Politica e società nel movimento operaio e socialista. Appunti per una traccia storica
- Scritto da Pino Ferraris
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Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nel giugno 2011 in P. Ferraris, Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, Edizioni dell'Asino, Roma 2011.
Una vasta area di raggruppamenti sociali impegnati nella sperimentazione di nuove pratiche sociali (volontariato, cittadinanza attiva), in iniziative di economia solidale (commercio equo e solidale, banca etica, cooperative sociali) e in esperienze di neo-mutualismo e auto-aiuto esprime una rinnovata domanda di storia, va cercando punti di riferimento in un’altra tradizione della sinistra.
Questo avviene mentre assistiamo a una gigantesca e irresponsabile liquidazione e svendita del patrimonio di memoria dei duecento anni di ricche e tormentate vicende del movimento operaio e socialista europeo.
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La storiografia elaborata e tramandata da quella che fu la sinistra ufficiale è soprattutto storia dell’azione politica-statuale, storia dei gruppi dirigenti dei partiti politici e, in forma derivata, di quelli dei sindacati. È difficile ricostruire le fila di quella che potrebbe essere definita la “terza dimensione” dell’agire politico-sociale, quella che si manifesta soprattutto come azione positiva e realizzatrice nel basso, come pratica dell’obiettivo e autogestione dei risultati, come espressione delle capacità del far da sé solidaristico, come creazione di spazi e di istituti dell’autonomia della vita sociale[2].
Si pensi non solo alle società di mutuo soccorso e alle cooperative di produzione e consumo, alle Università popolari e alle Case del Popolo, ma anche alla rete ricca e vasta di servizi e di tutele che i movimenti sociali costruirono interagendo con il comunalismo socialista.
La storia del “fare società” che ha coinvolto milioni di uomini e donne, che ha fermentato e umanizzato questo straordinario spazio dell’Europa sociale, oggi messo a repentaglio, è una storia dispersa, svalutata e, in gran parte, abbandonata.
Giulio Marcon, che, nel suo libro Le utopie del buon fare[3], ha cercato di ricomporre i «percorsi della solidarietà dal mutualismo al terzo settore, ai movimenti», ha fatto un’opera pionieristica e ha incontrato grandissime difficoltà.
Belgio, fine ’800: la breve avventura di un welfare senza Stato
Lo scorso anno [nel 2010, n.d.R.], in un Master presso l’Università di Roma, che era rivolto a giovani operatori e militanti impegnati nell’area del volontariato e dell’economia solidale, chi scrive concentrava la propria lezione sulla ricostruzione dell’eccezionale esperienza del movimento operaio belga negli anni che vanno dal 1880 al 1914.
Il Belgio di quei decenni è un piccolo Paese di sette milioni di abitanti ma fortemente e precocemente industrializzato e dotato di avanzate strutture di modernità capitalistica.
Attorno al 1880 prende avvio, all’interno di una preesistente rete di società di mutuo soccorso, uno straordinario movimento cooperativo militante[4] inizialmente promosso dalle prime associazioni sindacali e quindi animato da un vivace e originale Partito operaio belga fondato nel 1885.
Le cooperative inizialmente avevano concentrato la loro attività nella produzione e vendita del pane. Il costo del pane allora incideva per il 35 per cento sul bilancio di una famiglia operaia. La cooperativa ne dimezzava il prezzo garantendone la qualità.
La Casa del Popolo di Bruxelles nel 1905 produceva e vendeva dieci milioni di kg di pane all’anno ed era la più grande fabbrica di pane del Belgio. La Casa del Popolo Vooruit di Gand, sempre nel 1905, produceva 100 mila kg di pane la settimana. Queste due cooperative negli anni ’80 dell’800 avevano sostenuto lo sciopero di 26 mila minatori del Borinage inviando 30 tonnellate di pane.
L’aspetto particolare dell’esperienza belga consiste nella sistematica interazione collaborativa tra le varie istituzioni operaie: le società di mutuo soccorso depositano i contributi accantonati presso le grandi cooperative, le quali li usano per fare nuovi investimenti. Il sistema cooperativo apre farmacie cooperative che, abbattendo i prezzi dei medicinali, agevolano l’assistenza medica e farmaceutica delle mutue. Le cooperative stesse erogano poi una sorta di previdenza integrativa, rispetto a quella della mutualità, la quale viene calcolata sulla durata e sulla quantità degli acquisti fatti presso gli spacci cooperativi. La cooperazione è vista e vissuta dagli operai sindacalizzati come strumento fondamentale di lotta contro il caro-vita e come sostegno agli scioperi. La cooperativa è poi la struttura economica che permetteva la costruzione degli spazi architettonici e sociali della rete delle Case del Popolo, luoghi di confluenza delle diversificate forme dell’associazionismo.
La “Nuova Università” di Bruxelles, gestita dai socialisti, non solo laurea medici e farmacisti che operano nel sistema mutualistico e cooperativo, ma con i suoi professori promuove corsi decentrati di cultura generale e corsi di istruzione professionale. L’Università di Bruxelles attiva le iniziative letterarie, musicali e teatrali delle Case del Popolo[5].
Nel Belgio di quegli anni possiamo vedere all’opera una sorta di “welfare senza Stato”, nato dal basso, nel quale sono inserite centinaia di migliaia di famiglie operaie.
