La Calabria senza voce e l'Italia che non vuole sentire
- Scritto da Rosaria Anghelone, Diana Armento, Raffaella Casciello e Ludovica Ioppolo
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I recenti “fatti di Mèlito” sono stati l’ennesima occasione sprecata per una riflessione profonda e radicale su violenza di genere e potere mafioso al Sud, e non solo.
Lo stupro di gruppo di Mèlito di Porto Salvo è una storia di violenza di genere e di 'ndrangheta: i commentatori di ogni dove si sono distinti in larghissima parte (tra le pochissime eccezioni l’ottimo contributo della deputata Celeste Costantino) tra chi ha dato maggiore rilevanza all’una o all’altra dimensione dell’evento. Quasi tutti invece hanno condiviso la condanna per una Calabria perduta, senza speranze, incapace di riscattarsi agli occhi di quell’Italia benpensante che è invece bravissima a trovare capri espiatori nell’altro da sé, così da potersi autoassolvere da qualsiasi responsabilità. Nelle ore successive ci hanno tristemente pensato i fatti, non meno tragici, di Napoli (il suicidio di Tiziana Cantone) e di Rimini (lo stupro della diciassettenne in una discoteca) a smentire il tentativo di affidare alla Calabria una responsabilità in più nella brutalità della violenza di genere (così come ci pensano ogni anno le più di 150 vittime di femminicidi che portano la targa dell’intera nazione). Ma per comprendere appieno la vicenda di Mèlito bisogna necessariamente inserirla all’interno del contesto mafioso in cui è maturata. Il nostro tentativo parte dunque da qui, dalla necessità di riportare la complessità di quel che è successo e delle reazioni che sono seguite.
Veniamo ai fatti.
Abbondantemente raccontati dal punto di vista della cronaca nera, ma su cui vale la pena tornare per approfondire alcuni aspetti trattati con superficialità e per farne emergere altri invece quasi completamente ignorati, sottovalutati o, peggio, sviliti.
A Mèlito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, una ragazza di tredici anni è stata violentata per due anni da un “branco” di nove ragazzi. I nove, tutti maggiorenni tranne uno, arrestati venerdì 2 Settembre con l’operazione denominata “Ricatto”, sono accusati di violenza sessuale di gruppo aggravata, atti sessuali con minorenne, detenzione di materiale pedopornografico, violenza privata, atti persecutori e lesioni personali aggravate. Dal 2013 fino agli inizi del 2015 una tredicenne, almeno due volte alla settimana, è vittima di abusi dal punto di vista sessuale e psicologico, con una spietatezza tale da farle assumere una ostinata (il GIP usa il termine “recalcitrante”, come si direbbe di un animale) “rassegnazione ad una quotidiana violenza”. Non servono ulteriori dettagli per rabbrividire, non serve la macabra e mediatica descrizione minuziosa di quel che ha vissuto la ragazza per sentire addosso tutto il dolore che ha provato. Siamo davanti all’ennesima, brutale, gravissima violenza su una donna, trattata come “oggetto” dei più infimi istinti, percepita come “proprietà” sulla quale esercitare un controllo totale. Un potere che hanno sentito di dover esercitare anche in seguito, quando la ragazza tenta di costruire una relazione lontano dai quei soprusi, con un altro ragazzo, pestato a sangue in una “missione punitiva” da quello stesso branco.
Violenza di genere, dunque, ma non solo.
Nel diritto penale le “logiche d’autore” - in cui si punisce non il fatto delittuoso ma l’autore in quanto soggetto (dunque, per “quello che è”, non per “quello che fa”) - vanno rifiutate e non devono influire sulla pena; nell’analisi del contesto sociale, invece, lo status degli autori deve necessariamente essere preso in considerazione, perché caratterizza l’evoluzione stessa della vicenda. In particolar modo quando si tratta di contesti mafiosi. Tra i nove stupratori c’è anche Giovanni Iamonte, oggi trentenne, figlio del boss Remingo Iamonte, considerato capo della “locale” di ‘ndrangheta di Melito secondo quanto è emerso dalle inchieste “A.D.A.” (acronimo per appalti,droga,armi) e “Sipario” del 2013. A Mèlito di Porto Salvo il clan Iamonte non ha avversari, agisce come padrone incontrastato attraverso un controllo “asfissiante” del territorio (un quadro inquietante delineato chiaramente nella Relazione prefettizia che accompagna il Decreto di scioglimento del Consiglio comunale nel 2013, il terzo scioglimento dal 1991).
Bastava un sguardo di Giovanni, racconta la ragazza, per farla spaventare e obbligarla a rassegnarsi a quegli orrori.
