Mayo Fuster: "Vi racconto come i commons stanno governando Barcellona"
- Scritto da Riccardo Laterza
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Fearless Cities (Ciudad Sin Miedo, Ciutats Sense Por) è l’assemblea municipalista internazionale che Barcelona En Comú ha organizzato dal 9 all’11 giugno nella città che da due anni è governata dalla candidatura municipalista guidata dall’attivista per il diritto all’abitare e ora Alcaldesa Ada Colau. L’autoproclamata «prima internazionale municipalista», partecipata da più di 700 attivisti provenienti da 180 città di tutti i continenti, è il luogo nel quale incontro Mayo Fuster Morell, attivista e ricercatrice. Più precisamente, intervisto Mayo nella pausa tra un workshop e l’altro, mentre sta andando a recuperare sua figlia nel bel chiostro dell’Universitat de Barcelona adibito per l’occasione a ludoteca per i figli delle attiviste e degli attivisti coinvolti nell’iniziativa. Un segnale concreto di cosa possa voler dire femminilizzazione della politica, una delle parole d’ordine al centro della tre giorni catalana, sul terreno concreto della compatibilità tra tempi di lavoro, tempi di vita e tempi e modalità dell’impegno sociale.
Un tuo articolo di analisi a caldo della vittoria elettorale di Barcelona en Comù, nel 2015, era intitolato “I commons conquistano Barcellona: una vittoria di Davide contro Golia”. È ormai due anni che i commons ‘governano’ Barcellona: potresti tracciare un primo bilancio di questa esperienza politica?
Due anni non bastano per capire la dimensione di questo processo, che è stato molto inaspettato e difficile da spiegare: com’è stato possibile che un’organizzazione che nemmeno esisteva un anno prima sia riuscita a vincere le elezioni senza avere rapporti con i poteri forti? Io penso che il solo fatto che questo intreccio di esperienze, che non avevano avuto accesso alla gestione del Comune né alla vita dei partiti politici, sia entrato nell’amministrazione debba essere ancora indagato a fondo.
Quello che mi sorprende è la capacità di gestione che sta sviluppando Barcelona En Comú. Ci sono molte persone si sono ritrovate a dover sviluppare da zero conoscenze su come funziona la macchina amministrativa, perché ciò che conta non è solo trasformare le istituzioni, ma innanzitutto farle muovere. Nel frattempo, non si è prodotta nessuna grande crisi nella gestione della città e della sua economia, nonostante durante la campagna elettorale si fossero paventati drammi come la fuga dei capitali internazionali e l’inasprimento della crisi; non si sono verificati casi di corruzione e di malagestione che sono molto comuni nella politica di oggi, in particolare nel PP, che è il partito più corrotto d’Europa. Il livello di funzionamento della macchina amministrativa e il livello di soddisfazione dei cittadini è molto migliore di prima: Ada Colau è la figura politica più apprezzata della Spagna.
Dobbiamo ancora trovare un modo di valutare e apprezzare le trasformazioni, a partire dal fatto che non c’è una politica dei grandi titoli e delle grandi vittorie, ma ci sono grandissime piccole vittorie, legate ai problemi quotidiani. Questa forse è la strategia non consapevole di questa modalità di amministrazione. Per esempio, nel mio quartiere c’è una palestra pubblica che permette a tutti di avere un accesso alle pratiche sportive: era previsto che chiudesse, e il Comune è riuscito a scongiurarne la chiusura. Sono piccoli fatti che difficilmente arrivano sulla prima pagina di un giornale.
In sintesi, sta andando abbastanza bene, ma non possiamo ancora fare un’analisi precisa di quale sia il reale portato dell’entrata delle candidature municipaliste nell’amministrazione; dobbiamo usare nuove lenti, senza pensare di poter raccontare due anni di amministrazione dicendo “abbiamo fatto questo grande progetto”. È un’altra dinamica, più complessa, nella quale conta anche come si comunica la qualità dell’azione di governo: senza scandali e che fa grandi piccole cose.
L’ecosistema dell’innovazione sociale che esiste in città è una delle cause della vittoria di Barcelona En Comú alle scorse elezioni. Cosa sta facendo ora il Comune per governare questo ecosistema e tracciare un confine tra economie collaborative e “parassitismo” delle piattaforme?
Bisogna partire da due elementi: il primo è che le candidature municipaliste necessitano di un programma economico, o meglio di promozione economica: devono decidere che tipo di economia si vuole stimolare; il secondo è che la candidatura di Barcelona En Comú è nata in una città che deve affrontare un impatto distruttivo di piattaforme come Airbnb o Uber. Per questi due motivi, anche se forse inizialmente il tema non era una priorità per Barcelona En Comú e le relazioni con i movimenti digitali non erano così consolidate, la questione dell’economia delle piattaforme diventa un punto principale dell’agenda municipalista. Inoltre, la nostra città ospiterà eventi come lo Smart City Expo World Congress: l’amministrazione deve dire e fare qualcosa. Inizialmente Barcelona En Comú non aveva ruoli di responsabilità legati alle nuove tecnologie, ma tutti questi elementi hanno dimostrato la necessità di dare spazio a questa tematica.