Alcuni istituti e forme di tutela dei lavoratori scaturiti dall’esperienza belga hanno ancora oggi una vitale operatività. Il cosiddetto “sistema Gand” di gestione della disoccupazione costituisce uno dei più importanti elementi della forza del sindacalismo scandinavo. In Svezia, ad esempio, è il sindacato che definisce l’offerta di lavoro adeguata per il disoccupato, evitando l’insorgere di un doppio mercato del lavoro. Inoltre, la gestione sindacale della mobilità incentiva il lavoratore disoccupato a conservare la sua adesione al sindacato[6].
Altra originale creatura dell’800 operaio belga che oggi torna di attualità è il cosiddetto sindacalismo ad insediamento multiplo, che si è rivelato particolarmente efficace per la tutela di lavoratori precari e dispersi. Sindacalismo e mutualismo operano in modo congiunto. Il reciproco aiuto per servizi di tipo mutualistico diventa momento di costruzione della solidarietà e della coesione necessaria per esprimere la forza della rivendicazione sindacale.
Le Casse Edili, in Italia, sono la realizzazione storica di questo tipo di sindacalismo che, mutualizzando l’instabilità del lavoro edile, costruisce potere contrattuale. Troviamo oggi esperienze di questo genere nel sindacato delle segretarie di Boston e tra i lavoratori della comunicazione in Gran Bretagna. Il mutuo soccorso è poi la base sindacale della Freelancers Union dei lavoratori autonomi di seconda generazione di New York[7].
Una diversa politica per fare società
L’esplorazione dell’esperienza belga, quando si limita alla mera narrazione di forme di altra-società e di altra-economia, risulta però scarsamente comprensibile. Non si può prescindere dal modo di fare politica e dalla proposta ideale e programmatica del Partito operaio belga che fu protagonista all’interno di quelle vicende associative.
G.D.H. Cole, nella sua monumentale Storia del pensiero socialista, segnala l’importanza e l’originalità, nel movimento operaio europeo, della Carta di Quaregnon, approvata nel 1894 dal Partito operaio belga[8]. Essa, secondo Cole, rappresenta la risposta alternativa al Programma di Erfurt del 1891 della socialdemocrazia tedesca.
Con estrema sintesi si può dire che il programma tedesco afferma l’assoluta centralità della costruzione di un partito politico centralizzato e gerarchico, quasi “Stato nello Stato”, come strumento supremo per l’edificazione del socialismo mediante lo Stato.
Il progetto del partito belga propone la convergenza del vasto pluralismo delle “libere associazioni” per far emergere “un’altra società” dentro la società, utilizzando “anche” strumenti istituzionali radicalmente democratizzati: i comuni e il parlamento.
Le forme dell’esperienza dei movimenti sociali difficilmente possono venire analizzate isolandole dal loro rapporto con gli strumenti della politica.
Proviamo a delineare una sorta di traccia dello sviluppo di questa relazione nel lungo periodo, pur rischiando una drastica semplificazione e una temeraria torsione interpretativa.
Il binomio mutualità-resistenza
Due momenti esemplari e originari della risposta operaia alla “questione sociale” che scaturiva dal nascente industrialismo capitalistico sono senza dubbio, nell’Inghilterra del primo ’800, il movimento luddista e l’owenismo.
La prima vicenda, che si colloca tra il 1811 e il 1814, secondo il grande storico inglese E.P. Thompson è troppo denigrata «come immagine di un moto rozzo e spontaneo di lavoratori manuali e analfabeti, che si opponevano ciecamente all’introduzione delle macchine»[9]. Esso espresse invece un alto grado di organizzazione, contenuti politici e morali molto elevati e può essere considerato la matrice della moderna azione di “resistenza” degli operai nella produzione.
L’owenismo, che si può collocare tra il 1824 e il 1833, tende ad affermare un orgoglioso socialismo cooperativo in senso anti-statalista e nell’autonomia dei lavoratori dai benefattori[10]. Esso struttura l’azione sociale come ricerca dei lavoratori di sottrarre la propria esistenza alle spietate leggi del mercato, operando negli ambiti di vita con il mutuo soccorso e la cooperazione. Anche quest’esperienza è stata giudicata dalla storiografia marxista con grande sufficienza come manifestazione ingenua e primitiva di conati utopistici.
La fase iniziale dell’autodifesa operaia, in tutta l’Europa industrializzata, è comunque caratterizzata dal binomio resistenza/mutualità. Queste forme associative sono rette dal principio di solidarietà che sostituisce la fraternità della famosa triade della Rivoluzione francese.
La fraternità afferma l’esigenza di un aiuto oblativo e verticale tra diseguali (carità cristiana o filantropia massonica), la solidarietà è invece un principio che si impone soprattutto nel 1848 operaio parigino e che si manifesta come aiuto orizzontale e reciproco tra eguali (uno per tutti e tutti per uno).
Il mutualismo è un associazionismo per, esprime una solidarietà positiva: esso non rivendica verso l’alto, tende invece a realizzare nel basso l’obiettivo.
La resistenza poggia soprattutto sulla solidarietà negativa, è un associazionismo contro che promuove la lotta rivendicativa verso l’alto.
Quando nel movimento operaio prevaleva la coppia mutualità/resistenza si realizzava un bilanciamento tra solidarietà positive e solidarietà negative e un intreccio tra azioni di lotta nel lavoro e interventi di tutela negli ambiti di vita.