L’appartenenza di tale soggetto alla famiglia mafiosa dominante sul territorio ha garantito il silenzio attorno alla vicenda, sia durante gli anni in cui sono state perpetrate le violenze sulla ragazza, sia nelle ore immediatamente successive agli arresti. Sì, proprio lo stesso silenzio che legittima il sistema mafioso, attraverso il quale la mafia ottiene quel controllo sociale, economico ma anche “biopolitico” sul territorio. Il potere mafioso in terra di ‘ndrangheta è controllo totale: sulla politica e sull’economia, ma anche e soprattutto sui corpi e sulle vite. Non c’è spazio per l’autonomia e il diritto all’autodeterminazione dell’individuo, in particolare se donna. Non c’è libertà delle e nelle relazioni al di fuori da appartenenze, obbedienza e omertà. La violenza fisica è strumento dell’esercizio del potere; il silenzio della comunità è il pubblico riconoscimento di quel potere.
A violenza, altra violenza: le vecchiette che intervistate dal TG3 regionale sostengono “se l’è cercata!”, altri che additano la ragazza e riconducono al suo “essere movimentata” le motivazioni di quel che è accaduto e vari commenti di questo genere, a cui purtroppo siamo stati e continuiamo ad essere ben abituati ogni volta che si ripresenta una situazione di violenza sulle donne.
La reazione della comunità.
Tante e tanti a Mèlito di Porto Salvo si sono sentiti colpiti, feriti da questa agghiacciante storia di violenze. Molti hanno provato rabbia per il contesto silenzioso-omertoso che ha caratterizzato la vicenda e altrettanti hanno sentito anche su di sé parte della responsabilità. Il presidio di Libera “Nino Marino” (e non deve darsi per scontata la presenza di un presidio che in un territorio così difficile cerca di fare antimafia, anche attraverso l’organizzazione dei campi di volontariato sui beni confiscati proprio al clan Iamonte), insieme a Libera regionale, ha deciso per tali motivi di dare un segnale forte, seppur simbolico, attraverso una fiaccolata silenziosa per le vie del paese. Una prima ed importante presa di posizione che nell’immediato ha sicuramente consentito di raggiungere un obiettivo per nulla scontato: dalle mezze frasi, pronunciate a voce bassa nelle case private, si è passati a parlare della vicenda pubblicamente, a discuterne apertamente. No, nemmeno questo è scontato in terra di ’ndrangheta. Giorno dopo giorno i comunicati di solidarietà verso la vittima, di condanna delle violenze da parte degli stupratori e di adesione all’iniziativa delle associazioni che operano sul territorio si sono moltiplicati. Tra questi Avviso Pubblico, Arci, Forum del terzo settore, tutti i sindaci dell’Area Grecanica, i sindacati della zona.
La sera del 9 Settembre in piazza c’erano 500 persone (ma facciamo anche 400, come riportato da alcuni articoli). Il corso Garibaldi, la via principale di Mèlito, è stata attraversato da donne e uomini (qualcuno persino in stampelle!), tante famiglie con bambini, sicuramente pochi giovani coetanei dei nove stupratori (questo dato, semmai, dovrebbe essere amaramente analizzato). Tra i partecipanti anche il fratello e il padre della vittima che ha denunciato tutto. Donne e uomini che hanno deciso di schierarsi contro la violenza mafiosa e di genere, pubblicamente. Chi non vede in questa partecipazione una positività e si ostina a ribadire il dato numerico (400 su 11.416 dati Wikipedia puntualmente riportati), vuol dire che non conosce per nulla il contesto melitese. Lo stesso paese che pochi anni fa ha voltato le spalle alle richieste di una madre disperata (ma così forte!) che chiedeva ai trecento presenti alla manifestazione conclusiva dell’anno scolastico di testimoniare affinché si potesse far chiarezza sulla sparatoria che ha coinvolto accidentalmente il figlio di soli tre anni. Ci si riferisce alla vicenda di Antonino Laganà, avvenuta il 6 giugno del 2008, in piazza Porto Salvo. Nessuno rispose all’invito di Stefania Gurnari, la madre, determinata nel fare giustizia, che è stata per anni isolata e ha dovuto persino sentire dall’avvocato difensore degli imputati (oggi condannati) ma anche dalla vox populi che, in fondo, “il bambino si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato”: in una piazza, durante la recita scolastica.
Nella stessa piazza sul lungomare, negli scorsi giorni, il Vescovo della diocesi reggina ha esposto il quadro della Madonna di Porto Salvo, condannando apertamente e in tutte le sedi le violenze, alla presenza di tutti i parroci della zona pastorale e dei parrocchiani, con un atto fortemente carico di significato. In questa terra in cui la Chiesa è stata spesso complice della ’ndrangheta e contro le vittime, è un forte segnale dal punto di vista simbolico, su cui nessuna testata nazionale ha tuttavia ritenuto opportuno soffermarsi.
Lo stesso sindaco del paese ha dichiarato sin da subito la volontà di costituirsi parte civile nel processo. Peccato, però, che durante la fiaccolata abbia attaccato “certa stampa locale” (il TG3 regionale per il servizio con le interviste nel paese in cui emerge una sorta di difesa degli stupratori) che, a suo dire, avrebbe “infangato il paese e il suo operato”: il primo cittadino ha così fatto passare il messaggio - sbagliato e da condannare, come fatto da Libera - che il racconto è più grave dell’omertà e della violenza.
