Dalla fabbrica alla piattaforma: nuove strade da percorrere per sfidare il capitale
- Scritto da Valerio Tuccella
- Commenti:DISQUS_COMMENTS
Questo è un tentativo di mettere a sistema alcuni pensieri, frammenti di discussioni, elementi che, dopo anni di tentativi, lentamente stanno finalmente trovando spazio nelle discussioni interne di alcune aree politiche, non solo sul piano di un loro inserimento nella composizione di un quadro analitico complessivo del capitalismo, ma (ed è su questo punto che l’intreccio dei nodi da ricondurre al pettine appare più caotico) su quello del ruolo e della prassi che i soggetti politici, sociali, sindacali e imprenditoriali - che si ritrovano nella necessità di dare vita a nuove forme di rappresentanza e organizzazione, di tutela dei diritti dei lavoratori e di svolgere una funzione egemonica sulle relazioni produttive e l’organizzazione del lavoro - dovrebbero provare a fare proprie se l’obiettivo è quello di assumere protagonismo rispetto al cambio di fase e alle trasformazioni che già stravolgono i processi produttivi e il rapporto tra capitale e lavoro.
Un tentativo che nasce da uno squarcio insanabile, prodotto di quel cambio di fase, tra la forma delle strutture portanti delle lotte sociali, delle rivendicazioni e del movimento operaio nel corso del secolo scorso: partito, sindacato ma anche l’universo delle organizzazioni sociali, e soggettività del lavoro che appaiono nuove e lontani dai canoni classici della “classe operaia”; e dalla necessità di presa d’atto di questa crisi storica, da elaborare senza rancori o amarezze se questo ci proietta in un nuovo spazio di presa di coscienza e di elaborazione di una cultura della questione sociale, del lavoro e della produzione all’altezza dei tempi.
Perché – ed è necessario ribadirlo in controtendenza con le narrazioni di chi si pone come obiettivo politico la disintermediazione totale e negli anni ha coltivato la prospettiva di una società “post sindacale” – il fallimento e la crisi delle organizzazioni della sinistra non è una sconfitta “di destino”. Anzi, è chiaro come la delegittimazione delle forme di organizzazione dei lavoratori a priori sia figlia di una cultura che rinnega il ruolo cardine del conflitto sociale come motore della società, in virtù di una millantata natura pacificatrice e neutrale dei processi in esame e l’esautorazione dal dibattito pubblico del tema riguardante il controllo democratico sui processi produttivi e sull’organizzazione del lavoro da parte dei lavoratori stessi, sull’entità di reddito prodotta e sulla sua allocazione e marginalizza il tema degli assetti proprietari del capitale e dei mezzi di produzione e della reddittività che ne deriva.
Constatato che qualcosa si possa fare, restano però da sciogliere i tanti nodi che riguardano l’irrilevanza dimostrata in questi anni sul piano del metodo, della forma, della struttura e del ruolo delle suddette strutture davanti a una stagione di ristrutturazione totale del modo di produzione capitalistico.
Perché se è vero che il processo di indebolimento progressivo del movimento dei lavoratori è stata una dinamica riscontrata lungo tutto l’arco della storia del capitalismo, è vero anche la fine del compromesso fordista, fondato sul ruolo complementare del sindacato in funzione dello sviluppo del sistema produttivo, dell’occupazione, dell’ammontare di reddito complessivo prodotto, a cui controbilanciare l’edificazione di un sistema stabile di diritti e tutele legate alla condizione subordinata del lavoro in quanto tale e alla gestione delle condizioni salariali e redistributive (ma mai di processo), ha apertamente rappresentato una cesura che ha definitivamente sconvolto un assetto sociale radicato ma profondamente legato e funzionale a quel modello produttivo.