Per comprendere gli sviluppi futuri e le nuove configurazioni di un movimento operaio più strutturato e istituzionalizzato occorre anche aver chiara la distinzione tra associazione e organizzazione.
Con il termine associazione si intende un raggruppamento volontaristico all’interno del quale tutti i soci hanno eguale accesso alla gestione e lo stare insieme viene regolato sulla base di vincolanti norme di diritto (statuti). Organizzazione è una struttura cui si aderisce in modo volontario all’interno della quale vige però una divisione di fatto del lavoro tra un apparato che amministra e i seguaci che controllano.
All’interno della variegata esperienza dell’associazionismo operaio delle origini, la nascita del partito giunge relativamente tardi ed emerge faticosamente tra le divisioni e i contrasti che tormentano le vicende della Prima Internazionale (1864-1874).
Il dibattito all’interno dell’Internazionale non fu solo quello che divise coloro che proponevano la costituzione del partito come strumento autonomo di lotta politica dei lavoratori (marxisti) da coloro che rifiutavano la lotta politica per la conquista dello Stato (anarchici). Vi erano dissensi tra centralisti e federalisti, tra mutualisti e collettivisti. E vi era poi un’importante presenza degli “eclettici”, di coloro che rifiutavano rigide contrapposizioni dottrinarie e operavano per evitare la rottura della Prima Internazionale.
Il far da sé solidale
Tra gli internazionalisti eclettici si colloca sicuramente César De Paepe[11], protagonista della vita e delle battaglie della I Internazionale, teorico e fondatore del Partito operaio belga (1885), ispiratore della Carta di Quaregnon così distante dal quel programma tedesco di Erfurt che trovò larghissimi consensi da Turati a Lenin.
Nel pensiero di De Paepe e nell’esperienza belga convergevano l’influenza del far da sé cooperativo anglosassone, gli stimoli francesi del federalismo libertario di Proudhon e del «socialismo integrale» di Malon che dava grande rilievo al ruolo della morale e della cultura nei processi di trasformazione sociale, le istanze marxiane del classismo collettivista e della necessità di organizzare la lotta politica.
In Italia si avvicina alle posizioni di De Paepe l’internazionalista Osvaldo Gnocchi Viani[12], promotore del Partito Operaio Italiano nel 1882 e, dai primi anni ’90 dell’800, fondatore delle Camere del Lavoro. Nella concezione di Gnocchi Viani erano fortemente presenti il principio del «far da sé solidaristico», il comunalismo federalista, la diffidenza verso l’ideologismo degli intellettuali, la netta distinzione tra il «partito politico» dei borghesi e il «partito sociale» degli operai. Il partito politico è quello che «ha il popolo come mezzo» e la sua «specializzazione» sta nel garantire il dominio dei pochi sui molti. Il partito sociale è quello che ha «il popolo come fine» e la «sua specializzazione è nella massima che l’operaio deve fare da sé»[13].
Gnocchi-Viani è fortemente critico nei confronti della «scuola della riforma sociale per opera dello Stato» di derivazione bismarckiana. Sostiene invece che le leggi non debbono intervenire per sottrarre spazi, materie, possibilità al «far da sé» degli operai, ma debbono intervenire per «togliere ostacoli», per agevolare l’esercizio dell’autogestione operaia dei problemi e degli interessi degli operai stessi[14]. La sua battaglia contro Turati, accusato di voler importare in Italia il «partito tedesco», fu molto netta; la sua sconfitta significò anche esclusione e oblio.
I primi fragili e piccoli partiti operai e socialisti che tentarono di emergere negli anni della Prima Internazionale prevedevano quasi tutti l’adesione collettiva (erano federazioni di leghe di resistenza, di società di mutuo soccorso, di cooperative...) e l’esclusivismo operaio (la presenza dei soli lavoratori manuali). Essi furono travolti dalla crisi dell’Internazionale.
Nel periodo che va dall’ultimo decennio dell’800 alla Prima Guerra Mondiale si afferma la seconda fase dell’esperienza del movimento operaio europeo: la coppia mutualità/resistenza viene sostituita dalla coppia partito/sindacato, dall’associazione si passa all’organizzazione, declina il mutualismo. Prevale nel movimento socialista la “solidarietà negativa” che caratterizza le organizzazioni di combattimento della classe operaia: il sindacato che rivendica contro i padroni e soprattutto il partito che lotta intorno alla conquista dello Stato. Sta nascendo quello che diventerà il partito burocratico di massa, protagonista indiscusso del Novecento.
Le forme del partito di massa
Paolo Farneti, che è stato uno dei più acuti sociologi della politica, interpreta la Sociologia del partito politico di Roberto Michels[15], che è soprattutto l’analisi della socialdemocrazia tedesca, come una descrizione della transizione «dal livello associativo o solidale (civile) a quello organizzativo-autoritario (politico). Ai rapporti di solidarietà – conclude Farneti – subentrano rapporti di obbedienza e di comando e il passaggio è dovuto alla divisione del lavoro richiesta dalla politica»[16].
È una “tendenza” reale operante nella genesi del moderno partito di massa. Però questa tendenza non è lineare e univoca come la descrive Roberto Michels.