È stato innanzitutto molto importante capire cosa sta succedendo in altre città rispetto all’economia collaborativa, e affermare che c’è bisogno di differenziare i modelli. Airbnb non è la stessa cosa di Wikipedia, anche se Airbnb si presenta come la wikipedia dell’hosting; il modello dei commons è quello che può portare più benefici alla città.
A un certo punto si è compreso che l’impatto che può avere l’economia collaborativa è così grosso che è sbagliato parlare di settore, ma si tratta piuttosto del modello di economia emergente. La produzione organizzata per piattaforme digitali arriverà a tutti gli ambiti di attività economica e trasformerà lavoro e tipologia d’impresa. Per questo è necessario coinvolgere la società per definire come governare le reti e cogliere le opportunità che offre quest’innovazione. Tutto ciò si riassume in una frase: pensiamo che la politica dell’economia collaborativa debba essere collaborativa.
Il modello dei commons si caratterizza a differenza del modello estrazionista e corporativo per tre aspetti. Il primo è la politica di governance: nel modello dei commons una cooperativa composta dalla gente che utilizza la piattaforma, o una fondazione che rappresenta una comunità, è proprietaria della stessa, e ci sono dei meccanismi di decisione che coinvolgono la comunità generando e distribuendo valore. Una governance di questo tipo è una cosa molto diversa dalle multinazionali come nel caso di Airbnb o Uber, dove le comunità non vengono coinvolte ma sono considerate semplicemente come massa di utenti, per cui se ti piace il servizio bene, e se non ti piace te ne vai. Il secondo aspetto è la politica tecnologica: piattaforme basate su software aperti che costituiscono un aspetto importante anche dal punto di vista del governo, perché se si usano software liberi tutto è più trasparente, puoi sapere come opera la piattaforma, come utilizza i tuoi dati, e puoi contribuire al suo sviluppo. Il terzo aspetto è la politica della conoscenza, ovvero l’uso di licenze di proprietà intellettuale che riconoscano la proprietà, anche collettiva, dei contenuti a quelli che li creano, che non esproprino la conoscenza e che assicurino l’accessibilità ai risultati, con licenze creative commons, con gli open data. Quest’ultimo aspetto è molto importante anche anche dal punto di vista regolatorio: per esempio noi oggi non sappiamo esattamente quante case sono su Airbnb a Barcellona, e non è possibile fare politiche abitative efficaci quando c’è questo mostro di cui non conosci dimensioni e attività. Abbiamo stimato che in questa strada addirittura il 30% delle case siano su Airbnb, questo grazie a un lavoro di scraping sulla piattaforma, ma sarebbe logico che le piattaforme comunicassero quante persone sono state ospitate in un dato periodo, così come pagassero le tasse secondo il loro volume d’affari, come qualsiasi altra impresa, non si sta chiedendo di più.
Negli ultimi anni sta crescendo in particolare il cooperativismo di piattaforma. Alcuni dei casi più noti sono Fairmondo, una piattaforma nata in Germania che è una specie di Amazon o Ebay di proprietà delle persone che scambiano beni e oggi ha un milione di prodotti, o SMart, una piattaforma nell’ambito del lavoro culturale sulla quale 70.000 freelance forniscono i loro servizi sui quali la piattaforma stessa permette di fatturare, di anticipare i pagamenti agli operatori dopo una settimana dalla prestazione assumendosi un rischio, o ancora di comprare attrezzature di uso collettivo per l’attività degli associati. La piattaforma è nata in Belgio e in Spagna dopo poco meno di un anno ha raccolto già 900 membri, con una grossa potenzialità di crescita e di scalabilità. Stiamo parlando di cooperative con molti più membri di quelle a cui siamo abituati a pensare.
Tantissimi degli attivisti e dei candidati di Barcelona En Comú, e dunque anche di chi ora sta governando la città, provengono dai movimenti sociali, dalle associazioni, dai gruppi che sono stati attivi negli ultimi anni in città. Ci sono tantissime donne, e d’altronde la femminilizzazione della politica al di là dell’appartenenza di genere è stata uno dei punti su cui si è discusso di più in questi giorni. Ma ci sono anche tantissime persone che vengono dal mondo accademico. Il modello di governo di Barcelona En Comú è anche un nuovo modello di relazione tra politica e accademia, quello che si produce nell’università e la cittadinanza?