Il fine definisce il mezzo: non si tratta come detto sopra “solamente” di avviare un processo di recupero culturale e avanzamento di contenuto sui temi delle trasformazioni del capitalismo, delle nuove forme del lavoro e della sua cosiddetta “uberizzazione”, del decentramento dei processi produttivi a unità di produzione atomizzate (freelance, partite Iva e il lavoro autonomo in generale), su quel “neo-taylorismo” che vede implementare sistemi di controllo e intensificare paradossalmente (e al netto della feticcio della flessibilità) le rigidità nell’organizzazione del lavoro tramite algoritmi e piattaforme che regolano l’incontro tra domanda e offerta e sminuiscono, o addirittura annullano (subdolamente), il rapporto di potere esistente tra esse i lavoratori impiegati, sulla relazione tra auto-imprenditoria e auto-sfruttamento, economia della promessa e destrutturazione di sistemi di welfare incapaci di assistere quella fetta di mercato del lavoro al di là dei cuscinetti della subordinazione classica.
Il tema è invece quello di superare la subalternità maturata nei confronti delle categorie proprie dell’assetto sociale e produttivo fordista-taylorista e praticare un avanzamento di metodo e di forma volto alla costruzione di nuove soluzioni a partire dalle pratiche che definiscono l’azione sociale e politica.
Esperienze come quelle di Riders Union Bologna (neo-nata organizzazione dei Riders delle piattaforme di food delivery, rappresentazione tangibile della tanto narrata gig economy) rappresenta proprio questa capacità.
Quella cioè di ricostruire una cultura e un legame sociale a partire dai bisogni di una soggettività del lavoro deprofessionalizzata, non riconosciuta o ridotta a “lavoretto”, non inquadrata sul piano contrattuale e ultra ricattabile. Una soggettività a prima vista non organizzabile, ma che ha saputo cogliere i frutti della sperimentazione di un nuovo metodo fatto di spazi di mutualismo e assistenza diretta (ciclo officine e dopolavoro), di costruzione di alleanze sociali, di esperimenti di ricomposizione tra consumatori, attivisti solidali e lavoratori ma soprattutto di protagonismo diretto di questi ultimi, oltre la logica paternalista e della delega che alimenta le bolle di vetro della nuova/vecchia sinistra politica.
Elemento che ha permesso la costruzione di una dimensione direttamente “connettiva” e deliberante tra i lavoratori che non avrebbe potuto – per la stessa natura reticolare e velocizzata del processo – passare tra le maglie complesse e farraginose delle organizzazioni sindacali. Una dimensione che non è governata, ma si autodetermina riuscendo al contempo a mantenere un profilo generale e non corporativo.
Ma mutualismo, associazionismo e dimensione deliberante non sono gli unici cardini necessari alla definizione di una strategia, se assumiamo che la flessibilizzazione e precarizzazione dei rapporti di lavoro e dei ritmi di vita non sia una tendenza naturale, ma una nuova forma di organizzazione del lavoro che risponde ad esigenze precise del modello produttivo in cui siamo immersi e che la figura del lavoratore flessibile auto-imprenditore sia di fatto un prodotto dell’immaginario ideologico neoliberale (rimane da superare la sterile contraddizione tra autonomia e subordinazione).
Come ci ricorda giustamente Sergio Bologna nella prefazione di “Rifare il mondo del lavoro” (totem dell’incontro che ispira queste righe) di Sandrino Graceffa: qualunque ridefinizione nella regolamentazione del sistema delle tutele non sarà mai in grado di farci uscire dai condizionamenti del mercato capitalistico in una fase così ideologicamente connotata.
Questo dato stimola una riflessione: nessuna forza politica progressista che si ponga l’obiettivo di ricostruire una dimensione politica collettiva di massa e di aprire una nuova stagione dei diritti del lavoro e dei lavoratori non ha la benché minima possibilità di farcela senza porsi il tema di quale programma di promozione economica stimolare, organizzare e rendere egemone.
