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Il Post e l'articolo 18: ne parliamo davvero seriamente?

Poche ore dopo il nostro articolo che auspicava un vero dibattito, finalmente libero dalle incrostazioni retoriche e ideologiche del berlusconismo, sui temi della precarietà e dell'articolo 18, Il Post diretto da Luca Sofri ha pubblicato un pezzo con un titolo molto simile: “L'articolo 18, parlandone seriamente”.

Peccato però che l'autore Francesco Costa, preso dal fervore della (legittima, eh) battaglia contro il sindacato e quei pericolosi bolscevichi che guidano il Partito Democratico, dell'articolo 18 parli tutt'altro che seriamente. Ma dato che a noi discutere seriamente interessa, proviamo a interloquire, e lo facciamo analizzando bene il ragionamento di Costa, al netto del tono dell'articolo, delle fantasie numeriche (quel “95% delle aziende italiane” che non vuol dire nulla) e degli strafalcioni storici (Sergio Cofferati non era più segretario della Cgil da 9 mesi, quando si tenne il referendum bertinottiano sull'estensione dell'articolo 18 alle aziende con meno di 15 dipendenti, e la Cgil guidata da Guglielmo Epifani, pur senza entusiasmo, si schierò per il sì).

L'argomentazione centrale è nota, ed è la stessa che da anni sbandierano Maroni, Sacconi e Berlusconi e che recentemente hanno rilanciato anche Monti e Fornero, sotto forma di sillogismo.
Premessa maggiore: i precari non hanno diritti, tutele, welfare e garanzia del posto di lavoro.
Premessa minore: chi ha un contratto a tempo indeterminato gode di diritti, tutele, welfare e il suo posto di lavoro è garantito dall'articolo 18.
Ergo, per garantire diritti, tutele, welfare e garanzia del posto di lavoro ai precari è necessario abrogare l'articolo 18.

Non serve aver studiato la logica artistotelica per capire che questo sillogismo, semplicemente, non sta in piedi. Davvero, né Costa né i suoi autorevoli predecessori leghisti e pidiellini sono mai stati in grado di spiegare razionalmente in che modo togliere il diritto a non essere licenziati arbitrariamente a chi ce l'ha possa aiutare chi non ce l'ha. Evidentemente nella redazione del Post sono consapevoli di un qualche misterioso abracadabra giuslavoristico che, alla sparizione delle garanzie sul licenziamento, magicamente trasforma tutti i posti precari in stabili ed estende universalmente diritti, tutele e welfare.

Costa giustamente segnala che oggimilioni di persone lavorano senza ferie, malattia, maternità, diritti e garanzie di alcun tipo, accesso al credito, stabilità, tredicesima, eccetera, spesso con una lettera di dimissioni firmata in bianco nel cassetto del capo, hai visto mai: come schiavi, insomma.

Fa sempre piacere vedere descrivere con accuratezza la realtà: molti lavoratori italiani oggi, effettivamente, sono precari e vivono “come schiavi”. E ciò è spesso del tutto legale, avviene in ottemperanza di una legge dello stato. Si tratterà dell'articolo 18, penseranno i lettori del Post. È l'articolo 18 quello che prevede contratti senza diritti, tutele, garanzie e welfare, dato che per superare questa situazione si prevede di abrogarlo.

Ecco: no. Ciò avviene in conseguenza di svariate leggi dello stato, le più famose delle quali sono la legge 196/1997 (il cosiddetto pacchetto Treu) e la legge 30/2003 (la cosiddetta legge Biagi). Non chiedetemi perché Costa, per modificare la situazione creata da quelle due leggi, non preveda di cambiare quelle, ma un singolo articolo di un'altra legge, la legge 300 del 1970 (il cosiddetto statuto dei lavoratori). Se il problema sono i contratti precari creati dalla legge 30, perché non modifichiamo quella legge, invece che l'articolo 18?

Lo chiediamo all'interessato e alla sua redazione, che sappiamo essere democratica e progressista: caro Costa, caro Post, perché va cancellato l'articolo 18 per dare più diritti ai precari? Non sarebbe più semplice applicare direttamente alcune misure di dignità minima (le potete leggere qui), senza bisogno di liberalizzare i licenziamenti? Non si potrebbe fare un contratto unico in grado di tutelare tutti, senza toccare l'articolo 18? Cosa lo impedisce?

La nostra impressione è che utilizzare l'argomentazione che molti non ne godono per sostenere che l'articolo 18 vada cancellato sia al limite del ridicolo. Sarebbe come dire che dato che l'acquedotto non arriva in molte zone d'Italia, allora, per equità, vanno svitati i rubinetti di tutti gli italiani. Non che le altre argomentazioni, quelle che sostengono che abolire l'articolo 18 faccia bene alla crescita, ad esempio, siano più fondate, come ha ben spiegato Carlo Clericetti su Repubblica.

Del resto, sarebbe strano il contrario: l'articolo 18, nello statuto dei lavoratori, è nella sezione dedicata alle libertà sindacali. Perché di quello si tratta, e nient'altro: del diritto a non essere arbitrariamente licenziati, fondamento della libertà di esprimersi democraticamente all'interno di un posto di lavoro. Non per niente appena quella garanzia scompare, com'è recentemente successo a Pomigliano con il passaggio alla newco, arriva la selezione degli assunti sulla base del sindacato a cui sono iscritti. La presenza o assenza dell'articolo 18, statistiche alla mano, sembra pressoché irrilevante da ogni altro punto di vista: flessibilità della produzione, crescita dell'azienda, ecc. Solo su un punto l'articolo 18 fa davvero la differenza, ed è la libertà sindacale. Comprensibile e legittimo che chi persegue interessi diversi ne proponga l'abolizione. Ma perché noi, lavoratori precari, dovremmo prestarci a questo giochino?

Il Post, come Il Corsaro, è nato per svecchiare l'informazione di questo paese e farle perdere alcuni dei suoi peggiori vizi, uno dei quali è il perpetuarsi dei luoghi comuni. Facciamo uno sforzo, che dite?

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Ultima modifica ilGiovedì, 22 Dicembre 2011 23:13
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