Fare alternanza non è un'impresa
- Scritto da Unione degli Studenti
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Tra ordinarie storie di sfruttamento, incidenti sul lavoro e progetti formativi farsa, si parla sempre più di alternanza scuola lavoro. Pubblichiamo di seguito la prima puntata di una riflessione dell'Unione degli Studenti, il sindacato studentesco.
1. Trasformare la società partendo dai saperi: per una scuola che cambi il presente!
“L’ideologia del taumaturgo al potere, il tribalismo che divide il bianco dal nero e non contempla zone d’ombra, spazi neutrali, luoghi di dialogo, insomma la logica del self made man che vince sull’ambiente, sui suoi simili e persino su se stesso trasposta dall’agone sportivo allo spazio comune… Queste cose hanno fatto il loro tempo, ammesso ne abbiano mai avuto uno, ma permangono nel nostro, di tempo, come schegge pericolose e dannose che dobbiamo sforzarci di estrarre, per sopravvivere.”
Richard Sennet rispondeva così ad un’intervista circa le modifiche in corso a seguito della crisi economica e a causa della risposta neoliberista trovata dai paesi a capitalismo avanzato. L’attacco ideologico alla scuola pubblica, condotto dalle politiche neoliberiste degli ultimi anni si è sostanziato attraverso un asservimento dell’istruzione al mondo del lavoro. Tale processo che vede la scuola in una posizione di subalternità, permette oggi una maggiore riproducibilità delle strutture socio economiche, del modello produttivo, e di un’organizzazione del lavoro, strettamente funzionali alle logiche di accumulazione. Immettendo migliaia di studenti nel mondo del lavoro se ne riproducono le storture, le gerarchie, i dispositivi disciplinanti e repressivi. Questo avviene a causa di un rapporto tra formazione e lavoro che, lungi dall’essere paritetico o vincolato, è paternalista: la scuola funzionale al mondo del lavoro, gli studenti e le studentesse piegati alle esigenze del mercato.
Se nel mondo del lavoro è richiesta “flessibilità”, competizione, individualismo, attraverso l’istituzione scolastica si vuole trasmettere l’ideologia dominante ma, vero nucleo di questa alternanza scuola- lavoro, si intende preparare un vasto esercito di riserva, frammentato al suo interno, senza possibilità di riconoscersi in luoghi collettivi, maggiormente ricattabile e asservito all’economia della promessa. Persino l’organizzazione delle ore di alternanza scuola- lavoro, la loro divisione tra tecnici e professionali da un lato e licei dall’altro, la valutazione produttivista dei risultati quantificati come se si fosse su una catena di montaggio, l’assenza di spazi e tempi per la formazione personale, per lo svago, per il confronto, ci portano a dover ripensare tutto. Quando parliamo della Buona Scuola non ci riferiamo all’ennesima riforma dell’istruzione taglia e cuci, restrittiva della partecipazione studentesca. La 107 sta invece portando a compimento un progetto più complesso e intricato che riesce a modificare intimamente il soggetto: sia esso studente, docente, genitore, preside, personale amministrativo, cittadino. La forza della retorica dell’esperienza, dell’affermazione personale e dell’occupabilità. Tanti banchi di nebbia che ci allontanano da un’unica grande domanda: qual è il ruolo dei saperi nella società? E, dunque, a cosa serve davvero la scuola?
Sia chiaro: la scuola che diventa veicolo di tale processo economico, alimentando disugualianze e divisioni classiste, non è una novità nel paese, sono state tante le riforme dell’istruzione che dal ventennio fascista ad oggi, hanno plasmato il concetto stesso di istruzione svilendola e riducendo tutto al nozionismo e alle competenze a compartimenti stagni. Tuttavia l’alternanza scuola- lavorointrodotta nel ciclo delle riforme renziane, strettamente legata al Jobs Act, ci impone di riflettere non solo sulle modifiche strutturali e ideologiche in seno al mondo dell’istruzione, ma anche sul recidere questo passaggio ad oggi scontato. Insomma, come pensare ad una scuola gratuita, accessibile a tutti, laica e democratica se permettiamo a grandi aziende, multinazionali e privati di qualunque ordine e grado, di entrarvi decidendo sui programmi di studio e sulla didattica, propinando un unico modello produttivo inquinante e devastante dei nostri territori?
Come può essere la scuola una “palestra di democrazia” in cui si danno a tutti le stesse possibilità, se il modello di organizzazione del lavoro è quello della flessibilità? Quale idea di società potrà svilupparsi senza capacità critiche, con il modello delle “tutele crescenti”?
