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Job act, assegno di disoccupazione e politiche di attivazione. È tutto così semplice?

Job act, assegno di disoccupazione e politiche di attivazione. È tutto così semplice?

Fatte salve le osservazioni sul carattere ancora molto fumoso della proposta e sui fondi che sarebbero necessari per finanziarla, diamo uno sguardo alla prima traccia del “Job Act”, ovvero la proposta sul lavoro lanciata da Matteo Renzi, facendole precedere da una premessa di carattere generale e di metodo: quando si parla di welfare state e di cittadinanza sociale si ha a che fare con una serie di dispositivi ambivalenti ed elefantiaci.

Con “natura ambivalente della cittadinanza sociale” ci si riferisce essenzialmente alla questione dell’accesso e – specularmente – a quella dell’esclusione. Ogni inclusione, infatti, determina un’inevitabile e conseguente esclusione. Perciò la cittadinanza da un lato è una sfera morbida di diritti e di tutele dai rischi di natura sociale ed economica, dall’altro diventa un terreno aspro e duro per chi ne rimane escluso. Tuttavia non solo l’esclusione può assumere dei caratteri violenti e coercitivi ma, come sottolinea bene Balibar nel suo ultimo libro (Cittadinanza, Bollati Boringhieri, Torino 2013), si può trovare la violenza anche nei processi di inclusione. Questa dimensione non appartiene soltanto alla storia del welfare state e dell’industrializzazione del nostro continente: la si ritrova anche in molti dei dispositivi di “attivazione” tuttora presenti nel contesto europeo. Effetto non secondario di tale ambivalenza è l’incidenza che i sistemi di welfare hanno nella stratificazione sociale. Sebbene da un lato il welfare mantenga un potenziale correttivo e dirompente nei confronti delle rigidità prodotte dall’economia nella società, divenendo un utile strumento di liberazione dalle dipendenze del mercato, dall’altro non bisogna dimenticare il potenziale ordinante e stratificante che esso detiene nei confronti della società.  

Il carattere elefantiaco del welfare, invece, risiede nel suo processo lento e contraddittorio di radicamento nei gangli dell’ordinamento della società. Le numerose articolazioni di welfare che possiamo ritrovare sparse per il mondo hanno origine da numerosi fattori. Tra quelli che è rilevante ricordare in questo contesto vi sono anzitutto gli elementi culturali. Nel dibattito su come strutturare strumenti di protezione e integrazione del reddito, c’è una grossa differenza tra concepire la disoccupazione come un fenomeno individuale di inadeguatezza del singolo nel mercato del lavoro, piuttosto che come una carenza del tessuto produttivo. Allo stesso modo, le “strategie di cittadinanza” differiscono in maniera notevole se il loro orientamento è finalizzato ad una redistribuzione delle risorse oppure a un’idea di riconoscimento dei diritti vincolato ai comportamenti degli individui, cosa che fa dedurre un chiaro intento di educazione e di controllo.

In ultimo, una premessa relativa al dato territoriale: è evidente che la Danimarca, con il suo dato di 2 milioni e mezzo di popolazione attiva, differisce dall’Italia, la cui popolazione attiva è di circa 25 milioni, così come l’economia britannica, con il suo 70% di impiegati nei servizi, si troverà a fronteggiare dei rischi economici chiaramente molto differenti da un contesto come quello tedesco, dove tale componente è limitata a circa il 35% della popolazione. Tutto ciò fa sì che intervenire nel quadro di welfare esistente sia molto complesso, ma che, soprattutto, le innovazioni rischino di ottenere risultati del tutto differenti da ciò che si auspica di produrre.

Queste osservazioni sono un invito a diffidare della “bontà” di alcuni dispositivi semplicemente perché “hanno funzionato in altri Paesi”. Purtroppo l’Italia, soprattutto per quanto riguarda i tentativi di riorganizzazione del mercato del lavoro, ha una triste storia. Comporre dei collage di best pratices non solo può non essere efficace nella risoluzione dei problemi ai quali si tenta di dare risposta, ma può addirittura rivelarsi dannoso nel momento in cui la riflessione non è attenta e partecipata. La mancanza di un orizzonte complessivo da perseguire è il primo dato che si può trarre dalla bozza di “Job Act”. Sottrarre ad un dibattito eccessivamente tecnicista la proposta di Renzi è infatti il primo obiettivo di queste righe. 