Il campo della politica è sempre sottoposto a un doppio movimento. Pizzorno ci dice dei due volti della politica: da un lato essa si presenta come «un modo di fondare la legittimità e quindi verificare il consenso del nuovo Stato a sovranità popolare», dall’altro lato si manifesta come «modo di lottare, con mezzi che possiamo chiamare politici, contro le condizioni di disuguaglianza proprie della società civile»[17]. Il doppio movimento si potrebbe anche descrivere come l’impresa volta alla “statualizzazione” della società civile che si incrocia e si scontra con ricorrenti processi di politicizzazione che partono dalla società civile, come suggerisce Farneti.
Inoltre questa tendenza non è univoca. Infatti, si presentano modelli diversi di partiti di massa. Nella costruzione storica del moderno partito di massa vediamo sorgere precocemente il partito socialdemocratico tedesco nel 1875 e, con un certo ritardo, il partito laburista inglese nel 1900. In mezzo, nel 1885, nasce il Partito operaio belga. Essi rappresentano anche tre diversi modelli del partito di massa della sinistra europea.
Utilizzando liberamente categorie interpretative elaborate da Paolo Farneti possiamo individuare un modello di partito alternativo alla società civile. È quello che tende a inglobare, a partitizzare, a sottomettere tutte le forme di espressione della società. È l’esperienza della socialdemocrazia tedesca di Kautsky e dei partiti della Terza internazionale. Vi è poi un secondo modello di partito, il vecchio Partito laburista, il quale nasce e vive come emanazione e rappresentanza dei sindacati nel parlamento. Farneti lo definisce come un partito complementare rispetto alle strutture della solidarietà operaia.
È necessario aggiungere un terzo modello di partito che potremmo definire come il partito coordinatore delle forme plurime dell’associazionismo operaio. È il Partito operaio belga della Carta di Quaregnon fondato dall’internazionalista César De Paepe.
L'esperienza belga: autonomie confederate
La ricerca storica e teorica della sinistra ha trascurato l’esperimento belga. Nell’Europa continentale ha vinto il modello della socialdemocrazia tedesca. Sovente i tentativi mancati e le tendenze sconfitte dal processo storico ci dicono molto e aprono interrogativi nel presente.
Il Belgio dell’ultimo quarto del XIX secolo era un paese con notevoli differenziazioni culturali e linguistiche (Fiandra, Brabante, Vallonia). Il non vasto territorio si disarticolava in aree caratterizzate da strutture socio-economiche molto difformi: zone agricole convivevano all’interno di una realtà fortemente industrializzata, i bacini industriali si distinguevano per una loro forte specializzazione (aree minerarie, distretti tessili, concentrazioni dell’industria chimica, metallurgica e del vetro).
Nelle diverse regioni del paese prevalevano dei mix particolari di esperienze associative: nelle zone della Vallonia, ad esempio, era forte un sindacalismo di azione diretta che si innestava nelle strutture mutualistiche, mentre nelle Fiandre, a Gand, prevaleva l’esperienza cooperativa originata dal sindacalismo tessile. Il Belgio si colloca poi al crocevia di diverse tradizioni culturali: questo variegato mondo associativo era percorso da culture politiche che provenivano dai paesi più vicini – la Francia, la Germania, l’Inghilterra.
Il movimento operaio belga riesce rappresentare la variegata e differenziata articolazione sociale e culturale costruendo una rete federativa che unisce le autonomie senza omologarle.
In secondo luogo, il partito operaio non si colloca come vertice gerarchico delle molteplici “libere associazioni”, ma si inserisce come attore di una politicizzazione pervasiva dentro la trama dell’associazionismo, costruendo il senso di una comune appartenenza.
La manifestazione più clamorosa dell’anomalia belga, che fece scalpore nel movimento socialista del primo ’900, fu l’imponenza degli scioperi politici di massa (per il suffragio universale) del 1893, 1902 e 1913, realizzati da un sindacalismo accusato di settorialismo e di disarticolato localismo. Rosa Luxemburg ripetutamente parla del fascino dell’esempio belga e, nel 1913, pur criticando alcuni aspetti della gestione dello sciopero generale di quell’anno, seccamente afferma che la potente, centralizzata e immobile macchina sindacale tedesca doveva «provare vergogna» di fronte allo slancio politico-sindacale dei lavoratori belgi[18].
La Luxemburg, pur acuta analista della forma partito, nel cogliere la distanza tra la concentrata e paralizzata potenza dei tedeschi e i decentrati, multiformi poteri attivi della società del lavoro belga, non riusciva a individuare l’origine di queste divaricate esperienze nella diversa visione e struttura dei due partiti e nelle differenti loro relazioni con i raggruppamenti della società civile.
Ogni lavoratore belga che diventava socio di una cooperativa, che si iscriveva ad un sindacato o a una società di mutuo soccorso, sottoscriveva un foglio di adesione al programma del Partito operaio.
Scriveva nel 1906 Vandervelde che il Partito operaio non è nient’altro che la federazione di questi raggruppamenti economici e sociali: «togliete le mutualità, i sindacati e le cooperative che gli forniscono la maggioranza dei suoi membri e la quasi totalità delle sue risorse e nelle sue federazioni regionali non resterebbero che alcune piccole leghe operaie che non danno segni di vita se non alla vigilia delle campagne elettorali»[19]. Il partito animava e guidava queste associazioni, ma era anche fortemente dipendente da esse e, quindi, rispettoso delle loro libertà.
