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Jobs Act, anatomia di un ricatto

Jobs Act, anatomia di un ricatto

Diventa ogni giorno più difficile provare a ragionare in maniera sensata di mercato del lavoro, occupazione e più in generale di tematiche economiche. Un assordante rumore di fondo provocato dalle dichiarazioni demagogiche, bellicose e tendenzialmente prive di senso del Presidente del Consiglio, con le sue promesse di non fare prigionieri e di regolare definitivamente vecchi conti in sospeso con chi si oppone alla presunta opera di modernizzazione del suo Governo, impedisce di mettere a fuoco in maniera chiara i contenuti e le implicazioni dell'annunciato Jobs Act e della legge delega sul mercato del lavoro.

Indubbiamente contribuisce alla confusione e alla sensazione di straniamento il risveglio da un lungo letargo di soggetti quali la presunta minoranza interna del Partito Democratico e i sindacati confederali. Complici fino ad oggi di un ciclo di controriforme finalizzato a istituzionalizzare la subordinazione e la sudditanza del lavoro al capitale, iniziato con il cosiddetto “pacchetto Treu” del 1997 e proseguito negli anni con l'appoggio, o nel migliore dei casi una opposizione di facciata, di questi stessi soggetti, hanno perso ogni credibilità e rappresentatività agli occhi di quel mondo del lavoro a difesa del quale, in un gioco delle parti drammaticamente poco serio, promettono barricate.
Proprio per questo può risultare utile provare a mettere a fuoco almeno qualche punto.

• Non è affatto chiaro per quale ragione sia lecito aspettarsi, da un insieme di misure quali quelle contenute nel Jobs Act e nella legge delega, un aumento dell'occupazione, giovanile e non. Al costo di una estrema banalizzazione, quali sono le basi teoriche per le quali il Governo Renzi si aspetta una ripresa delle assunzioni grazie alla cancellazione di diritti minimi e di buon senso? Per quale ragione un imprenditore, ceteris paribus, dovrebbe essere incentivato ad assumere un giovane in più in virtù del semplice fatto di poterlo licenziare arbitrariamente e magari in maniera discriminatoria senza temere di doverlo reintegrare in seguito? Al di fuori di non-sense presentati come tautologie, manca una risposta chiara a questa semplice domanda.

Dalla pubblicazione della General Theory di Keynes nel 1936 è piuttosto chiaro a qualsiasi economista con un po' di onestà intellettuale che il livello di occupazione di un paese è funzione del livello di domanda aggregata del paese stesso, dato dalla somma di consumi, investimenti, spesa pubblica ed esportazioni. Proprio questa ultima componente, i beni e servizi prodotti internamente e venduti all'estero, sembra essere l'unico canale attraverso cui, almeno teoricamente, misure quali quelle in discussione potrebbero contribuire a una ripresa dell'economia del paese. Riduzione dei diritti e delle garanzie sul posto di lavoro hanno come conseguenza più naturale la diminuzione della forza contrattuale dei lavoratori, una riduzione del livello dei salari e, almeno in teoria, un aumento della competitività dei prodotti nazionali sul mercato internazionale. Ma se questo è il caso, sarebbe opportuno che fosse reso esplicito dal Governo, al fine di poter discutere approfonditamente la follia di una strategia di rilancio basata sulla deflazione interna e su una competizione al ribasso sul costo del lavoro che, se da un lato ha ricadute sociali enormi e dolorosissime, dall'altro è anche destinata al fallimento, stante l'attuale e permanente maggiore competitività di costo dei paesi in via di sviluppo ed in transizione industriale.

• Su un piano più politico, è prioritario demistificare e rompere il ricatto alla base della principale argomentazione utilizzata dal Governo a favore delle misure in discussione. Si sente infatti ripetere un discorso che può essere così parafrasato: “suvvia ragazzi, cosa preferite: l'attuale giungla di contatti atipici e iper-precari, che impediscono di realizzarvi e vivere serenamente, oppure un contratto a tempo indeterminato, seppure a tutele crescenti (che significa che oggi tutele non ne avrete, ma magari un domani chissà), con il quale, se sarete bravi, produttivi e disciplinati, non avrete nulla da temere vita natural durante?”.
Questo concentrato di ipocrisia e disonestà propone questa dicotomia come obbligatoria e vincolante, presentando l'attuale e vergognosa situazione dei contratti alla stregua di uno stato di natura, calato dal cielo, brutto, sporco e cattivo. È opportuno ricordare invece come sia nient'altro che il frutto di decisioni politiche precise, prese sostanzialmente di comune accordo da centro-sinistra e centro-destra negli ultimi venti anni, Renzi e compagnia cantante inclusi. E non c'è alcuna ragione per cui l'unica alternativa a ciò sia una forma più mascherata, subdola e pericolosa ma ugualmente dannosa per gli interessi di chi lavora, della stessa e sempiterna storia.

• Uno degli slogan più efficaci utilizzati da Renzi è stata l'accusa rivolta ai sindacati di star difendendo l'ideologia e non i lavoratori. Con questo il Presidente del Consiglio automaticamente si accredita come portatore di una verità assoluta, indiscutibile e che prescinde da ideologie e verità di parte. Ma anche questa altro non è che un'abile menzogna: in una società conflittuale non ci sono ricette valide e ugualmente benefiche per tutti, ci sono invece ideologie e idee contrapposte, che hanno a cuore e difendono interessi di parti diverse.

Noi stiamo con chi lavora, Renzi e il Governo stanno dall'alto lato della barricata. Semplice e lineare.
Che si abbia almeno il coraggio di ammetterlo.  

 

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