Reddito, lavoro e formazione in Europa. la proposta dell’assegno unico di disoccupazione  e i suoi modelli di riferimento 

La situazione degli ammortizzatori sociali in Italia

 

Prima di entrare nel merito della bozza di proposte contenute nel Job Act è utile ripercorrere a grandi linea l’attuale situazione degli ammortizzatori sociali. Come ben sappiamo, l’Italia è uno dei pochi paesi in Europa ad essere completamente privo di uno strumento universale di protezione del reddito. Tuttavia, il caso italiano ci regala delle peculiarità rilevanti, prima tra tutte la Cassa Integrazione Guadagni (CIG): uno strumento che nasce nell’immediato dopoguerra, in un contesto dove l’economia italiana non solo si trovava dilaniata dalla guerra, ma aveva anche il problema di dover riconvertire quelle fabbriche che durante il conflitto, a causa dell’autarchia mussoliniana, avevano convertito la loro produzione in armi. L’utilità della CIG, dunque, era proprio quella di sostenere tale processo di riconversione, cercando allo stesso tempo di salvaguardare l’occupazione. Da qui, dunque, la parzialità dei soggetti a cui si riferisce (impiegati e operai a tempo indeterminato) e la parzialità dei settori, ritenuti allora strategici, che copre: costruzione, industria, energia. Pertanto, non sorprende il ritrovarsi oggi con uno strumento assolutamente parziale nella tutela dei rischi in un’economia post-fordista. Allo stesso modo, non sorprende il fatto che in questi anni tale strumento sia stato “tirato”, data la totale mancanza di una copertura universale, nelle varie edizioni di CIG straordinaria, in deroga, fino ad episodi in chiave regionale come “il patto per attraversare la crisi” della regione Emilia-Romagna, datato 2009, che ha provato ad estendere la CIG anche ai lavoratori “atipici”. Esiste, tuttavia, in questo strumento, un elemento importante che lo differenzia da altri esempi internazionali, ossia la conservazione di fatto del posto del lavoro mentre si percepisce il sussidio.

L’altro pilastro della protezione sociale italiana, questa volta a carattere universale, è quello dell’assicurazione contro la disoccupazione (nell’attuale versione, ASPI). Tuttavia, pur essendo l’unico strumento a carattere universale presente nel sistema italiano, esso si trova fortemente condizionato dai suoi criteri di accesso, ossia dal principio di eleggibilità e dal principio assicurativo. Per quanto riguarda il primo, la sua traduzione concreta è nella necessità di aver aperto una situazione contributiva nel biennio precedente alla domanda, cosa che, di fatto, porta ad escludere molti giovani alla prima esperienza lavorativa. Allo stesso modo, il requisito assicurativo di almeno 52 settimane di lavoro nel biennio precedente, a fronte di appena un 28% dei contratti a tempo determinato con una scadenza che superi l’anno di durata, per i giovani compresi tra i 16 e i 29 anni (Eurostat: 2012), rende di fatto inaccessibile a molti giovani italiani anche questo strumento.

Se completiamo il quadro delle condizioni di lavoro dei giovani con un dato di appena il 32% di contratti a tempo indeterminato nella fascia 16-29 anni (Eurostat: 2012), emerge il quadro di una condizione di esclusione dalla cittadinanza sociale nel nostro paese particolarmente significativa per la generazione degli under 30.

Le politiche di attivazione in Europa e il Job Act

La proposta di un assegno unico di disoccupazione si inserisce dunque in questo quadro, sebbene non risulti ancora molto chiaro in che modo e fino a che punto esso cambierà. Tuttavia è necessario sottolineare che non si tratta di una semplice questione di metodo: sebbene la dicotomia tra insider e outsider nasconda un nocciolo di verità, nonostante l’utilizzo strumentale che ne è stato fatto fino ad oggi, è ormai necessario procedere a una riorganizzazione dei sistemi di tutela del reddito nella direzione di un aumento di diritti e tutele per tutti. Diversamente, si assisterà a un’operazione che molto avrà di mediatico e poco di sostanza nell’affrontare i problemi del mercato del lavoro italiano, dato soprattutto il carattere familistico del nostro welfare.