Accecati da una sorta di “etica protestante”, per dirla con Weber, ovvero dall’idea dell’autorealizzazione possibile attraverso il sacrificio, abbiamo difficoltà nel riconoscere il potenziale distruttivo di quanto sta avvenendo. Se la scuola diventa semplice conservazione e riproduzione dell’esistente, in cui si esaltano l’accumulazione capitalistica e le condizioni di subordinarietà, allora la scuola perde la sua funzione sociale per la collettività.
2. L’alternanza scuola-lavoro due anni dopo: la scuola aziendalizzata e la privatizzazione nel grembo della 107.
Da quel 9 Luglio 2015, giornata di approvazione della legge 107, ne è passata di acqua sotto i ponti e la teorizzata novità dell’alternanza scuola-lavoro obbligatoria per tutte le scuole è diventata, in poco più di due anni, l’innovazione che seduce ed inganna… Ma cosa c’è dietro la massificazione dell’alternanza? Le trasformazioni in fieri di questo strumento che ha creato la nuova (non)categoria dello studente in alternanza sono una nitida fotografia delle aspirazioni che la 107 ha imposto al sistema di istruzione pubblica italiano.
Negli ultimi due anni il Ministero dell’Istruzione ha architettato una minuziosa opera retorica di esaltazione dello strumento dell’alternanza scuola-lavoro, come opportunità di innovare la metodologia didattica e di implementare qualitativamente la formazione degli studenti con delle modalità di apprendimento flessibili e sistematicamente connesse all’esperienza pratica, capaci di realizzare un organico cordone ombelicale tra le istituzioni scolastiche ed il mercato del lavoro al fine di rilasciare competenze spendibili direttamente nel mondo del lavoro. Qui scatta il campanello d’allarme: già dal 2014 con la proposta del disegno di legge della Buona Scuola si leggeva a chiare lettere una privatizzazione strisciante della scuola pubblica che con lo strumento dell’alternanza scuola lavoro porta a compimento un’intera visione di formazione al lavoro che privilegia gli interessi delle aziende e sottovaluta il ruolo della formazione.
Il processo è, quindi, concluso: – approvazione della legge 107 che apre le porte ai privati ed alle aziende introducendo l’obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro con 200 ore per i licei e 400 ore per gli istituti tecnici e professionali; – approvazione delle deleghe della Buona Scuola con l’attuazione della Riforma dell’Esame di Stato e l’introduzione obbligatoria dell’elaborato sull’alternanza scuola-lavoro al posto della tesina di maturità; – accordi nazionali tra Miur ed Enti privati per promuovere la formazione al lavoro.
I protocolli d’Intesa con gli enti ospitanti rappresentano l’elemento più ambiguo nella gestione del Miur nel rapporto con le aziende… Ma da dove nascono questi accordi con i privati?
Nel Novembre 2016 il Miur presenta e firma un accordo con i “Campioni dell’Alternanza”, tra cui compaiono nomi di grandi aziende e multinazionali come Eni, Mc Donald’s,Zara, Intesa San Paolo, Fiat, FCA e altri colossi del business aziendale che mettono a disposizione 27.000 posti occupabili dagli studenti in alternanza. Obiettivo dichiarato: acquisire soft skills relative alle relazioni interpersonali e alla gestione manageriale. Obiettivo reale: rimettere in moto l’economia a partire dalle grandi aziende, utilizzando gli studenti per un’idea di lavoro molto spesso sfruttato e privo di tutele o dannoso per l’ambiente, sconnessa dalla formazione didattica ed un’idea di scuola dell’accelerazione e dall’alta tensione professionalizzante. Obiettivo raggiunto: manodopera gratuita degli studenti, attacco ai tempi di studio, dequalificazione della formazione di fronte agli interessi delle multinazionali, attacco ideologico all’istruzione che subisce il ricatto della subordinazione al lavoro, diventando l’incubatrice adeguata e preliminare al mercato.
Quello dei Campioni dell’alternanza di due anni fa è stato solo l’inizio di una lunga serie di accordi nazionali firmati tra il 2016 ed il 2018 che hanno perseguito, peggiorando, la stessa direzione: Snam, F.A.I., TIM, Confidustria, Camere di Commercio, Crociera Costa, FICO, per citarne alcune.