Partiamo dalle scuole.
E poi le parole pesantissime del preside Francesco Sclapari: “La scuola non c’entra, ognuno deve pensare alla sua famiglia”. Invece la scuola c’entra eccome. È da quelle aule che dobbiamo partire per cambiare le coscienze, per interrompere l’autogenerarsi continuo della cultura della violenza mafiosa, sempre più pervasiva proprio tra gli adolescenti di tutto il Sud: da un lato, il fascino dell’immaginario mafioso; dall’altro la scuola pubblica sempre più indebolita dai continui tagli e dall’assenza di prospettive e possibilità concrete per il proprio futuro una volta terminati gli studi. E se qualcuno si permette di dire che la scuola non c’entra è come se stesse dicendo che lo Stato può restare a guardare o, peggio, far finta di non vedere.
Se accettiamo l’idea che la famiglia è l’unica detentrice dell’educazione, condanniamo automaticamente intere generazioni all’impossibilità di emanciparsi dalle proprie condizioni culturali di partenza. E questo è valido ovviamente sempre, ma è proprio in contesti come quello di Mèlito ad assumere una valenza fondamentale. Garantire che in tutte le scuole sia data priorità all’educazione ai sentimenti e alla cura delle relazioni contro la violenza di genere e alla costruzione di una pedagogia autenticamente antimafiosa contro la violenza della ‘ndrangheta è la sola possibilità per assicurare a chi nasce e cresce in contesti dominati in maniera pervasiva dalla presenza mafiosa di riscattare la propria esistenza.
Per farlo, serve evidentemente l’intervento dello Stato, da intendersi non soltanto come investimento di risorse (che sarebbe comunque un bel passo in avanti, visti i tempi che corrono!) ma anche e soprattutto nei termini di una nuova cura e attenzione ai processi formativi dei docenti e di tutto il personale che opera all’interno delle scuole.
Oltre le scuole.
Le violenze di genere non sono (l’abbiamo già detto e lo ripetiamo) purtroppo qualcosa di né tipicamente calabrese né ascrivibili soltanto a contesti “bassi” dal punto di vista socio-culturale. Le possibilità di reagire, di ottenere supporto, di mettere fine ai soprusi e autodeterminare davvero la propria vita (affettiva, sessuale, lavorativa, relazionale) sono invece ancora, quelle sì, profondamente inferiori se si vive in contesti come questi. A Mèlito (e non solo) non esiste un centro anti-violenza, nonostante a livello nazionale ne sia previsto uno ogni 10.000 abitanti. Il più vicino è a Reggio Calabria, ma per una ragazza di 13 anni senza il supporto e la convinzione di qualche adulto anche solo raggiungerlo diventa un problema (fra l’altro non è facile per le donne convincersi a denunciare, figuriamoci a 13 anni!). Il Ministero ha istituito nel 2009 un numero di pubblica utilità (1522) attivo 24 ore su 24, senza mai preoccuparsi di pubblicizzarlo nelle scuole o su tutto il territorio nazionale. Se sei vittima di violenza di genere, il rischio è che davvero non hai idea neanche di quali siano gli strumenti e le persone, al di fuori delle tue conoscenze personali, a cui puoi chiedere aiuto. Eppure, in un Paese dove ogni anno il numero delle donne uccise dai loro ex o attuali compagni/mariti/amanti supera le 150 persone e in cui l’Istat denuncia che sono circa 7 milioni (il 31%, una su tre) le donne che subiscono qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, informare e fornire gli strumenti per prevenire o denunciare situazioni di questo tipo dovrebbe essere una priorità. La legge sul femminicidio (L. 119/2013) aveva previsto uno stanziamento di circa 16 milioni per il piano antiviolenza e le case rifugio sul territorio nazionale, ma sull’erogazione e la destinazione di quei fondi ancora troppe sono le ombre. In assenza di un consistente intervento statale, la prevenzione ai fenomeni della violenza di genere rimane dunque nelle mani degli enti locali, che a seconda della sensibilità dei governi di turno, stanziano o meno fondi e investono o meno in progetti. E qui che rientra in ballo ancora una volta la questione meridionale e la Calabria.
Non fermiamoci qui.
Abbiamo sentito l’urgenza di raccontare quei germogli di speranza che abbiamo colto in questa triste storia. L’urgenza di non lasciare sola la Calabria, di non lasciare sole le sue donne e le sue vittime.
I segnali positivi emersi sul territorio non sono certamente sufficienti, non possono e non devono bastare. Non lasciamo che anche questa pagina diventi notizia vecchia nel giro di poche settimane. Non accontentiamoci delle dichiarazioni enfatiche e delle celebrazioni. Non abbassiamo la guardia. Dobbiamo ricostruire il senso di comunità distrutto e martoriato dalla solitudine di tutte e tutti quelli che si sentono abbandonati. Le nostre terre, la nostra gente, le nostre scuole, i nostri quartieri, le nostre città, devono tornare ad essere nostre: di tutte e tutti noi.
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