Passando al merito della proposta di Renzi, essa sembra essere legata a due condizionalità: la possibilità di rifiutare al massimo una proposta di lavoro e la partecipazione a programmi di formazione. Iniziamo analizzando la prima delle due.

L’idea di coniugare la protezione del reddito con una serie di dispositivi volti a scoraggiare la dipendenza dal sussidio, favorendo invece l’inserimento nel mercato del lavoro, non è per nulla nuova, ma di fatto si può ritrovarla indicata come best practice da seguire in tutti i documenti UE sul lavoro rilasciati dal Consiglio di Lussemburgo dal 1997 ad oggi. A tale proposito anche l’ASPI aveva introdotto una forma di coercizione: i beneficiari di questo dispositivo sono infatti obbligati ad accettare il primo lavoro offerto che proponga un retribuzione non inferiore al 20% della retribuzione precedente. Tuttavia, possiamo individuare come nel contesto europeo tale indicazione si sia concretizzata in due modelli, che possiamo definire opposti: quello del welfare to work danese e quello del workfare britannico. Esaminare questi due “estremi” può essere un esercizio utile nella comprensione di quel terreno scivoloso che sono le politiche di attivazione.

Il caso danese deve la sua fortuna al successo nella riduzione del tasso di disoccupazione, sceso ad oggi al 7,5% a fronte del 12,7% dell’Italia – al 13% se guardiamo alla fascia 16-29 anni, contro il 25% dell’Italia. Numeri differenti anche dai dati sulla disoccupazione giovanile calcolati nella fascia 16-24 anni, per il fatto che tengono dentro anche la classe 25-29 anni (che dovrebbe rappresentare un fase del ciclo vitale dove è già presente un inserimento stabile nel mercato del lavoro), dimostrano come quello della Danimarca rappresenti sicuramente un esperimento interessante di “nuovo welfare”.

Simile è il dato della disoccupazione in Gran Bretagna, 7,7% per la disoccupazione complessiva, 13,2% per la fascia di età 16-29, con però una grande differenza: quella dei cosiddetti low-wage earners, ossia quei lavori scarsamente remunerati che molto spesso generano working poor, cioè quella parzialità di soggetti che pur lavorando si trovano a vivere in condizione di forte deprivazione materiale o di forte dipendenza dai sussidi statali o dagli aiuti familiari. Mentre in Danimarca tale categoria si attesta sul 7,7% della popolazione attiva complessiva e sul 27,8% nella fascia 16-29 anni, nel Regno Unito la cifra aumenta sino al 22% tra la popolazione attiva e ben 40,6% della classe di età 16-29 anni. Da cosa deriva una così ampio gap tra i due Paesi? Sebbene siano numerosi i fattori che concorrono a determinare la compressione delle retribuzioni, in primis il tessuto economico di riferimento, la differente impostazione delle active policies contribuisce notevolmente.

La prima grande differenza tra i due Paesi sta nella concezione stessa dello stato di disoccupazione. Mentre, nel caso danese, esso viene concepito essenzialmente come la risultante di fenomeni esterni ed indipendenti dal disoccupato, l’impostazione britannica insiste invece sull’idea che lo stato di disoccupazione sia essenzialmente legato a comportamenti inadeguati del disoccupato stesso. Da qui l’impostazione coercitiva della clausola di condizionalità, che prevede un’accettazione forzata della prima offerta di lavoro disponibile definita come “accettabile”, unita ad una serie di benefit (essenzialmente crediti d’imposta) offerti al datore di lavoro nel caso in cui assuma soggetti che rientrano in questi programmi. Nonostante la discrezionalità congenita, l’accettabilità dell’offerta di lavoro è una clausola comune alle due impostazioni, ad eccezione di un'importante differenziazione: mentre nel caso britannico la discrezionalità della proposta è affidata agli operatori del Job Centre Plus, ossia l’equivalente del nostro “Centro per l’impiego”, i quali ottengono anche una sorta di premio in denaro nel momento in cui riescono a inserire nel mercato del lavoro un disoccupato, nel caso danese è possibile appellarsi ai sindacati nel momento in cui l’individuo non ritenga accettabile la proposta che gli viene offerta. Una clausola, questa, che non solo rientra appieno nel carattere storico di “economia negoziata” della piccola penisola, ma che funziona di fatto come un giudice di ultima istanza capace di stemperare l’aspetto coercitivo delle politiche di attivazione.