Il partito socialdemocratico tedesco degli anni ’90 dell’800 aveva superato l’adesione collettiva, e il sindacato appariva formalmente separato dal partito. In realtà il partito, attraverso la penetrazione tra gli iscritti e negli organi dirigenti, controllava il sindacato e le altre forme associative come organizzazioni “collaterali” e gerarchicamente subalterne.
L’universo associativo belga era retto dal principio federativo. Un federalismo orizzontale articolava il partito in 26 federazioni regionali con ampie autonomie, alle quali facevano capo complessivamente 500 raggruppamenti sociali e politici.
A questo federalismo orizzontale si accompagnava poi un federalismo funzionale che faceva sì che i diversi raggruppamenti (partito, cooperative, sindacati, mutuo soccorso), salvaguardando le loro autonomie, si incontrassero in modo sinergico e collaborativo nella vasta rete delle 172 Case del Popolo, centri polivalenti di vita sociale e nodi essenziali della rete federativa territoriale e funzionale.
Sarebbe inesatto descrivere l’esperienza belga come immune dai processi di istituzionalizzazione che, soprattutto a partire dal primo ’900, coinvolgono l’insieme del movimento.
Potenti cooperative, importanti società di mutuo soccorso, grandi Case del Popolo come quelle di Gand nelle Fiandre, di Bruxelles nel Brabante e di Jolimont in Vallonia, solide strutture sindacali locali e di categoria, ponevano imperativi gestionali che non sfuggivano alla divisione tecnica del lavoro e alla burocratizzazione.
Ma il principio delle autonomie federate attiva, limitando la concentrazione e la vasta dimensione, la capacità di resistenza democratica allo sviluppo burocratico.
La Grande Guerra e la militarizzazione della politica
Con l’esperienza della Prima guerra mondiale si può dire che incominci un’altra storia del movimento operaio europeo. Il Belgio, Paese neutrale, viene brutalmente aggredito e occupato dalle armate germaniche. La partecipazione dei socialisti belgi al governo di union sacrée, il coinvolgimento dei sindacati nella mobilitazione industriale, l’attribuzione al movimento cooperativo di funzioni para-statali di approvvigionamento delle popolazioni affamate, travolgono le particolarità dell’esperienza belga.
La “guerra civile europea dei trent’anni” (1914-1945) ha brutalmente plasmato e strutturato il conflitto sociale e politico in tutta l’Europa.
«La politica ha ormai un volto solo: quello della statualità. Scompare l’idea stessa di una trasformazione della società che possa avvenire attraverso processi di politicizzazione, di produzione di coscienza e di idealità dall’interno dell’esperienza sociale del lavoro e della vita e nel corso dell’azione diretta delle grandi masse»[20].
La storiografia di sinistra mette in evidenza i solitari e disperati sussulti sociali dell’immediato primo dopoguerra, il mito dell’Ottobre rosso colora di illusioni future un presente che in realtà blocca e chiude la grande ondata democratica e socialista partita dal 1848.
In quegli anni giunge a compimento il lungo, tortuoso e sussultorio processo di “nazionalizzazione delle masse”[21] attivato nei cervelli e nella sperimentazione politica delle classi dirigenti europee dal trauma della Comune di Parigi del 1871.
Durante la Prima guerra mondiale e negli anni del primo dopoguerra si compie la militarizzazione della società civile come estensione dell’interventismo dello Stato, burocratizzazione delle macchine politiche e sindacali e delle imprese. Richard Sennet descrive in pagine limpide e sintetiche la nascita e la diffusione del «capitalismo sociale militarizzato»[22].
Contemporaneamente non dobbiamo dimenticare che in quegli stessi anni del primo dopoguerra viene portato avanti il processo di “democratizzazione”, con la concessione del suffragio universale maschile in quasi tutte le nazioni europee (in alcuni paesi si ottiene anche il suffragio femminile). Si stabilizza un sistema di competizione democratica incardinato sullo scheletro d’acciaio della burocrazia militare. Si fa realtà la massima weberiana: «la burocrazia è l’ombra necessaria e inseparabile della democrazia».
Partiti di massa e controllo della domanda sociale
I partiti di massa, nati nell’esperienza organizzativa del movimento operaio, si sono sviluppati anche in ambito borghese.
Partiti di sinistra, partiti conservatori, cristiano-sociali e liberali competono non solo per il consenso elettorale di vaste masse popolari, ma si misurano anche sui grandi numeri degli iscritti attraverso la stabile espansione organizzativa e sub-culturale radicata dentro il tessuto sociale.
Nel 1967 Stein Rokkan poteva scrivere che il sistema politico europeo degli anni ’60 del secolo scorso «riflette ancora, con poche eccezioni significative, la struttura delle fratture degli anni venti». E le fratture sociali, i cleavages che avevano strutturato la lotta partitica a partire dai primi decenni del ’900, lo studioso norvegese li individuava nel conflitto tra capitale e lavoro, nella contrapposizione tra Stato e Chiesa, nell’opposizione tra centro e periferia e nel contrasto tra città e campagna[23].
Nel mezzo secolo che va dal 1918 al 1968 è stato sospeso e interrotto quello che abbiamo definito il «doppio movimento della politica»? È scomparsa la politicizzazione dal sociale? Ha operato soltanto il volto della politica come statalizzazione?
Nel descrivere lo sviluppo e la strutturazione della politica di massa competitiva nei Paesi dell’Europa occidentale Rokkan annota: «Sir Lewis Namier paragonò una volta le elezioni alle dighe di un canale: queste consentono la crescita delle forze socio-culturali per farle poi confluire negli appositi canali del sistema ma consentono anche di arginare la marea e di contenere i flutti»[24].