Penso che l’importanza dell’istituzione universitaria derivi dal fatto che è una delle istituzioni pubbliche che producono commons; d’altronde, quando si difende l’Università dalla deriva neoliberista si difende questa produzione di commons. In molti che provengono dall’università contribuiscono a Barcelona En Comú con attivismo e conoscenza, e tuttavia questo dato di fatto non è così riconosciuto. Ad esempio, di recente abbiamo fatto una ricerca sul cooperativismo di piattaforma e su dieci casi quattro provengono da progetti europei di ricerca dell’università.
Guardando alla composizione di Barcelona En Comú, ci sono tanti attivisti con studi universitari, la loro estrazione è generalmente di classe medio-alta, cosa che in Podemos per esempio è meno frequente, e però non c’è una teorizzazione, o perlomeno una visione chiara dell’università come un’istituzione importante a Barcellona. C’è anzi una sfiducia generalizzata e una messa in discussione dell’importanza della teorizzazione; questo ha a che vedere con i caratteri storici dei movimenti sociali in Catalogna, che sono abbastanza antiteorici per tradizione, e anche abbastanza antileadership. Ada Colau è un’eccezione che conferma la regola, nel senso che storicamente mentre il movimento antiglobalizzazione in Italia aveva tanti leader, noi non ne avevamo nessuno, e lo stesso vale sul terreno dei teorici e delle teorie.
Fanno eccezione anche alcune esperienze molto puntuali, come il caso di Dimmons, il gruppo di ricerca di cui faccio parte che sta fornendo conoscenza per l’azione e per le politiche pubbliche. In quest’ambito è nato BarCola, un gruppo di lavoro che coinvolge Comune e rappresentanti dell’economia collaborativa della città tra cui cinque Università. Ci sono anche tre progetti europei che informano le politiche del Comune: questa partnership con la ricerca è molto importante non solo perché fornisce finanziamenti per settori difficili da sovvenzionare, come l’ambito dell’innovazione sociale, ma anche perché definisce contesti di sperimentazione in ambiti nei quali il Comune non avrebbe competenze dirette. È il motivo per cui abbiamo avviato diversi progetti pilot: uno sul reddito di base con 1.000 famiglie coinvolte in uno dei quartieri più poveri della città, uno sulla moneta locale complementare, uno di utilizzo di wifi nei parchi. Solitamente, le istituzioni tendono ad ingaggiare consulenti, che producono informazioni per agevolare le decisioni pubbliche; tuttavia i consulenti hanno una gestione della conoscenza molto privatistica, le ricerche non vengono pubblicate da nessuna parte soprattutto se i risultati non sono favorevoli alle politiche proposte. Quando invece svolgi quest’operazione con un’università, garantisci criteri di trasparenza e di pubblicazione dei risultati, tutti criteri che rendono le decisioni veramente pubbliche.
Sempre nel tuo articolo di due anni fa affermavi che il processo generativo di Barcelona En Comú non è definibile né esclusivamente come bottom-up né come top-down, ma è piuttosto bottom e top al tempo stesso. Si tratta di un aspetto contraddittorio e interessante, che accompagna tutta la riflessione sul ruolo delle leadership e su come tenere insieme democrazia e verticalizzazione. Una riflessione ancora più centrale nel salto di scala da Barcelona En Comú a Un Paìs En Comú. Cosa ne pensi?
Questo è un passaggio che si sta sviluppando con difficoltà. Barcelona En Comú si è prodotta su su rapporti di prossimità, a partire dalla fiducia che si è generata in trent’anni di movimenti sociali e di reti di conoscenza. È così che funziona. Non puoi sperare che da un momento all’altro quel modello funzioni alla scala di un territorio dove non hai quei trent’anni di costruzione di fiducia. Quest’operazione, che è molto difficile, deve funzionare con altri strumenti. È giusto che si faccia, e ci stiamo riuscendo producendo una confluenza, perché rimane la questione per cui le città da sole non riescono a fare tutto, devi misurarti e organizzarti sulla dimensione globale, regionale, nazionale. Tuttavia l’ondata municipalista si è particolarmente adattata alla dimensione locale, e quando si tratta di andare su altre dimensioni, com’è stato il caso di Podemos, lo si fa adottando una strategia più populista, ovvero una strategia comunicativa che arriva a molta gente non tramite rapporti di fiducia trentennali ma attraverso i media mainstream, con un processo molto diverso. Scale diverse richiedono strategie diverse, ma Barcelona En Comú non è nata per questo. Per questo si deve provare a combinare e a sperimentare. Il fatto che si sia costruito Un Paìs En Comú senza l’apporto di Podem (la base catalana di Podemos, nda) è un grande fallimento. Stiamo riuscendo capire come a produrre un necessario salto di scala, ma non senza grandi difficoltà.
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