L’azione del welfare britannico nella proliferazione dei bad jobs è dunque determinante e mostra tutti i limiti di un approccio nell’inserimento al lavoro “purché sia un lavoro”. Inoltre, l’eccessiva coercizione porta ad altre tre conseguenze che non possono essere sottovalutate. La prima è relativa alla crescita delle domande di pensione di invalidità nel Regno Unito (le quali seguono un canale differenziato di protezione sociale rispetto ai sussidi di disoccupazione), facilmente spiegabile attraverso il tentativo da parte dei lavoratori di sottrarsi definitivamente al lavoro, proprio a causa delle conseguenze coercitive che l’accesso alla Jobseeker's Allowance comporta. La seconda riguarda la riproduzione di una sorta di “trappola della precarietà”. La bassa considerazione che si ha dello stato di disoccupato nel Regno Unito fa sì che molto spesso i datori di lavoro assumano i soggetti beneficiari di questi programmi solo ed esclusivamente per accedere agli sgravi fiscali, salvo poi licenziarli poco tempo dopo. Questo fenomeno finisce per far ricadere periodicamente il disoccupato nello stato di disoccupazione e, dunque, a farlo perdurare nel circolo di sussidio/formazione/accettazione del primo lavoro disponibile, producendo così effetti esattamente opposti a quelli auspicati. Infine, la terza conseguenza è collegata ai “premi di risultato” dei Job Centre Plus britannici, evidente conseguenza dell’adozione di un meccanismo di governance aziendale, indotta anche dall’apertura al privato nella gestione di questi servizi. Tale dispositivo premiale non solo spinge la figura del tutor ad influenzare il disoccupato nell’accettazione di un lavoro, anche se dequalificante e sottopagato, ma di fatto produce una sorta di selezione a monte dei soggetti più facilmente occupabili, svantaggiando notevolmente quei soggetti che per motivi legati alla condizione familiare di provenienza non possiedono skills elevate, ossia principalmente coloro che non hanno potuto accedere ai livelli più alti della formazione.

Il tema della formazione è proprio ciò che riguarda la seconda clausola di condizionalità proposta da Renzi. Anche qui il dualismo tra Danimarca e Gran Bretagna rappresenta un utile esercizio di analisi per poter maneggiare attrezzi così “scivolosi” come le politiche di attivazione. Entrambi i paesi hanno infatti proceduto nel corso degli ultimi 20 anni a dirottare molte risorse sul piano della formazione professionale; tuttavia, ancora una volta, con due impostazioni diametralmente opposte. L’investimento nella formazione professionale della Danimarca parte anzitutto da un’analisi tipica del welfare danese. Adottando il cosidetto lifecycle approach, ossia uno sguardo complessivo al ciclo vitale del lavoratore, si può notare come il lavoro post-fordista presenti delle grandi differenziazioni dall’impostazione fordista. Nel fordismo il ciclo vitale vedeva concentrato il lavoro nella fase centrale della vita, ossia la fase adulta, escludendolo completamente dal periodo di formazione e dall’anzianità. Il post-fordismo invece ci lascia una panoplia di biografie in cui formazione, lavoro e non-lavoro non solo sono sovrapposti, ma invadono l’una la porzione di ciclo vitale dell’altro. Da questa considerazione nascono due importanti percorsi di riforma intrapresi in Danimarca negli ultimi 20 anni. Il primo è l’istituzione dello statens uddannelses-større, letteralmente tradotto come “aiuto statale per gli studi”, che consiste in un sussidio previsto in chiave universale per tutti i soggetti in formazione. Oltre alla tutela delle condizioni reddituali nel periodo formativo, lo statens uddannelses-større copre anche il primo anno post-laurea, con l’obiettivo esplicito di supportare la ricerca del primo impiego e di sottrarre gli individui dal ricatto del primo salario, incentivando la ricerca del lavoro per cui si è studiato. Il successo di questo dispositivo è individuabile nel dato che rileva le motivazioni del part-time tra gli under 30 (che in Danimarca rappresenta circa il 50% dei contratti totali nella fascia di età 16-24), legate per circa l’80% (Eurostat: 2012) ad esigenze di formazione. Dato ancor più significativo se paragonato al caso italiano, dove oltre il 70% dei part-time per gli under 30 viene accettato perché non si riesce a trovare un lavoro a tempo pieno. Il secondo percorso riguarda invece tutta una serie di dispositivi volti a favorire la convivenza tra il lavoro e la formazione lungo tutto l’arco del ciclo vitale sia per gli occupati che per i disoccupati. A tale scopo sono finalizzati i congedi dal lavoro per frequentare sia percorsi formativi tradizionali, quali ad esempio l’università, sia percorsi di formazione professionale co-gestiti da organizzazioni dei lavoratori e rappresentanze delle associazioni datoriali. La finalità di questi dispositivi è, dunque, in tutta evidenza quella di fornire una “seconda chance” per quei soggetti che si trovano in stato di disoccupazione o che semplicemente vogliono migliorare le loro possibilità di carriera investendo nella propria formazione; ma risulta esplicita la volontà di investire a tutto tondo nel capitale umano, con la prospettiva di aumentare la produttività complessiva del lavoro.