Questa metafora idraulica non nega che vi siano dei flussi socio-politici “montanti” e che essi abbiano anche un’incidenza sulla politica istituzionalizzata, ma essi sono sempre “canalizzati” e, quando si manifestano come “maree”, vengono risolutamente “arginati”.
Il periodo precedente la Prima guerra mondiale ci appare, nell’ambito socialista, come una creativa fase “costituente”, i decenni successivi come una stagione di amministrazione del “costituito”.
I flussi ascendenti della politicizzazione sociale non generano più invenzione di nuovi “istituti” della sociabilità operaia, ma si proiettano come tensioni inter-burocratiche, scissione e frammentazione delle organizzazioni esistenti.
Il partito burocratico di massa, mentre veicola verso il basso la “statalizzazione” della società, per vivere, espandersi e competere, deve anche attivare una giusta dose di socializzazione politica e di mobilitazione controllata.
L’uso della risorsa della militanza, la circolazione sociale della comunicazione politica, la costruzione e l’utilizzazione di associazioni collaterali di interessi, le risposte ai problemi di identità e di espressività sono componenti strutturali del tradizionale partito di massa che alimentano e orientano la domanda politica. Esse, in circostanze di acuto fermento sociale, possono generare conseguenze impreviste di eccesso della domanda sociale.
I nuovi movimenti sociali
È ciò che è accaduto con la svolta segnata dall’irrompere sulla scena dei movimenti politici di massa nel decennio 1965-1975.
Si rompe la mediazione socialdemocratica tra promesse di sicurezza massima e richiesta di democrazia minima, va in crisi lo scambio fordista tra spazi di consumo e dispotismo sul lavoro.
I partiti di massa strutturati sui cleavages sociali degli anni ’20 diventano anacronistici: si riconferma, mutata, la frattura capitale/lavoro, la secolarizzazione attenua le tradizionali tensioni tra Stato e Chiesa, scompare la rottura tra città e campagna mentre riprendono forza i conflitti tra centro e periferia, si dispiega la frattura di genere da tempo latente, insorge con forza la contraddizione tra uso capitalistico della tecnica e natura.
I partiti vengono contestati dal basso e sono messi in discussione dall’alto, lungo un arco di tempo che, emblematicamente, potrebbe iniziare con il Manifesto di Port Huron[25] della giovane sinistra americana nel 1962 che rivendica forme radicali di partecipazione politica, per giungere al rapporto della Trilaterale sulla Crisi della democrazia del 1975 che invoca invece un’autoritaria governabilità liberata da vincoli sociali[26].
Paolo Farneti nella seconda metà degli anni ’70 coglie con lucidità il significato dei processi in corso. Egli scrive: «Nella mobilitazione del '68-69 c’è la chiusura di un cinquantennio di grandi investimenti ideologici iniziatisi con la prima guerra mondiale […]. La coscienza delle nuove condizioni e delle vecchie strutture di aggregazione e di mobilitazione, dette il via ad un nuovo modo di fare politica e ad una nuova pratica politica e quindi ad una ridefinizione della società politica, quella dei movimenti collettivi, dall’associazionismo intenso, in parte spontaneo, di rifiuto dell’organizzazione come forma di divisione del lavoro». Conclude con una considerazione sul lungo periodo: «il partito di massa è stato ed è tuttora un tentativo di equilibrare interessi materiali e ideali, distribuzione di risorse e impegno ideologico […]. Sembra che […] come pilastro della democrazia parlamentare contemporanea stia subendo irreparabili sconfitte. Se ciò è vero, l’immaginazione politologica e sociologica degli anni a venire dovrà impegnarsi anche ad ideare una struttura alternativa a quella società politica che sin dagli inizi del secolo […] sembrava ereditare le grandi ideologie dell’800 e capace di portarle a compimento»[27].
Recentemente lo storico e sociologo americano Immanuel Wallerstein[28] ha riproposto la coincidenza tra il fallimento dei tradizionali movimenti antisistemici (socialdemocrazia, comunismo, movimenti di liberazione nazionale) «orientati verso lo Stato» e basati sulle strategia delle «due fasi» (la conquista del potere statale e poi la trasformazione della società) e quella che egli continua a chiamare «la rivoluzione del ’68» come matrice storica dei nuovi movimenti anti-sistemici.
È sbagliato considerare i nuovi movimenti sociali come effimeri “cicli di protesta”. Essi riproducono nel tempo, in modo carsico e con mobilitazioni di massa, quella politicizzazione dal sociale che si alimenta nella rottura dei poteri di fatto dentro la società civile.
Le traiettorie di trasformazione del sistema politico in Europa e l’evoluzione dei movimenti sociali tendono a divaricare, aumentano sempre più le distanze che le separano.
Non è l’immaginazione sociologica e politologica che orienta l’evoluzione dei partiti politici, ma sono le dure leggi del potere oligarchico e i rudi comandi dell’economia di mercato.
Partiti di Stato, partiti senza società
Il politologo americano Richard S. Katz, che da decenni studia i sistemi politici europei, ha colto la tendenza fondamentale che regola il mutamento delle organizzazioni partitiche all’interno della crisi del partito di massa. Katz sintetizza i risultati delle sue analisi elaborando il nuovo modello del cartel party.