Quindi, a cosa mirano gli accordi nazionali? E’ qui il vero nocciolo della questione, concepire l’alternanza scuola-lavoro non come un avanzamento della metodologia didattica, capace di mettere in crisi il sistema nozionistico del fare scuola e di invertire la rotta di una didattica chiusa tra le mura della classe e non sufficiente a leggere i mutamenti del presente, ma come una politica attiva sul lavoro tesa a risolvere il tema dell’occupabilità dei giovani invece che alla formazione degli studenti. Qui viene ribaltato, dalla parte sbagliata, il rapporto tra formazione e lavoro: non deve essere la scuola che si adegua alle esigenze ed alle aspirazioni occupazionali del mercato del lavoro che quindi trae profitto dall’immissione precoce dei giovani nei circuiti lavorativi, ma piuttosto deve essere la scuola che con un tipo di formazione nuova, forte di un sistema didattico integrato, realmente finanziato, complementare tra il sapere teorico, l’esperienza pratica e l’implementazione di corsi laboratoriali ad oggi inesistente per il disinvestimento sulla qualità dell’istruzione, ripensa non solo il mondo del lavoro ma l’intero modello di società. Questa è, per la Renzi-Giannini, la scuola fondata sul lavoro.
3. Formazione al lavoro nella 107: la piena realizzazione della scuola-azienda
“Dobbiamo rendere la scuola la più efficace politica strutturale a nostra disposizione contro la disoccupazione, rispondendo all´urgenza e dando prospettiva allo stesso tempo”.
Così recitava la bozza di presentazione della Buona Scuola del 2014 nel capitolo “fondata sul lavoro”. Il documento concentrava la propria attenzione, infatti, sulla presunta responsabilità del sistema d’Istruzione rispetto alla disoccupazione giovanile. Oggi rileggendo “rispondendo all’urgenza” pare più chiaro il suo significato: ingresso anticipato degli studenti nel mercato del lavoro. Era assente invece una riflessione approfondita, nel documento, degli scopi pedagogici e didattici dell’alternanza scuola-lavoro. Certo, si accennava alla necessità di dare delle risposte ad un mondo del lavoro che cambia investendo sul saper fare, ma questo andava legato con la necessità di “raccordare più strettamente scopi e metodi della scuola con il mondo del lavoro e dell’impresa”. In altre parole, piegare il sistema didattico ed educativo alle esigenze delle imprese per rispondere alla disoccupazione giovanile.
Quasi profeticamente i movimenti studenteschi degli ultimi decenni hanno l’uno dopo l’altro lanciato segnali d’allarme rispetto all’ingresso dei privati nelle scuole riguardanti la loro indipendenza dall’ideologia del mercato. Oggi questo ingresso a gamba tesa sta attraversando un netto processo di normalizzazione. Il “raccordo” è fatto. La presenza dei privati produce tendenzialmente tre effetti legati tra loro: la dipendenza economica; l’influenza sul sistema didattico, educativo e valutativo; la contaminazione ideologica.
La dipendenza economica. Questa grava direttamente anche nelle tasche degli studenti che, con l’alternanza scuola-lavoro, hanno vissuto in maniera più completa che mai il definanziamento sull’istruzione pubblica, oltre a generare una divisione classista non solo fra scuola e scuola ed all’interno delle singole classi, ma anche tra chi è più o meno abbiente e quindi chi “merita” il diritto allo studio e una formazione di qualità e chi no. In quest’ultimo anno tanti sono stati i casi registrati di costi elevatissimi da dover sopportare per poter accedere alle ore obbligatorie (’ITN Duca degli Abruzzi di Bagnoli, periferia napoletana, ogni studente ha pagato €550 per un percorso di formazione in navigazione; Avellino €200 per un percorso fuori regione; Campobasso €150 per delle ore alla Banca d’Italia; Trieste €500 per studente e così via dicendo…)
Ma la dipendenza economica, figlia dello strutturale definanziamento della scuola pubblica statale, ha preceduto l’alternanza scuola-lavoro già con i primi processi di digitalizzazione delle scuole. Ignorando la non neutralità dei dispositivi digitali, pur di avere delle scuole al passo coi progressi digitali e informatici, a costo di possedere computer funzionanti o altri dispositivi a basso costo se non a costo zero, si è accettato ad occhi chiusi di stringere accordi con le multinazionali (come nel recente accordo tra Miur e Tim) , producendo effetti di dipendenza sia per le scuole verso le aziende, sia per gli studenti verso i software e gli strumenti messi a disposizione (ciò che si impara ad utilizzare, un giorno si andrà ad acquistare). Similarmente, il definanziamento della scuola pubblica statale impedisce di trasformare l’alternanza scuola-lavoro in un’istruzione integrata, ove il percorso di avvicinamento dello studente all’esperienza pratica dovrebbe attraversare anche momenti laboratoriali inseriti dentro le strutture scolastiche. Siccome mancano i soldi, il Governo ha ben pensato con la Buona Scuola di introdurre un’alternanza che grossomodo presenta qualche ora di formazione teorica utile solo ad anticipare la spedizione degli studenti dentro le aziende, ignorando gli effetti pedagogici di questo salto.