Non è più rimandabile l’uscita dalla prospettiva esclusivamente resistenziale piegata su una prospettiva redistributiva da attuare sulla base di un compromesso tra capitale e lavoro che ormai non esiste più, e che non si ponga invece il tema di come ci si contende l’egemonia sull’organizzazione del lavoro e sulla gestione della produzione e del cambiamento tecnico a partire dalla definizione di un nuovo modello economico che si basi sul governo dell’innovazione e delle nuove tecnologie.
Organizzazioni come SMart e ACTA sono un esempio di come soggettività del lavoro soggiogate a una realtà di precarietà, insicurezza sociale e discontinuità di reddito possano uscire dalla zona grigia di incertezza tra subordinazione e autonomia – per la quale l’accesso ad un welfare pensato come specchio del lavoro salariato subordinato risulta un miraggio lontanissimo – attraverso la fornitura di servizi e assistenza (amministrativa, reddituale nel caso della cassa di garanzia o relazionale), ma di come – soprattutto nel caso di SMart che in particolare ha assunto nel tempo la forma di impresa cooperativa – sia possibile andare oltre il ruolo di amministratore mutualizzato e calarsi nelle trasformazioni in corso facendosi incubatore di un nuovo modello di impiego e impresa condivisa, organizzando l’agire cooperativo dei lavoratori e ponendosi come attrattore per quegli spazi che oggi accolgono in qualche modo le attività produttive decentralizzate e fondate sulle nuove tecnologie (spazi di autoproduzione, hub di comunità e quant’altro), inserendosi direttamente in quella congiuntura che vede le tecnologie dell’informazione e l’assetto proprietario di queste come principale protagonista nella gestione dei processi produttivi e dell’organizzazione scientifica del lavoro.
Un modello fondato sul confine tra economia collaborativa e il modello estrazionista del capitalismo delle piattaforme edificato sul sistema dei commons e dell’innovazione sociale, che abbiamo già visto realizzato almeno in parte e con successo in città come Barcellona, dove la capacità di affrontare e regolare il nodo dell’impatto sociale sulla città di piattaforme come air bnb è risultato decisivo per la vittoria di Barcellona in comune alle ultime elezioni municipali.
Bruno Trentin, già segretario generale della FIOM e in seguito della CGIL invocava durante la conferenza di Chianciano (1989) un progetto costituente che riguardasse un nuovo progetto di società, in cui la solidarietà di classe andasse ricostruita dalle fondamenta tramite il mutuo riconoscimento tra le organizzazioni sindacali e sociali e coloro identificati come titolari di nuovi diritti. Una solidarietà tra diversi che sarebbe dovuta essere sperimentata sul campo, a partire dall’apporto di tutti i soggetti coinvolti.
Una prospettiva verso la quale abbiamo teso ad oggi con troppa timidezza.
È irrimandabile aprire le porte a un nuovo grande spazio pubblico in cui osservarci, riconoscerci e valorizzare le nuove forme di organizzazione dei lavoratori e di imprenditoria cooperativa e sociale, nelle pratiche innovative che già si sperimentiamo, nelle forme di mutualismo che mettiamo in campo. Uno spazio per una nuova alleanza sociale in cui sperimentare nuove ricette sul piano dell’intermediazione sindacale e promuovere a sistema una nuova logica produttiva costituendo quella “socialità nella produzione” che ci permetterebbe di non demandare il terreno della cooperazione e dell’organizzazione del lavoro ai colossi del capitalismo digitale.
La riflessione scaturisce dall’incontro “Rifare il mondo del lavoro. Appunti, pratiche, esperienze” tra CGIL, ACTA, SMartIT, Riders Union Bologna che si è tenuto poco più di un mese fa al circolo Arci Ritmo Lento di Bologna.
Articoli correlati (da tag)
- Accoglienza: migliaia senza lavoro dopo le nuove norme Salvini
- I beni comuni al centro di una rinnovata iniziativa popolare
- Normale di Pisa: dopo le proteste si dimette il direttore
- Marcora in provincia Granda. Le storie della Cooperativa pavimenti e della Pirinoli
- L'Euro è la moneta unica, non l'unica moneta possibile - Intervista al prof. Bellofiore