Egli colloca l’avvio del processo di trasformazione dei partiti europei nei primi anni ’70 del secolo scorso. Sono gli anni in cui la domanda sociale chiede ai partiti di fare di più mentre essi possono fare sempre di meno. Essi tendono a uscire da questa contraddizione allentando i legami con la società ed entrando in simbiosi sempre più stretta con lo Stato.
I partiti europei – sostiene Katz – non sono “vittime” della caduta della militanza e del declino degli iscritti, essi stessi hanno la necessità di scoraggiare la domanda politica che proviene dalla loro base. Le risorse di contributo economico, di comunicazione politica, di mobilitazione elettorale che provenivano dall’attivismo di base ora vengono via via sostituite dalle risorse provenienti dallo Stato (finanziamento pubblico, accesso ai mass media, disponibilità di privilegi e di incentivi materiali che costruiscono dall’alto reti diffuse di cariche pubbliche elettive e non elettive, di catene clientelari).
Si passa da una forma di partito ad alta intensità di lavoro (vasta militanza di base) a un partito ad alta intensità di capitale (finanziamento pubblico, lobby, potenza dei mass media). Sostanzialmente il cartel party si identifica con il partito delle cariche pubbliche.
Le conclusioni di Katz sono improntate a ruvido realismo politico: i partiti non sono più associazioni di cittadini e per i cittadini ma società di professionisti della politica che gestiscono agenzie parastatali[29].
Non c’è – conclude il politologo americano – un declino dei partiti, ma cresce una sfida esterna alla forza di questi nuovi partiti, anche perché «i cittadini preferiscono investire altrove le proprie energie dove possono svolgere un ruolo più attivo».
Questa analisi sul mutamento genetico dei partiti politici rinvia immediatamente ad indagini meno superficiali e contingenti sulla “sfida” che viene dalla società non solo come “movimento” ma come nuovo associazionismo, come pratiche diffuse e culture emergenti.
In Italia prevale l’analisi dei movimenti che fa riferimento a Sidney Tarrow[30], il quale li concepisce come picchi momentanei di «azione collettiva disgregante», come isolati “cicli di protesta” regolati da una sorta di legge del pendolo che oscilla tra gruppo in fusione e serializzazione (Sartre), tra stato nascente e istituzionalizzazione (Alberoni). Altri ricercatori, come Touraine, vedono il “movimento” come il punto di emersione di processi di lunga durata e di grande complessità che producono una socialità politica alternativa.
Quello che è stato chiamato «movimento dei movimenti» ci ha rivelato una grande crescita di maturità nello sviluppo dell’azione sociale. Esso presenta momenti di convergente mobilitazione pubblica nata da stabili e differenziate sedi di impegno sociale (associazioni pacifiste ed ecologiste, centri sociali, gruppi di volontariato, organizzazioni anti-razziste e in difesa dei diritti umani...). Dall’incontro e dal dibattito di massa fluiscono poi risorse politiche, sociali e cognitive che vanno a irrigare il reticolo delle azioni specifiche quotidiane. Siamo ben oltre il moto di andata e ritorno tra flusso della mobilitazione sociale e riflusso nel privato.
Verso nuove forme di cooperazione politica?
Da queste esperienze nasce una configurazione socio-politica che è caratterizzata dall’incrocio tra la diversificazione verticale di un “arcobaleno” associativo orientato alla single issue e una tensione orizzontale tra il globale e il locale.
Assieme al conflitto, dopo lunga eclissi, riemergono le «solidarietà positive», il far da sé cooperativo, la pratica dell’obiettivo[31].
Si va oltre il movimentismo, ci si avvicina alla richiesta di un’altra forma di espressione della società politica. Se teniamo presente l’urgenza di invenzione politica e sociale che discende dal mutamento nel sistema partitico e dalla nuova qualità della sfida sociale, si può comprendere perché in queste note di sommaria ricostruzione storica abbiamo dato spazio alla vicenda del movimento operaio e socialista belga tra gli ultimi decenni dell’800 e il primo ’900.
Esperienze politiche e sociali così lontane non possono darci ricette per il presente.
La loro rievocazione può però aiutare a porre al centro dilemmi che avevamo eluso, problemi che erano stati rimossi; può offrire stimoli a formulare in modo più chiaro gli interrogativi nel presente e per il futuro.
La memoria criticamente elaborata si colloca in opposizione alla memoria nostalgica, essa rifiuta l'amnesia e rompe l'ideologia dell'eterno presente.
Ha un senso riportare alla luce gli orientamenti ideali e politici della dimenticata Carta di Quaregnon che si distingueva da quel Programma di Erfurt che ebbe grande successo come manifesto della lunga e dominante tradizione del socialismo statalista; ha una sua ragione il rilievo dato alle esperienze di costruzione di elementi d’altra società attorno alle Case del Popolo del Belgio dopo il lungo declino della capacità di realizzare dal basso obiettivi e risultati autogestiti.
Ma il punto sul quale la lontana esperienza belga ci invita a una riflessione nell’oggi riguarda soprattutto l’applicazione politica del principio federativo; quel federalismo funzionale che faceva convergere in autonomia e collaborazione sindacalismo e mutualismo, cooperazione e circoli di partito, innestandosi in un federalismo orizzontale, che teneva in relazione i distretti tessili di Fiandra di lingua fiamminga con i bacini minerari valloni francofoni.