L’influenza sul sistema didattico, educativo e valutativo: A livello legislativo questo si è realizzato con la 107 e con le sue deleghe, in particolare con l’introduzione nella discussione orale dell’esame di Stato della relazione dello studente della propria esperienza di alternanza scuola-lavoro al posto della tesina. Non solo: gli effetti della relazione malsana tra scuola e impresa si intravedono anche nel mutamento del sistema didattico ed educativo delle singole scuole, che piegano le proprie valutazioni sul come si fa scuola e sul come si valuta gli studenti in relazione a quale tipo di rapporto hanno instaurato con l’azienda, evitando di procurare delle incomprensioni che potrebbero compromettere questo “raccordo”. Si accetta dunque il loro ingresso nelle scuole e la loro influenza sulla programmazione, sui contenuti e sul curricolo scolastico del singolo studente.
La contaminazione ideologica: Si è accettato che i privati possano influire sulla programmazione e sul contenuto della formazione dello studente nascondendo sotto il tappeto il fatto che ogni rapporto pedagogico ha in sé un contenuto ideologico. La scuola è un apparato ideologico e come tale vive di scontri egemonici: nella determinazione del cosa si insegna e del come lo si insegna inevitabilmente si apre (e si deve aprire) una lotta egemonica rispetto le linee guida culturali ed ideologiche da seguire. Ciò che viene insegnato dalle aziende agli studenti non è neutro, non è a-ideologico. È frutto di uno scontro egemonico per la determinazione di un contenuto formativo che si realizza in un ulteriore rapporto egemonico e quindi pedagogico tra azienda e studente volto alla riproduzione di un’ideologia, e quella delle aziende è l’ideologia neoliberale del mercato, della competizione, dell’autoimprenditorialità, del merito, della subalternità nel rispetto dei rapporti della gerarchia aziendale. La “simulazione d’impresa” promossa in moltissime scuole consiste esattamente nella riproduzione di queste logiche: far simulare agli studenti il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente, tra chi è legittimato a comandare e chi è costretto ad eseguire.
È dentro questa contraddizione che si apre le questioni forse più spinose dell’alternanza scuola-lavoro: a chi sta la definizione del percorso sia pratico che teorico? Il tutor deve essere una figura interna alla scuola o all’azienda?. Evidentemente sciogliere questi nodi non è semplice, in quanto da un lato il mondo della scuola dovrebbe avere il compito di decidere cosa dovrebbe essere insegnato, ma dall’altro, non possedendo tutte le conoscenze e competenze utili allo svolgimento di certe attività interne alle aziende, come ad esempio la comprensione del funzionamento e l’utilizzo di certi strumenti, macchine, dispositivi tecnologici posseduti dai privati, il coinvolgimento di soggetti esterni nella co-determinazione di un pezzo di formazione all’azienda si rende necessario e quindi si accetta la trasmissione di certi contenuti non individuati solo dalle istituzioni scolastiche. Entrando ancora di più in profondità, occorre chiedersi dunque quali eventuali figure dell’azienda potrebbero essere individuate per ricoprire quel ruolo.
Un rappresentante delle organizzazioni sindacali, ad esempio, potrebbe dare un proprio contributo rispetto alla condivisione di conoscenze relative alla tutela del lavoratore e dei suoi diritti, magari osservando limiti e criticità di un certo modello organizzativo o di sviluppo, oltre a spiegare il funzionamento tecnico delle attività da svolgere. La formazione, anche in questo caso, sarebbe in ogni caso di parte e non proveniente solamente dalla scuola. Chi dovrebbe scegliere il tutor aziendale? Secondo quali criteri? Quale sindacato? La delega ad un organo terzo rispetto alla scuola di una parte più o meno importante del percorso formativo implica un suo condizionamento ideologico, positivo o negativo che sia. Occorre dunque chiedersi se quella parte della formazione debba essere discussa o filtrata a priori dalla scuola, dagli insegnanti o dai tutor.
La vera sfida, dunque, sta nel nodo democratico della partecipazione e del potere decisionale all’interno delle scuole.
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