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Una società in cui valga la pena trovare un posto: per Michele e per tutti noi

  • Scritto da  Riccardo Laterza
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Una società in cui valga la pena trovare un posto: per Michele e per tutti noi

La lettera di Michele, la storia tragica della sua scelta di farla finita con la vita, è una storia personale, e come tale va rispettata e non giudicata. Ma se è vero che la Storia è anche - soprattutto - l'intreccio di tante vicende singolari come questa, quella lettera ci racconta molte altre cose, che riguardano drammaticamente tutti noi. E ciò che c’è scritto, grazie alla coraggiosa scelta dei genitori di pubblicarla, ci impone di parlarne, non per pietismo o apologia del gesto, ma per tentare di capire a che altezza della storia siamo arrivati e provare a muoverci insieme verso un’altra direzione.

È una lettera che con un’angosciante lucidità ci racconta della vittoria del dominio dell’Economico sul Politico, della retorica della competizione sulla forza vitale della cooperazione, del ricatto della sopravvivenza sul rispetto della dignità umana, dell’omologazione al modello del vincente sulle irriducibili differenze di capacità, desideri e sensibilità umane. Ci racconta anche della colpevolezza di chi, stando nella politica, si è reso compartecipe della vittoria di quel dominio, di quella retorica, di quel ricatto, di quell’omologazione. Di chi cioè non può che essere chiamato con un solo nome: nemico.

Ma ciò che in maniera veramente spiazzante emerge dal testo di Michele è un aspetto che mette completamente a nudo l’inadeguatezza storica di chi, pur credendo nel primato del Politico - della vita in comune - sull’Economico, da tempo non sa più come tradurre quest’idea in pratica: concreta, collettiva, rivoluzionaria. La lettera di Michele manda in frantumi qualsiasi speranza che usare prospettive, linguaggi, strumenti sconfitti dalla storia possa in qualche modo portarci a migliorare le nostre condizioni: è una verità che fa male, ma che va metabolizzata, e a volte per farlo servono eventi tragici come questo.

Quello che emerge dalla storia di Michele è che oggi siamo molto più vicini alla realizzazione concreta di una distopia che alla prospettiva di un’utopia possibile. La competizione economica estesa a tutti gli ambiti della vita, anche quelli più privati; ma anche la distruzione dell’ambiente, le guerre e il terrore, le migrazioni forzate; l’individualismo e la frustrazione sociale crescente che si orienta verso i più deboli e i diversi. È questo il contesto in cui, oggi e non in una promessa di futuro lontana e ipotetica, dovremmo essere in grado di fare la differenza tra sopravvivere e vivere. Negli Annali Franco-Tedeschi Marx scrive: «Il nostro motto sarà quindi: riforma della coscienza, non mediante dogmi, bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente»; Paolo Virno ha recentemente osservato come questo «sogno di una cosa» assomigli sempre più a un incubo, un terreno occupato da forze reazionarie, o dalla solitudine e dall’indifferenza.

Forse il centro del problema è che chi in questi anni si è autoattribuito il ruolo di difensore del primato del Politico sull’Economico lo ha fatto muovendosi a partire da due dogmi, uguali e opposti, entrambi distruttivi di qualsiasi prospettiva di trasformazione della società e delle nostre vite. Da un lato il dogma del realismo, dell’accettazione del compromesso con l’attuale assetto politico, considerato sostanzialmente in equilibrio e immutabile, e dei peggiori arretramenti sul piano del lavoro e dei diritti, fallendo così nel riconoscere che nella società prendono continuamente corpo nuove maggioranze sociali di esclusi, marginalizzati, subalterni che minacciano quegli equilibri e rendono il loro rispetto una farsa, una mera rappresentazione di ciò che nella realtà non esiste più. Dall’altro il dogma dell’utopia, della fuga dalla realtà in un altrove senza legami con essa, di una prospettiva di trasformazione sì completa e radicale, ma raccontata con parole e prodotta con gesti che non hanno riscontro nella realtà quotidiana dei molti e che rimangono patrimonio di pochi.

Imprigionati tra questi due dogmi non ci si riesce a muovere «Attraverso gli stessi principi del mondo» per metterne in moto di nuovi. Ciò che serve è invece dare forza a lotte radicali perché chiare e semplici e, viceversa, chiare e semplici perché radicali. Lotte che partano dalla condizione attuale del mondo e delle vite dei molti sconfitti dal capitalismo, da quei «principi del mondo» sempre più distopici e sempre più evidenti perché radicati fino alla dimensione intima delle persone, per tracciare la direzione della trasformazione radicale della società. Casa, reddito e servizi che garantiscano, a prescindere, la dignità della vita di tutti; contratti di lavoro con tutele e diritti; riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario; formazione gratuita e di qualità; e ancora molto altro. Non narrazioni, visioni, prospettive lontane e oggettivamente inimmaginabili e indesiderabili da molti che vivono condizioni sempre più diffuse e profonde di precarietà esistenziale, ma rivendicazioni chiare, per dimostrare con parole e gesti concreti che l’alternativa al soffrire non è smettere, ma lottare.

Questo ci dice, infine, la lettera di Michele: che nel mondo c’è necessità urgente di conflitto, di stare insieme per avere giustizia. Di inventarci insieme nuovi modi per riprenderci ciò che questo sistema sociale, culturale ed economico ci toglie ogni giorno con la complicità della stragrande maggioranza della politica. Perché, nelle parole di Mauro Rostagno: «noi non vogliamo trovare un posto in questa società, ma creare una società in cui valga la pena trovare un posto».

Vorrei fare questo insieme a molti altri per Michele, vorrei farlo per tutti noi.

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