. Ma ciò non significa che fenomeni diversi non si muovano, in qualche modo, in un discorso comune, che il pesce della mobilitazione sociale e quello del plebiscitarismo grillino non abbiano nuotato nello stesso stagno, che le parti più organizzate e politicizzate dei movimenti non abbiano giocato in maniera cinica e opportunistica con quest’ambiguità e con quest’equivoco per anni, fingendo di non vedere cosa si muoveva intorno a loro, flirtando con la pericolosissima idea che vi fossero soluzioni semplici a portata di mano, una volta saltato il tappo della rivolta, tanto che ogni tentativo di provare a elaborare proposte alternative era bollato come "riformista", come se l’elemento vertenziale non fosse costitutivo di ogni mobilitazione sociale che non voglia limitarsi all’evocazione di una redenzione messianica.

Criticare la rappresentanza parlamentare e prendere atto della crisi dei partiti non può significare rinunciare alla costruzione di soggetti generali. E questa necessità non può essere ridotta alla questione della rappresentanza e al momento elettorale. Gli esperimenti di conversione parlamentarista dei movimenti, come quello predicato negli Usa da Micah White, uno dei promotori di Occupy Wall Street, sono probabilmente destinati a fallire. Essi sono però un segnale, per quanto confuso, del fatto che anche la street politics deve uscire dall’autoreferenzialità se non vuole soffocare. L’accelerazione delle dinamiche sociali impressa dalla crisi e i processi di politicizzazione e radicalizzazione di massa prodotti dalle mobilitazioni contro l’austerity, in alcuni paesi, hanno creato il contesto giusto per la sperimentazione di nuovi percorsi di contaminazione tra politico e sociale, che sappiano buttare l’acqua sporca del partito burocratico statalista salvando il bambino della capacità di tenere insieme pezzi diversi della società in un comune e coordinato progetto di cambiamento. In Italia, probabilmente, la situazione è molto più complessa e difficile. Ma da un certo punto di vista questo ci permette di ragionare con più libertà, almeno sul piano teorico, di come sia possibile ricostruire, nell’epoca della frammentazione assoluta, strumenti politici di aggregazione e ricomposizione.

La strada è lunga, ma affrontarla è necessario. Il sistema di democrazia rappresentativa basata sui partiti che ha caratterizzato l’Europa nella seconda metà del ‘900 è in crisi da svariati decenni, così come la cosiddetta Seconda Repubblica in Italia sembra avvicinarsi alla fine. Per gestire una transizione di questo tipo, a prescindere dall’esito, c’è bisogno di soggetti politici generali, indipendenti e radicati nella società. Serve una riforma della politica che sappia assumere l’analisi della fase che abbiamo vissuto e impostare nuovi percorsi su basi diverse, all’altezza dei tempi e delle sfide che abbiamo di fronte. Ragionare sulle forme dell’organizzazione politica, sui modelli di finanziamento dell’attività militante, sul rapporto tra professionalizzazione e burocratizzazione, tra partecipazione e accountability, tra radicalità e radicamento, è un’impresa non più rimandabile.

1]      S. Lavenex, Globalization and the Vertical Challenge to Democracy, in H. Kriesi, S. Lavenex, F. Esser, J. Matthes, M. Buhlmann, D. Bochsler (a cura di), Democracy in the Age of Globalization and Mediatization, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2013, p. 93.

[2]       H. Kriesi, Conclusion: An Assessment of the State of Democracy Given the Challenges of Globalization and Mediatization, in H. Kriesi, S. Lavenex, F. Esser, J. Matthes, M. Buhlmann, D. Bochsler (a cura di), Democracy in the Age of Globalization and Mediatization, cit., p. 204.

[3]       P. Mair, Representative versus Responsible Government. MPIfG Working Paper 09/8. Max Planck Institute for the Study of Societies, Cologne 2009, p. 6.

[4]       Ivi, p. 14.

[5]       Ivi, p. 16.

[6] Marziani o missionari?, «La Repubblica», 28 luglio 1981, http://goo.gl/JtjZpY.

[7]       R. S. Katz, P. Mair, Changing Models of Party Organization and Party Democracy: the emergence of the cartel party, «Party Politics», Vol. 1, n. 1, 1995, pp. 5-31.

Ultima modifica ilLunedì, 13 Gennaio 2014 10:53
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