Il Regno Unito invece mostra un approccio completamente differente sulla formazione. Per quanto riguarda il versante dei soggetti in formazione, le innovazioni del New Labour di Blair sono state sostanzialmente dirette verso una privatizzazione dei percorsi formativi tradizionali, introducendo anche lo Student Loan, ossia la versione anglosassone del “prestito d'onore”, con l’aggravante di aver completamente smantellato ogni finanziamento pubblico per il diritto allo studio. Sulle politiche di attivazione il governo laburista ha invece preferito un approccio più funzionale della formazione. I percorsi di formazione professionale sono infatti strutturati per fornire l’accesso a un sapere specifico, che si traduce in un piano individualizzato di inserimento condotto dai Job Centre Plus stessi, i quali procedono anche a un’analisi delle competenze necessarie per l’economia territoriale di riferimento. Sono dunque evidenti i limiti di una tale impostazione, che non solo rischia di dispensare un sapere che si rivela poi poco spendibile per l’individuo nel caso voglia cercare occupazione in contesti differenti, ma molto spesso contribuisce alla riproduzione di meccanismi di dipendenza dalla formazione piuttosto che di emancipazione attraverso essa.

Il pane e le rose

Come già detto, lo scopo di queste righe non è quello di produrre una critica su una proposta ancora molto fumosa come quella del Job Act, né di sostenere un’opzione piuttosto che un’altra. Piuttosto il tentativo è quello di fornire, grazie a uno sguardo comparativo sulle altre realtà europee, alcuni strumenti che possano aiutare nell’analisi di un terreno così scivoloso come quello compreso tra le politiche di attivazione, la riorganizzazione degli ammortizzatori sociali e le politiche di formazione professionale. Casi come quello britannico sottolineano l’importanza di mantenere uno sguardo complessivo e dinamico, capace prima ancora di analizzare, di emanciparsi dalla tentazione di “vedere oro in tutto ciò che luccica”. Pensare che una politica di successo si basi semplicemente sulla capacità di generare occupazione e di riallocare in maniera efficiente le opportunità di lavoro disponibili è un approccio pericoloso, che può condurre facilmente alla trasformazione delle “trappole della precarietà” in “trappole della disoccupazione”, e viceversa. In un tempo complesso e difficile come quello che stiamo vivendo, questioni come la qualità del lavoro e la qualità della formazione non possono essere considerate né dei dettagli né un lusso che non possiamo più permetterci. La possibilità di avere un sistema di welfare capace di attivare circoli virtuosi di mobilità ed emancipazione passa tutta attraverso un ragionamento qualitativo su lavoro e formazione.

Se Renzi perdesse di vista questi elementi, non solo rischierebbe di produrre l’ennesimo “pastrocchio” all’italiana, ma potrebbe mettere un piedi un sistema di welfare che, dietro ai grandi proclami e alle grandi approvazioni, in realtà nasconderebbe una vera e propria condanna all’immobilismo sociale per quei soggetti che provengono da condizioni familiari svantaggiate. La domanda dunque, caro Matteo, non è se scegliere il modello danese o quello britannico, dato che la riproduzione dell’uno o dell’altro difficilmente funzionerebbe in un contesto economico peculiare come quello italiano; ma piuttosto se questo Job Act ci darà soltanto il pane, o anche le rose. E come sempre noi vogliamo sia il pane che le rose.

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