Quelle lontane vicende mandano echi in un presente nel quale l'urgenza riguarda la capacità di trovare le forme della politica che siano in grado di far convergere, nel rispetto delle diversità, uno spettro arcobaleno di pratiche e di culture sociali; forme che permettano inoltre di governare la tensione tra globale e locale con reti territoriali di cooperanti autonomie.
Il vecchio modello del partito di massa, gerarchico e omologante, non serve.
Il nuovo modello del partito delle cariche pubbliche va in tutt'altra direzione.
NOTE:
[1] Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nel giugno 2011 in P. Ferraris, Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, Edizioni dell'Asino, Roma 2011.
[2] P. Ferraris, Buone pratiche di cittadinanza e mutualismo, «Almanacco delle buone pratiche di cittadinanza», n. 2, Edizioni Una Città, febbraio 2007.
[3] G. Marcon, Le utopie del ben fare. Percorsi della solidarietà dal mutualismo al terzo settore, ai movimenti. L'Ancora del Mediterraneo, Napoli 2004.
[4] J. Puissant, La coopération en Belgique. Tentative d'évaluation globale, «Revue belge d'Histoire contemporaine», vol. XXI, nn. 1-2, 1991, pp. 31-72.
[5] J. Destrée, E. Vandervelde, Le socialisme en Belgique, V. Giard & E. Briere, Paris 1898.
[6] T. Boeri, A. Brugiavini, L. Calforms (a cura di), Il ruolo del sindacato in Europa, Università Bocconi Editore, Milano 2002, pp. 154-155.
[7] A. Curcio, Quel patto di mutuo soccorso per la “classe creativa” è in rete, «Il Manifesto», 14 novembre 2007.
[8] G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, Laterza, Bari 1967, vol. II, p. 503.
[9] E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano 1969, vol. II, cap. 14.
[10] G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, cit., vol. I, cap. 10.
[11] Su César De Paepe (1841-1890) si veda B. Louis, César De Paepe. Sa vie, son ouevre, Dechenne, Bruxelles 1909; B. Dandois (a cura di), Entre Marx & Bakounine. César De Paepe, Centre d'historie du syndicalisme Françoise Maspero, Paris 1974.
[12] Su Osvaldo Gnocchi-Viani (1837-1919), oltre al secondo capitolo di questo testo [P. Ferraris, Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, Edizioni dell'Asino, Roma 2011, n.d.R.], si veda O. Gnocchi-Viani, Oltre la politica. Antologia di scritti del 1872 al 1911, a cura di G. Angelini, Franco Angeli, Milano 1989; G. Angelini, Il socialismo del lavoro. Osvaldo Gnocchi-Viani tra mazzinianesimo e istanze libertarie, Franco Angeli, Milano 1987.
[13] O. Gnocchi-Viani, I partiti politici e il Partito operaio, Tipografia sociale, Alessandria 1888, p. 15.
[14] O. Gnocchi-Viani, La marcia delle fasi, in «Critica sociale», 16 marzo 1896.
[15] R. Michels, La sociologia del partito politico, Il Mulino, Bologna 1966 (prima ed. Italiana Utet, Torino 1912). Sull'opera del Michels si veda P. Ferraris, Saggi su Roberto Michels, Jovene Editore, Napoli 1993.
[16] P. Farneti, Sistema politico e società civile, Giappicchelli, Torino 1971, p.47.
[17] A. Pizzorno, Introduzione allo studio della partecipazione politica, «Quaderni di sociologia», vol. XV, nn. 3-4, 1966.
[18] F: Mehring, R. Luxembourg, E. Vandervelde, L'expérience belge, une vieille polémique autour des grèves générales de 1902 et 1913, Bureau d'éditions, de diffusion et de publicité, Paris 1927 (trad. it. Lo sciopero spontaneo di massa, Musolini Editore, Torino 1970).
[19] E. Vandervelde, La Belgique ouvrière, É. Cornély, Paris 1906, p. 124.
[20] Si veda P. Ferraris, Sul sindacalismo europeo delle origini. Quattro lezioni all'Università di Campinas, in questo testo [Ieri e domani, cit., n.d.R.] a p. 68.
[21] G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Il Mulino, Bologna 1975.
[22] R. Sennett, La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino, Bologna 2006.
[23] S. Rokkan, Cittadini, elezioni partiti, Il Mulino, Bologna 1982.
[24] Ivi, p. 141.
[25] P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988.
[26] M. Crozier, S. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale, Franco Angeli, Milano 1977.
[27] P. Farneti, Introduzione, in Id. (a cura di), Politica e società, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1979.
[28] I. Wallerstein, Il declino dell'America, Feltrinelli, Milano 2004, cap. 12.
[29] R.S. Katz, P. Mair, Cambiamenti nei modelli organizzativi di partito. La nascita del 'cartel party' e anche Idd., Agenti di chi? Princìpi, committenti e politica dei partiti, in L. Bardi (a cura di), Partiti e sistemi di partito, Il Mulino, Bologna 2006.
[30] P. Ferraris, Contro il “disordine” di Tarrow, in Id., L'eresia libertaria. Interventi, polemiche e saggi intorno al biennio 1968-1969, Berta 80, San Severino Marche 1999.
[31] P. Ferraris, I movimenti sociali ieri e oggi, «Lo Straniero» n. 58, aprile 2005.
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